Primo Hommage

di
effeffe

 

foto di Tina Modotti

 

Quando il citofono suona sono già pronto a scendere, anzi quasi ne anticipo la suoneria, orribile, sussurrando, per non svegliare gli altri : scendo.
Ho poco più che vent’anni e si parte, in banda per Roma. Ma questa volta non per ammirare i musei vaticani o le piazze storiche come avevamo fatto durante le famose gite scolastiche del biennio al liceo scientifico Diaz di Caserta. E tanto meno per marciare sui fori imperiali il due giugno, come ogni anno, per tre di fila, avevo fatto da cadetto della Nunziatella. Si va a Roma per il primo maggio, per la festa dei lavoratori, per la falce e il martello, ma soprattutto per affermare il diritto e non più il dovere di essere comunisti.

Quando la corriera si mette in movimento nel cielo nero brillano ancora le polveri degli ultimi mattoni del muro di Berlino esploso per inerzia della storia, e il grido soffocato dal corteo di carri armati , dello studente di Tienammen . Si doveva partire e andare tutti a Roma per prendere a calci nel culo il coccodrillo liberato su tutte le pagine dei giornali, che recitava: “fine del comunismo”.

Alle ultime file ci sono i più radicali mentre accanto all’autista c’è uno della FGC. Noi più libertari siamo nel mezzo, e quando attraversiamo le strade deserte della piccola città bastardo posto , piccola città bastardo posto dorme ancora. All’imbocco dell’autostrada si infilano le prime macchine dei pendolari ma siamo i soli a prendere direzione Roma. Sulle prime non si parla, troppo sonno, troppa curiosità interiore, poi ciascuno dialoga con la propria memoria.

La prima bandiera rossa come labbra baciate per la prima volta, quella in un angolo della sede di Vicolo Solferino, Lotta Continua per il Comunismo. Una bandiera che come certi vini, era migliorata col tempo, e il rosso più rosso.
Vi si accedeva tramite un cortile e per arrivarci si poteva sia dal lato di Via Mazzini che dalla Flora. Se si decideva per la prima possibilità si rischiava doppiamente. Uno, perché cinquanta metri più in là, al Buffolano c’erano i fascisti, secondo perché cinquanta metri prima c’era la sede della Protezione civile, quella che mio padre Roberto Forlani aveva tirato su dopo vent’anni di campi di lavoro in tutta Italia e antincendio insieme a quelli della forestale.

Se mi avessero visto gli uni, i fasci, o mio padre, il risultato sarebbe stato lo stesso, e allora, meglio arrivarci dalla Flora. Perché quella di lotta Continua era – a detta degli altri, non mia – un Covo di terroristi, una sorta di vivaio a cui prima Linea aveva negli ultimi deliri lottarmatisti attinto a piene mani – cosa non assolutamente falsa.

Devo dire che chi non abbia toccato, maneggiato, un ciclostile non potrà mai capire gli anni settanta, i primi ottanta. I nostri anni di piombo erano tutti in quella tipografia portatile, e se dei proiettili c’erano rimasti in gola solo i bossoli delle leggi speciali, devo dire che dell’altro piombo, quello dell’inchiostro c’era rimasta la malattia della scrittura. La stessa che di domenica, nella città operaia del nord che mi ospita, oggi, vent’anni dopo, mi spinge a cercare in un angolo recondito della memoria un lembo di bandiera rossa, la ruggine della falce e il legno indurito del martello.

O il ricordo nitido della prima manifestazione. Quella per riparare i cessi della Diaz e così la seconda e la terza. Giancarlo Leone, che sarebbe diventato un eccellente cabarettista aveva inventato anche lo slogan. Olì olà i cessi c’hanne rà, (trad. olir olar i cessi ci devon dar) . Insomma, negli anni ottanta, in provincia, le grandi rivendicazioni ideologiche si erano ridotte al corretto funzionamento delle turche. In parole povere, poverissime, il riflusso ovvero quello che pomposamente veniva definito come tale, era una questione di scarichi nelle grandi fogne della realtà di ogni forma di utopia. E che tutti si potesse finalmente dire: viva i cazzi nostri.

ritratto di effeffe, opera di Paolo Cossi

Agli inizi dei novanta invece era esploso nei licei e nelle università un rigurgito di antifascismo, come avrebbero cantato i 99 posse, che non erano ancora i 99 posse ma Luca e Marco, ora seduti agli ultimi posti del pullman su cui viaggiamo e accompagnati da capelli lunghissimi legati dietro. Al novantesimo minuto della grande partita giocata dal movimento avevamo strappato dalla cantina la bandiera rossa dei nostri fratelli. Uno di loro, ormai pubblicitario affermato, scriveva la nostra storia a partire dall’avvistamento di una pantera nelle campagne romane. In realtà non si è mai saputo se ne fosse stata una, né provata la cosa seppure ogni tanto spuntasse un video girato da un videoamatore, in cui si aggirava furtiva tra gli alberi. Ripresa puntualmente dai telegiornali.

