Una identità a misura di vittima
di Daniele Giglioli
L’identificazione con la vittima è diventato il principale generatore di identità nella coscienza contemporanea, l’unico dispositivo discorsivo in grado di dar voce non tanto a un bisogno di avere (diritti, sicurezza, giustizia), quanto piuttosto a un desiderio di essere. Solo nella forma cava della vittima troviamo oggi un’immagine verosimile, anche se rovesciata, della pienezza di essere a cui aspiriamo: l’immaginario della vittima ha finito per assumere il carattere di quella che Furio Jesi chiamava una «macchina mitologica», una macchina che a partire dal centro vuoto di una mancanza genera incessantemente una mitologia, un corpus di figure capace di soddisfare un bisogno che proprio da quel vuoto ha tratto origine. Da quella macchina mitologica non scaturiscono solo i racconti delle minoranze ma anche e forse soprattutto la legittimazione di quella che Arjun Appadurai, studiando i conflitti nazionalistici nell’India degli anni Novanta, ha denominato efficacemente la «violenza della maggioranza».
Una macabra concorrenza
Quale potente della terra, grande o piccolo, politico o chiesastico, non dichiara che lui non si lascia intimidire? Quale operazione militare non si giustifica con la difesa delle vittime? Quale pulizia etnica, l’ex-Jugoslavia insegna, non prende le mosse dalla necessità di vendicare vere o presunte vittimizzazioni subite in un passato più o meno remoto? E quale migliore e peggiore esempio del conflitto israelo-palestinese, dove gli eredi delle vittime della Shoah vittimizzano gli abitanti dei territori occupati, i quali a loro volta negano l’esistenza della Shoah in un circolo infernale senza fine? I segni di questo processo sono ovunque.
Primo tra tutti, il fatto che il genocidio sia diventato il principale paradigma biopolitico del nostro tempo – quello nazista degli ebrei e tutti gli altri che a esso vengono a torto o a ragione paragonati – col risultato perverso di istituire le vittime stesse a paradossale e blasfemo oggetto di desiderio metafisico. Difficile spiegare altrimenti la macabra concorrenza tra i colpiti (il nostro è stato peggio del vostro, il nostro è l’unico vero, il mio è cominciato prima, il mio è durato più a lungo, tu non hai diritto di parlare del tuo perché non condanni abbastanza il mio, ecc.); o la demenza paranoide dei negazionisti (non è vero, quando mai, che genocidio, vi siete inventati tutto), che si autovittimizzano escludendosi da uno dei pochi assunti condivisi dell’intero consesso umano e richiudendosi nel ghetto dell’esecrazione universale; o la stupefacente comparsa di impostori quali il polacco Benjamin Wilkomirski o lo spagnolo Enric Marco, che si sono finti deportati ad Auschwitz quando non lo erano affatto: non era certo il loro un mezzo ingegnoso per sbarcare il lunario, ma qualcosa di infinitamente più doloroso, la spia di una mancanza ben più radicale. Se solo la vittima ha valore, se solo la vittima è un valore, allora quel valore non può che diventare oggetto di rivalità.
La sofferenza, fonte di diritti
Altri esempi potrebbero essere la recente «scoperta» del mobbing (come se gli operai della Fiat di Valletta non avessero mai ricevuto vessazioni); il proliferare di studi sulle «molestie morali»; l’ossessione tutta contemporanea per la pedofilia – quale migliore vittima di un bambino «innocente» e regredito a un angelico stato di asessualità prefreudiana? E, ancora, la moltiplicazione degli orgogli identitari ottenuti attraverso il rovesciamento di uno stigma (orgoglio nero, gay, femminile), con la conseguente istituzione di cattedre, dipartimenti universitari, convegni e pubblicazioni specialistiche, e soprattutto di leadership intellettuali e politiche che si autoinvestono della missione di rappresentare, tutelare, ri-vendicare sofferenze e sofferenti; la concentrazione spasmodica dei media su ciò che Luc Boltanski ha chiamato «lo spettacolo della sofferenza» e Susan Sontag «il dolore degli altri».
Identificazione, concorrenza, invidia. «Ciò che si desidera sottrarre alla vittima, per rivestirsene a propria volta – ha scritto Pascal Bruckner in La tirannia della penitenza. Saggio sul masochismo occidentale, un pamphlet superficiale e opportunista ma pieno di acuti rilievi come lo fu anni fa La cultura del piagnisteo di Robert Hughes – è l’eminenza morale, lo splendore tragico di cui sembra godere. La sofferenza dà dei diritti, è addirittura la sola fonte del diritto (…); l’afflizione resta padrona del campo; chiunque se ne impadronisca, si impadronisce anche del potere. La grande superiorità dell’infelicità sulla felicità sta nel fatto che procura un destino, e solo quest’ultimo ci dà il senso della nostra distinzione e ci colloca a pieno titolo in un’aristocrazia di reietti (…) Ormai il termine indica la trasmissione di un nuovo valore patrizio: il dolore ci innalza a un ordine nobiliare inedito. Eccoci dunque tutti legatari, da una parte e dall’altra della stessa barriera, tutti intenti a perpetuare una distinzione, una mancanza che ci marcano per sempre. Non creiamo più le nostre vite, ripetiamo le ferite di ieri». Di qui l’ossessione della memoria, una memoria scandita secondo «giorni» artatamente decisi dalle istituzioni, depositata in innumerevoli «libri neri» (del comunismo, del capitalismo, della psicoanalisi, ecc.), e che stenta a trasformarsi non in oblio ma in storia, una storia non intesa come fedeltà a se stessi ma come verità di tutti, come apertura al divenire, come promessa di un futuro da costruire, e non di un passato imposto, insieme subito e rivendicato, in cui si possa non essere più vittime.
Se dunque la vittima è diventata, come scrive René Girard, «il nuovo assoluto», un’idea non più sottoponibile a verifica, una zona di rispetto esente dal vaglio della critica, allora il compito del pensiero critico non potrà essere che quello di penetrare in questa cittadella. Ma sarebbe cattiva critica quella che si limitasse al proposito di demistificare il mito (così come è cattivo illuminismo quello che sottovaluta la forza delle passioni, ciò che i veri illuministi non hanno mai fatto), per esempio rivelando volta per volta e punto per punto gli interessi che si nascondono dietro alle legittimazioni vittimarie. Necessario ma insufficiente – a parte il fatto che le vittime esistono davvero. Quando ci si trova di fronte a una macchina mitologica, la sola demistificazione non basta, e può essere perfino fuorviante.
Meglio servirsi di quella pratica, recentemente rimessa in circolo da alcuni scritti di Giorgio Agamben, che va sotto il nome di profanazione: un restituire al profano, all’uso comune, alla prassi umana ciò che è stato separato e allontanato in una sfera sacra, altra, intangibile, rifiutando il suo confinamento nell’immaginario (luogo del rispecchiamento, del desiderio riflesso e della rivalità) e la sua traumatica riapparizione nel reale.
La macchina mitologica della vittima va interrogata nella sua pretesa di verità, perché essa rappresenta una risposta sbagliata a una domanda più che giusta, e senza la quale non potremmo più pensare la nostra stessa modernità. L’immaginario della vittima, infatti, non è appannaggio unico della cosiddetta e maldenominata «condizione postmoderna», e recita un ruolo enorme nella costituzione del soggetto moderno: basti pensare, molto in sintesi, al nesso tra rivendicazione di identità, pensiero dell’accusa e paranoia persecutoria nelle opere politiche e autobiografiche di Rousseau (perseguitatemi, e nella vostra menzogna rifulgerà la mia autenticità); al sentimentalismo compassionevole dei giacobini; al culto dei caduti nel nazionalismo europeo.
Anche il movimento operaio ottocentesco si è mosso sulla base di due retoriche mai del tutto convergenti e spesso contrastanti. Da una parte il miserabilismo, i dannati della terra, i proletari che non hanno nulla da perdere, la filosofia della miseria. Dall’altra, l’orgoglio dialettico di chi sente insediato nella punta più avanzata della produzione sociale e rivendica il diritto a guidarla: un diritto del fare, non dell’essere in quanto si è subito. E un discorso analogo potrebbe essere fatto per le ideologie della decolonizzazione.