La pantera siamo noi – gridavamo, anzi lo scrivevamo dappertutto. Da Palermo, dove tutto era cominciato, a Napoli e Roma, a Torino passando per Bologna e Firenze.Una lotta con le occupazioni totali delle università a colpi di fax e fotocopiatrici. Un consumo di carta tale da far sparire, l’equivalente di San Marino, della foresta amazzonica. Ma a noi, all’epoca non ce ne fregava un cazzo, di San Marino.

E ora alle otto del mattino, in una prima pausa da autogrill, prima di Cassino, morti di sonno andiamo al primo maggio che sarà come i tempi supplementari di una partita giocata tra due campi. In realtà di un campo solo visto che a giocarsi il titolo di esistenza ci sono soltanto i comunisti. Da una parte quelli che non sanno di esserlo e dall’altra, quelli che sanno di non esserlo più.

Una pantera nel motore, sarebbe bastata a farci arrivare in orario al mega appuntamento in Piazza Esedra, a ridosso di Termini. E mai animale sulla cui silhouette si sovrapponeva quella del puma campione del Napoli di Maradona, mi era sembrato così azzeccato, nella rivincita generazionale in corso.

Ci aspettava un primo maggio da inizio secolo, da rivoluzione bolscevica, di quelli che avrei vissuto a Parigi nel 95, quando mezza Francia fu bloccata da uno sciopero a oltranza di tutta la classe operaia e intellettuale. Quando sfilavo pieno d’orgoglio con il sindacato anarchico della CNT, quello delle bandiere rosse e nere e con il gatto dal pelo dritto nel mezzo. Il rosso e il nero di Leo Ferré, per capirci, dei comunardi irredentisti e utopisti di fine ottocento. Tra i fumogeni rossi che come lanterne ferroviarie anticipavano la fiumana di popolo straripante lungo tutti i grandi boulevard da Nation alla Bastille, dall’Opera alla Republique, e Saint Michel .

Secoli di rivolte scandite dagli slogan e dalle icone portate in processione con le bandiere. Da Che Guevara a Marx, Lenin, Mao, Ho chi min, fino agli antichissimi Spartaco e Garibaldi, i grandi sindacati, CGT (Confédération Generale du Travail) Act Up, i movimenti omosessuale e lesbico, quelli della Ligue Révolutionnaire, i comitati di base.

Ora, a qualche mese da Italia novanta, dalla penombra delle ultime file del pullman su cui siamo, qualcuno grida, “esproprio proletario”. All’autogrill di Cassino, dove ci siamo fermati, in realtà l’unica cosa espropriabile è un caffè, e una velocissima lavata ai bagni. Una sigaretta nell’area di sevizio che sa di benzina e tubi di scappamento.

Il caso vuole che ci si trovi al punto esatto da cui una coda interminabile di autobus con bandiere rosse sui fianchi percorre l’autostrada. Dal sud diretti a Roma. Il mio compagno di viaggio, alza il pugno chiuso e uno dei mezzi con una potente tromba risponde al saluto. Come quando ricambi il saluto da un ponte sulla Senna che stai attraversando nel momento esatto in cui un Bateau Mouche percorre il fiume e i turisti in poppa ti fanno ciao con la mano e tu rispondi al saluto. Fai ciao con la mano.