Ciò che è venuto meno con la crisi dei «grandi racconti» dell’emancipazione è però il secondo corno dell’opposizione: non l’orgoglio ma il diritto, non un’essenza da rivendicare ma l’apertura di uno spazio di azione, non una privazione ma la possibilità che il «nulla» diventi «tutto», come diceva Sieyès del Terzo Stato all’alba della Rivoluzione francese. A quei racconti che mandavano letteralmente in pezzi la dialettica hegeliana tra servo e padrone – io sono il servo e proprio perciò non ho paura della morte – si è sostituita l’ansia di riconoscimento che anima le mille e mille narrazioni dell’identità.
Alla domanda «che fare»? che ha dominato la politica moderna, ha dato il cambio un ansioso e querulo «chi sono»? E in questo senso, la risposta: una vittima, non è poi così sbagliata. Chi è ridotto a potersi chiedere soltanto chi è, e non cosa può fare di sé e delle sue relazioni con gli altri, è senz’altro una vittima. Svincolata dalla prassi, nessuna meraviglia che quella macchina giri a vuoto, così come attorno a un immenso vuoto ruota la mitologia della cospirazione, del complotto, della congiura onnipresente e universale, altro tema ossessivo dell’episteme postmoderna, altro lascito della modernità non sufficientemente elaborato, che funge da penoso contraltare alla requisizione dell’azione efficace nella sfera della razionalità sistemica.
La responsabilità in questione
Entrambe hanno però il merito, nella loro razionalizzazione fallace guidata dal risentimento, di riproporre il problema della responsabilità. Chi fa cosa? Di chi è la colpa se le cose vanno come vanno? Chi mi fa torto, chi mi sta nuocendo?
Più che deridere chi se la pone (come i ciclopi Polifemo: se Nessuno ti uccide allora lasciaci dormire), occorre rendersi conto del fatto che attraverso quell’interrogazione malposta continua a operare un nocciolo razionale senza il quale della modernità non è più nulla: l’idea, nientemeno, che la storia non la fanno gli astri o la provvidenza o le leggi universali dell’economia o gli scarti capricciosi della deriva genetica, ma l’agire degli uomini e delle donne.
Le razionalizzazioni vittimarie e cospirative sono la protesta (impotente e pericolosa se abbandonata a se stessa) contro quella storia senza politica che è il retaggio comune del cittadino espropriato della sua dimensione pubblica, contro quell’umanesimo animale, come lo ha chiamato Alain Badiou, che restringe il soggetto a «nuda vita», e cioè a mero portatore di astrattissimi diritti umani – i quali del resto affiorano solo, come ha mostrato Zizek sulla scorta di Hannah Arendt, nel momento in cui vengono meno i diritti politici, perché è vero che sono i diritti politici a fondare i diritti umani, e non è vero il contrario. Sono la ferita tenuta aperta, il manque-à-être autolesionisticamente esibito, di una modernità che, più che disatteso, ha realizzato parodicamente le proprie promesse.
Sono il riflesso, la spia, l’autodenuncia della riduzione della soggettività a mera identità: perdita secca, a scongiurare la quale non basterà mai il volenteroso ottimismo dei cantori dell’identità performativa, della cultura come invenzione, del meticciato come libera circolazione delle merci simboliche da ricombinare a proprio piacimento, perché l’ossessione identitaria di cui l’immagine della vittima si fa interprete è l’esatto rovescio speculare dell’insistenza poststrutturalista sull’idea di un sapere senza soggetto, di un archivio di enunciati senza autore, di un mormorio – diceva Michel Foucault – di processi simbolici senza agente, disseminati magari sui mille piani di un rizoma zuzzurellone.
Per uscire dalla trappola
Se questo è vero, il compito più urgente del pensiero critico è quello di ripensare la categoria della soggettività come distinta dall’identità – performativa o «naturale» poco importa. Solo una nuova teoria (e una nuova pratica) del soggetto, solo una rinnovata combinazione di «chi» e di «che fare» può farci uscire dalla cattiva dialettica tra «cultura» ed economia politica, tra identità e disincanto, tra memoria ed eterno presente in cui siamo intrappolati.
Questo articolo è molto denso ed è animato certamente da buone intenzione, ma rischia affogare quando s’incomincia a usare un lessico strutturalista e conseguente: soggettività distinta dall’identità performativo o naturale, eccetera eccetera. Se prendo cento persone laureate in filosofie e gli chiedo di tradurmi il senso e la prassi metto in crisi un intero dipartimento di filosofia.
Ma è di questo linguaggio che abbiamo bisogno per trasformare e trasformarci? Mi sembra il linguaggio e la voce non di un corpo che parla e sente, ma di un sintetizzatore elettronico. Una machine computer.
Di che Uomo stiamo parlando?
Mi suscita maggiore suggestione, mi suggerisce una trasformazione che fa sciogliere i conflitti osservare da spettatore e da attore a come l’uomo bianco europeo pensa, fermandomi di volta in volta, da una angolo o punto di vista diverso della Storia ai fatti che sul Palcoscenico della Vita scorrono come cartoni e marionette, ma che posso far svanire in un attimo guardando altrove, a quell’altrove che è stato cancellato ma che non può essere distrutto, annientato, per dirla con Kafka.
Scelgo come exempla, a caso, un punto di vista, quello dell’indigeno americano del 16esimo secolo. Lo scontro tra la razionalità cattolica spagnola e francese di sfondo tomistico o la razionalità guidata dalla logica diagrammatica protestante degli’Inglesi da una parte e le concezioni sciamaniche degl’indigeni americani dall’altra. Lo ripeto, caso scoppiato nel 16esimo secolo e proseguito fino a oggi
Il pensiero dei bianchi ha sempre considerato automaticamente irrazionale l’indigeno, ma ci sono opere che capovolgono questo giudizio; penso fra i più recenti revisori al fisico Peat e l’urone G. Sioui (Blackfoot Physics. A Journey into the Native American Universe, Londra).
Nell’incontro con l’indigeno la logica binaria (tutto l’articolo di Daniele Gigliolo è vittima di questa logica) aristotelica su cui si fonda l’argomentare europeo cede: crolla la posizione d’immaginarsi uno spettatore immobile della storia in divenire; la lingua fondata sui sostantivi è sostituita da idiomi basati sui verbi, che agglutinano in vaste parole il contenuto d’una frase; l’enunciazione è sostituita da narrazioni allusive; scompare la distinzione fra corpo e anima, veglia e sonno, quella fra passato, presente e futuro; la concezione originaria del Pellerrossa è esente dalle categorie occidentali; manca completamente l’idea del Dio Signore che tutto sovrasta e regge, misterioso e temibile oggetto d’amore: il wakan tanka sioux è soltanto una forza vastissima e solenne.
Ancora meno presente tra i Pellerossa era l’ateismo epicureo che i libertini del Seicento si illudevano d’incontrare in loro.
Per un Sioux l’altro è come un membro della famiglia, ma l’altro non è in primo luogo l’uomo. Chiudersi in una comunità di uomini umanamente in disputa sarebbe per lui soffocante.
Il Sioux rivolge attenzione e saluti a tutto ciò che lo circonda, animato e non animato; osserva la forma della terra come un’articolazione intellettuale e passionale.
E’ solo un esempio, ho scelto per esempio un angolo del mondo, per dire che la trasformazione inizia quando ci si scrolla tutto il mondo di dosso che ci siamo cuciti addosso. Chi vuol capire capirà e agirà conseguentemente. Chi non vuol capire continuerà nell’indossare nuovi abiti abilmente cuciti dal sarto di turno. Togliersi questi abiti cuciti addosso è insieme difficilissimo e facilissimo. Come passare dal dolore alla gioia.
Ottimo pezzo. L’azione, in principio. Sulla necessità della fuoriuscita dalla dimensione vittimaria aggiunge un tassello Badiou (già da me citato su queste colonne): non di un’etica universale ha bisogno l’uomo, ma di un’etica delle verità. L’etica universale è quella che si riconosce nella preliminare definizone del Male assoluto, e che identificando l’Uomo come vittima ne fa scaturire il dovere d’intervento (e dunque: le guerre umanitarie, le guerre preventive). L’uomo, afferma Badiou, è altra cosa dalla vittima. Non può essere il suo stato vittimario a fondare un’etica. Lo stato di vittima riporta l’uomo al suo stato animale (alla nuda vita, appunto) – ma l’uomo è “qualcos’altro che un mortale” (appunto: una soggettività singolare) – e i diritti dell’uomo, se sono qualcosa, sono i diritti dell’Immortale (che si manifestano nel fatto che l’Uomo pensa ed è intessuto di alcune verità – plurali). L’Uomo che pensa deve rappresentarsi il Bene (riconoscibile a partire da alcuni eventi-verità), uscendo dalla dimensione vittimaria, e identificare il Male in conseguenza della rappresentazione del Bene.