Si fa rapidamente la conta per essere sicuri di non lasciare nessuno a terra e si riparte.
Qualcuno intona John Brown giace e altri lo seguono. A un certo punto Tonino Ombra attacca con la canzone del movimento studentesco napoletano, e che sull’aria di spingole francese faceva così:

Nu juorno mme ne jètte do partite
Perché vuleve fà a rivoluzione

Nu juorno mme ne jètte do partite
Perché vuleve fà a rivoluzione

Mme chiamma nu cinese: “Trase, trase,
Viene cum mè si vo’ fa à rivoluzione

Mme chiamma nu cinese: “Trase, trase,
Viene cum mè si vo’ fa à rivoluzione

Io, che sóngo nu poco leniniste
Ie me ne iette nu poco chiù a sinistra
Spontaneista mò nun song chiù
So militante dell’esse U

(che non è un supermercato ma stava per sinistra universitaria, N.d.A)

Adesso però, dieci anni dopo, bisognava fare il percorso a ritroso, più che ire bisognava tras ire, ovvero fare finta che si entrasse nel PCI, perché si chiamava Partito Comunista Italiano, mica la Cosa, o PDS, Ds, s, …

Bisogna cantare adesso perché così il tempo passa in fretta. Siamo in orario, tra un’ora si arriva e non vediamo l’ora, quell’ora. E allora si canta. Chissà perché i canti comunisti sono un inno al sacrificio. La stessa bella Ciao, che ha un’aria allegra, è una storia di morte, se ci si sofferma sulle parole. Eppure all’origine non era così, cioè solo in parte, come l’internazionale che comincia con con la constatazione che la classe operaia, sfruttata, schiavizzata, massacrata, l’ha presa nel culo fin qui ma che, nel futuro, d’allora in poi, con il sole dell’avvenire si farà il culo a quegli altri. Diversa Morti di Reggio Emilia, che è terribile e umana, anzi tanto più terribile perché umana attraverso quei nomi e cognomi di operai, scanditi su un’aria verdiana. Quando dalle prime file partono le prime note di “in morte di SF, di Guccini e i nomadi, Lunga e diritta correva la strada è tutto un grattarsi i coglioni . Qualcuno grida “no, NOOO, basta che porta sfiga quella…

Meglio Lucio Battisti. Ma è di destra. E chi l’ha detto. Lui, in un’intervista. E chi se ne frega. Cantiamo Umberto Tozzi, almeno lui era di sinistra, lo sapete, coi diritti di “ti amo” finanziava l’Autonomia. Se proprio si deve cantare Tozzi preferirei Gloria.
E infatti una ragazza affiliata alla FGC grida stonata “Gloria, GloriaAAA, manchi tu nell’ariaAAA…

Vorrei essere libero, libero come un uomo – mormoro.
Che c’è ? – mi chiede Chiara, la mia ragazza
– Niente.- faccio io.

Roma. Il cartello Roma ha su di noi lo stesso effetto che sui marines americani che risalendo da Anzio, nella guerra di liberazione, giungevano alle porte della città aperta. E se il raccordo anulare di sinistro non ha solo il nome di un dito piantato in un occhio, nel migliore dei casi, l’esperienza dell’autista, compagno anche lui, faceva che si imbroccasse la strada giusta al primo colpo. Accadeva anche questo nei primi novanta.

Quando arriviamo in Roma centro, che è sabato, non c’è nessuno. Niente bandiere, posti di blocco polizia. Nessuna banda di Reggio Emilia che intona tutti i canti rivoluzionari del mondo e che mi fa vibrare ogni volta come una spiga al vento. Ci guardiamo tutti esterrefatti come chi si rechi a uno stadio che non ha partita, a un appuntamento amoroso e si ritrovi senza amata. Lo sguardo corre al direttorio che è nelle prime file e che ha organizzato tutto, i tre pullmann , il soggiorno, il luogo e l’ora, l’incontro con gli altri compagni in provenienza da Napoli. Il loro sguardo perso nel nulla tuttavia non lascia immaginare nulla di buono.

Non c’è nessuno, è ora di pranzo il sole picchia come un celerino infuriato. Quando si scende, poi, ti divora gli abiti impregnandoli di sudore. Si scende tutti un po’ alla volta, chi per sgranchirsi le gambe, chi per fumare una sigaretta, tutti per cercare di capire.
E tutti ci si guarda intorno. Trovare che so un manifesto da primo maggio, una bancarella dell’ex repubblica democratica tedesca (Deutsche Demokratische Republik), una tenda cubana con Rum d’annata. Nada de nada. Per fortuna arriva un vigile trafelato. Pensiamo che sia un compagno che accorra a darci lumi e invece è un vigile incazzatissimo che ci intima di ripartire perché lì non possiamo stare.

Scusi signor vigile – gli chiede il figiciotto, ma il primo maggio?
Lui lo guarda manco gli avesse chiesto come fare per togliere una multa.