hanno ragione i sioux: la “forza”. (mi viene da fare questa equazione: soggettività singolari=modificazioni della Sostanza=eventi).
Torgliersi gli abiti cuciti sulla pelle
è molto, molto difficile!
come il fatto di trovare la signora identità!
ma tutto ciò che può favorire questo percorso
per me è sacro!
Caro Marco, già in quello che tu scrivi vi trovo cuore, cioè sentimento che si esprime con parole “sentite”.
Ma ti chiedo: non credi che il problema non sia arrivare a distinguere il Bene dal Male? Mi sembra che gli uomini siano capaci eccome di distinguere il Bene dal Male, ma siamo anche molto abili a nascondercelo.
Io penso però che il bene e male non sono a valle ma a monte. Vengono dopo e non prima. E io ritorno a Prima, dove non c’è distinzione.
Nel modo che dici tu non se ne esce.
Che l’Uomo è un’altra cosa della vittima Girard lo afferma proprio mostrando l’antropologia mimetica. Non so se conosci cmq un autore che ha sviluppato Girard andando molto oltre. Mi riferisco a Giuseppe Fornari con il suo Da Dionisio a Cristo, Ed da Marietti.
Cmq anche Fornari, pensatore molto originale e di grande spessore, rimane a mio parere limitato, ristretto guardando solo dentro la cultura greca.
Caspiterina, mi vien la pelle d’oca: “un bambino «innocente» e regredito a un angelico stato di asessualità prefreudiana?” ma che cosa vuol dire??
Ma che scandalo!!
Caro Emanuele, io riesco a pensare il Bene solo come un a-venire, qualcosa che prende forma a partire di un evento di verità (mi è piaciuta molto la definizione di Badiou: “è la norma interiore di una disorganizzazione prolungata della vita” – nel senso che un processo di verità “scombina” ogni routine – e al posto dell’interesse sopravviene l’etica).
Quanto a Girard, ci sto lavorando sopra, anche narrativamente (tra l’altro lavoro con Transeuropa, ultimamente, e Fornari dirige insieme a Pierpaolo Antonello la “nostra” collana girardiana – però faccio ammenda, non ho letto il suo libro che citi).
non so perchè
mi viene in mente la forza di Achille
guidata dagli dei.
Mi vengono in mente le bellissime parole di Giovanni Paolo II “Non abbiate paura di aprire le porte a Cristo. Egli solo è la verità, la via, la vita!”.
qui sotto, il decimo commento era un commento di francesco de santis che ho cancellato. per due motivi: perché era lunghissimo e assolutamente non attinente al pezzo che sta qui sopra, e perché riportava due articoli datati 2005 come fossero in qualche modo fonte di dibattito adesso, mentre lo furono già allora. l’ho fatto più che altro perché tenevo molto a quest’articolo di giglioli, e anche che daniele giglioli stesso venisse – alla sua prima apparizione in NI – non accolto da spam seppure di qualità.
non volevo assolutamente censurare il commento (che riportava due lunghe e davvero interessanti dissertazioni sullo stato della letteratura contemporanea in italia, uno di massimiliano parente, l’altro di davide brullo), chiedo solo a Francesco De Santis di inserire i due aritcoli come commento a un altro pezzo, o se secondo lui sono così fondamentali da chiedere spazio per la discussione, che me li rinviasse a fandzu@gmail.com e magari fra qualche giorno li riposterò in home page
Luminamenti ha forse ragione a porre dei rilievi che mi sembrano però molto tecnici, verificabili con gli strumenti di una cultura filosofica.
L’uomo comune non può non riconoscere in questo pezzo uno degli stalli in cui si trova la sua percezione di sé nel mondo.
Io ho trovato il testo suggestivo, anche se non saprei dire se questa mia suggestione rappresenti un’autentica comprensione, prima del testo e poi dei diversi ordini di realtà ai quali fa riferimento, oppure se non sia principalmente effetto di una mia incontrollabile proiezione, di tipo essenzialmente fantastico, su di un complesso ben articolato di pensieri che mettono in relazione concetti, entità e processi molto generali ed astratti. La lettura dei commenti ha teso a rafforzare questa seconda ipotesi.
più lo leggo più mi mette in crisi
Domando, rileggendo Marco, ai diritti dell’Immortale che si manifestano nel fatto che l’Uomo pensa e poi continua dicendo che l’Uomo che pensa deve rappresentarsi il Bene. Ora mi chiedo: e se la realtà più autentica, fondata dell’Uomo non fosse il Pensiero ma Amore? Ne scaturirebbe una diversa rappresentazione del Bene!
Se questo articolo fosse un plotone di esecuzione, non so quanti poeti scamperebbero, oggi come spesso ieri.
io!
il presupposto di fondo ((bruckner, la tentazione dell’innocenza) è lo stesso dal quale parte Elisabeth Badinter in “la strada degli errori”: l’uguaglianza si nutre dello stesso, e non del diverso. In ambito femminista (multiculturalismo compreso) il dibattito è dunque lanciato, non da poco e a ragione. Bisognerebbe solo evitare la semplificazione ad effetto. Segnalo, a chi fosse interessato, Altri femminismi, corpi culture lavoro, manifestolibri)
Nella versione di Steyn, il problema non sono i perdenti endemici – alla Cho – ma tutti gli altri studenti del Virginia Tech. Quelli che gli hanno insegnato ad alzare le mani, ad aspettare da bravi il loro turno davanti al plotone d’esecuzione, a farsi sparare in faccia senza dare neanche l’impressione di una reazione. Secondo Steyn, vale sempre il vecchio adagio: “let’s roll”. Anche se hai il cuore in gola per il terrore, alzati e spaccagli il culo alla “vittima” di turno.
bel pezzo christian;
“Più che deridere chi se la pone (come i ciclopi Polifemo: se Nessuno ti uccide allora lasciaci dormire), occorre rendersi conto del fatto che attraverso quell’interrogazione malposta continua a operare un nocciolo razionale senza il quale della modernità non è più nulla: l’idea, nientemeno, che la storia non la fanno gli astri o la provvidenza o le leggi universali dell’economia o gli scarti capricciosi della deriva genetica, ma l’agire degli uomini e delle donne. Le razionalizzazioni vittimarie e cospirative sono la protesta (impotente e pericolosa se abbandonata a se stessa) contro quella storia senza politica che è il retaggio comune del cittadino espropriato della sua dimensione pubblica…”
Mi sembra davvero meritorio aver colto nella figura mitologica della vittima la realtà di un desiderio di politica e di autonomia, che pare costantemente frustrato; cosi come il tentativo di passare dall’ossessiva rivendicazione del “chi sono” ad una domanda sul “che faccio”.
Un modo poi di rovesciare questa immagine della vittima, è quella che mi suggeriva un amico: in una battuta: “quello che veramente funziona nel capitalismo è il comunismo, ossia tutto cio’ che implica cooperazione, generosità, lavoro gratuito, messa in comune dei saperi e dei dati, rispetto reciproco.” Come a dire due cose: esiste già un comunismo nell’oggi, che filtra attraverso qualsiasi ambiente sociale e sfera lavorativa; esiste sempre questa possibilità aperta, senza doverla impiantare in un al di là del mondo attuale; ma questo significa anche che più della nostra specifica identità, conta quanto possiamo fare oltre essa e al di là di essa.
si, solo che va evitato un rischio, e precisamente quello di porgere il fianco a destra. Come ha fatto bruckner, a quanto mi risulta ma i francesi di NI possono essere di sicuro più precisi.