– Non c’è più- gli risponde quasi seccato
– Come non c’è più? Rilancia il primo seguito da altri compagni
– Ma da dove venite, scusate?
– Da Caserta
– Adesso capisco- sorride e la cosa non mette di buon umore i viaggiatori
– C’è il 31 aprile al posto del primo maggio
– E chi l’ha deciso?- chiedo io
– Il partito
– Quale partito?
– Il partito Comunista Italiano. Scandisce bene le lettere perché non si presti ad equivoci
– Quando?
– Stanotte?
– Ma dove?
– Qui, alla sede del partito, anzi all’ex sede dell’ex partito
– E allora?
– Niente partito e niente primo maggio
– E’ sicuro, signor vigile?
– Certo. Non c’è più niente. Però di una cosa sono sicuro ed è che dovete andare via di qui, subito

E se ne va. Noi restiamo senza parole. Senza coraggio e basiti. Nemmeno incazzati. Qualcuno aveva deciso e se aveva deciso così era per il bene di tutti. Noi eravamo arrivati con un giorno di anticipo. Se fossimo arrivati l’indomani sarebbe stato con un giorno di ritardo. E d’ora in avanti, come è giusto che accada per ogni utopia, sarebbe stato sempre o troppo presto o troppo tardi. Poi qualcuno ha cantato

Era de maggio e te cadéano ‘nzino,
a schiocche a schiocche, li ccerase rosse…
Fresca era ll’aria…e tutto lu ciardino
addurava de rose a ciento passe…

e noi con lui.

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27 Commenti

  1. ps, due cosine:
    chi è l’autista che guida con i guanti?
    ho aperto il sito del primo maggio….
    gran bel ricciolone l’Andrea Rivera ;-))
    Bye
    ora vado a sistemare la dispensa.

  2. La prima bandiera rossa come labbra baciate per la prima volta,

    …cosa c’è di più “rivoluzionario”, Furlen?

  3. Grazie effeffe,
    Il testo mi ha impressionata: energia, passione, giovinezza.
    Rosso è bello, Rosso senza concessione,
    Rosso dei papaveri fioriscono sui petti,
    Rosso capezzolo turgido, rivoltoso.
    Maggio 68 bello!
    “Sous le pavé la plage,
    Jouissons sans entrave!” Che male c’è? N’en déplaise à Sarkozy.
    Sono nata nel 67, a fine luglio, e sono riconoscente per il coraggio della generazione 68.
    Ho paura che stia preparando una società grigia, un laboratorio che creerà lavoratori docili.
    Grazie per questo lembo di memoria.

  4. O, oui…

    “Trois allumettes une à une allumées dans la nuit
    La première pour voir ton visage tout entier
    La seconde pour voir tes yeux
    La dernière pour voir ta bouche
    Et l’obscurité tout entière pour me rappeler tout cela
    En te serrant dans me bras.”

  5. @ effeffe,

    Dans le décalogue, la numéro 13 et la numéro 15 me plaisent beaucoup, beaucoup.
    Complimenti! Les poétiquettes: bell’idea creativa.

  6. vino rojo comme la bannera
    effeffe
    ps
    però facciamo piano perchè sennò di là si incazzano. Ancora con sta storia di dio. Minchia tutte le volte che beve, Andrea c’ha le visioni come a Medjigurie. Eppure gliel’ho detto e ridetto mille volte: non c’è, non c’è… hai ragione tu, non starli a sentire, gli artri

  7. cappy, tesoro, non aver paura di quell’immagine, non turbarti. vedi, il martello serve per inchiodare effeffe alla prima croce disponibile; la falce, invece, per recidere alla radice l’uccellagione di tutti quei lupi famelici che oseranno attentare alla tue purezza. dormi tranquilla, piccola.

  8. caro Francesco,
    il primo maggio l’ho fatto alla may day di napoli, cosa che ti sarebbe alla fine piaciuta, penso, coi fratelli e le sorelle dei centri sociali, tipo quelli di officina che faceva sedici anni di occupazione

    b!

    Nunzio Festa

  9. Ieri, ho visto Aprile di Nanni Moretti, nell’ambiente “des conversations italiennes” ad Amiens.
    Strana la somiglianza fra Berlusconi e Sarkozy…
    Mi è piaciuta la pellicola, sopratutto le scene con Moretti e il bebè.
    Ma invece Cappuccetto Rosso ho fatto incubi.

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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