Penso ad esempio a tirate come questa
“la moltiplicazione degli orgogli identitari ottenuti attraverso il rovesciamento di uno stigma (orgoglio nero, gay, femminile), con la conseguente istituzione di cattedre, dipartimenti universitari, convegni e pubblicazioni specialistiche, e soprattutto di leadership intellettuali e politiche che si autoinvestono della missione di rappresentare, tutelare, ri-vendicare sofferenze e sofferenti”
o questa
“Le razionalizzazioni vittimarie e cospirative….sono il riflesso, la spia, l’autodenuncia della riduzione della soggettività a mera identità: perdita secca, a scongiurare la quale non basterà mai il volenteroso ottimismo dei cantori dell’identità performativa, della cultura come invenzione, del meticciato come libera circolazione delle merci simboliche da ricombinare a proprio piacimento, perché l’ossessione identitaria di cui l’immagine della vittima si fa interprete è l’esatto rovescio speculare dell’insistenza poststrutturalista sull’idea di un sapere senza soggetto, di un archivio di enunciati senza autore, di un mormorio – diceva Michel Foucault – di processi simbolici senza agente, disseminati magari sui mille piani di un rizoma zuzzurellone”.
Pure badinter, pur dicendo alcune cose giuste, non è avulsa da tentazioni di questo tipo, che non hanno nulla di innocente.
Solo per dire che ricombinando (perché anche questa è una ricombinazione, o no?:) bisogna stare accorti.
@inglès
“esiste già un comunismo nell’oggi, che filtra attraverso qualsiasi ambiente sociale e sfera lavorativa”.
non lo credo: quello di cui tu parli è generico solidarismo individuale, con funzione consolatoria.
infatti funziona proprio come alibi: che tutto seguiti nello stesso modo è la fortuna del solidarista volontario et cattolicante: è la catena di montaggio delle opere di bene che portano in paradiso.
aggiungo O.T.
il comunismo si produce nella coercizione, nella dittatura di una classe su tutte le altre, nell’esproprio, nell’eliminazione degli oppositori, eccetera.
il comunismo si è prodotto in questo modo ovunque, inutile edulcorarne l’immagine: stalin non è una deviazione, né una degenerazione, è un frutto inevitabile e necessario del comunismo.
partire da qui per valutare cosa politicamente si è e se si è in grado di accettare stalin come un male necessario.
il resto sono cazzate da rifondaroli: il comunismo non è rifondabile, ma resta ancora, con tutto il suo male, l’unico possibile orizzonte di salvezza dalla distruzione planetaria.
La pressione dell’errore.
Il post di Giglioli mi sembra bello, al di là della chiosa sulla quale concordo con Luminamenti.
Forse la chiosa non era necessaria, che già la carne al fuoco è tanta.
L’affermazione della sofferenza come “fonte di diritti” è di per sé molto interessante e forse meriterebbe una specifica riflessione tutta nel campo dell’etica
In generale, il riconoscersi innanzi tutto come vittime, è il primo passo dell’aggregazione e dunque di ogni possibile et successiva azione.
Saltando a piè pari altre questioni molto dense sollevate da Giglioli, direi che un tema fondamentale di chi oggi voglia assumersi un ruolo critico fattivo risiede nel saper RICONOSCERE LE VITTIME (anche quando le vittime non sanno riconoscersi come tali) che sotto-stanno all’ordinamento sul quale galleggiamo e nel trovare il modo di renderle oggetto di riconoscimento conclamato e condiviso.
Esistono vittime di evento (metti quelle del G8 di Genova, quelle della criminalità, eccetera) e vittime di ordinamento (metti le vittime quotidiane del lavoro, gli schiavi delle piantagioni, quelle sessuali, le vittime del precariato e, perché no, quelle della fabbrica, eccetera): la società in cui viviamo, coi suoi bravi intellettuali, è pronta a riconoscere le prime, ma tace sulla funzione sistemica delle seconde, riconducendole a vittime evenemenziali, invece che strutturali, come di fatto sono.
“La pressione dell’errore” è una frase che non c’entra nulla col commento qui sopra.
scus.
a tash
in una battuta: il comunismo è rendere minoritari coloro che lo sono effettivamente, ossia quella ridottissima fascia di popolazione che detiene il monopolio della ricchezza mondiale (in termini economici, di risorse, di cognizioni, ecc.) e che riesce a rendere il suo punto di vista “universale”
la via sarà inevitabilmente coercitiva, ma non per forza nella forma storica della dittatura del proletariato; anche perché cio’ che deve diventare “maggioranza”, ossia tutta quella popolazione che è esclusa dalla ricchezza materiale accumulata, dalla deliberazione effettiva, ecc., non ha i caratteri omogenei che marx poteva all’epoca assegnare al proletariato
la posizione che ho espresso è tutto salvo che consolatrice, non a caso era anche la posizione di uno che si consolava poco, ossia Franco Fortini; il capitalismo non funziona come un blocco omogeneo, la politica non si riduce alla microentità italica, se il capitalismo funzionasse fino in fondo secondo i suoi principi ultraliberali e competitivi si autodistruggerebbe in brevissimo tempo
Ci sono letture di Girard così parziali da occultarne proprio l’elemento significativo (e salvifico). E’ la non colpevolezza della vittima che viene mascherata dalla macchina mitologica. Ma Girard riconosce nel Cristo la liberazione dalla macchina mitologica, cioè la sua demistificazione, proprio perchè il Cristo non è semplicemente il non colpevole ingiustamente sacrificato ma l’innocente che assume volontariamente il ruolo dell’agnello.
L’unico. (niente allegorie della rivoluzione proletaria, nè sacralizzazione della Shoah) L’antropologia di Girard è cristologica e per questo non è una sociologia ma una vera filosofia della storia: tolto questo, è disossata.
Incomprensibile e sterile.
Infatti, non direi proprio che la “macchina mitologica” di Girard sia “una macchina che a partire dal centro vuoto di una mancanza genera incessantemente una mitologia, un corpus di figure capace di soddisfare un bisogno che proprio da quel vuoto ha tratto origine”.
Credo che nessuno sappia in realtà cosa sia, e se esista davvero, una “macchina mitologica”, e che questi discorsi, condizionati da una logica di “smarcamento”, risultino criticamente innocui, anzi dannosi, perché espropriano totalmente i non esperti (ma i prerequisiti d’accesso non verranno mai esplicitati) della possibilità di parteciparvi. Un fumo teorico che presto o tardi si traduce per le masse in precettini morali. Per quanto non riesca a credere agli esiti estremi di Girard, e soprattutto di Fornari, questi due autori sono dotati di ben altra chiarezza.
Assodato che quello di Giglioli non è un invito all’azione, ma a una “nuova” postura crititica (“il compito del pensiero critico non potrà essere che quello di penetrare in questa cittadella”) via “profanazione” mi chiedo se la postura critica di questo pezzo sia da intendersi come “profanazione”, e se si di cosa.
Mi fa piacere che Walter Binaghi abbia letto Girard. Correggerei il suo: letture parziali. Diciamo pure che non lo hanno letto, altri.
Vedo pure citato Fortini e identificato con una precisa posizione. A me ricorda altro e se ho tempo riporterò uno delle sue ultime interviste.
In quanto alla via coercitiva…che vorrei che venisse esplicitata nelle azioni ( aparte la sua teoresi), mi sembra che con questa idea siamo proprio messi male.
La volontà di potenza ritorna sempre?
Le parole non sono di carta sono sassi. Attenzione!
@luminamenti
perché ti interessa tanto cosa abbiamo o non abbiamo letto?
perché non ce la fai a scrivere un commento senza citare almeno una dozzina di autori?
sembra che tutti questi libri ti siano rimasti tutti lì nella strozza, senza andare né su né giù, così che non riesci a dimenticarli.
dimenticarsi dei libri letti è importante.
credo.
@tashtego. Mi può interessare solo quello che hai (o avete) da dire su quello che hai letto e vissuto ( e questo non significa necessariamente che quello che hai letto poi lo hai vissuto o che quello che hai vissuto lo hai poi letto).
E quindi commento, scrivo e parlo liberamente seguendo il principio qui sopra, cosa che disturba chi predica bene e razzola male.
P.S bravo! avevo bisogno di te per sapere come funziona l’oblio. Ci sono tanti di quei libri che ho dimenticato e dimenticati (lo sai che leggersi qualche libro dimenticato del passato è importante?)
Tesi: il capitalismo è strumento, mezzo della Tecnica, serve ad alimentare la Tecnica, l’Apparato scientifico-tecnologico. Qualunque forma assuma diventa funzionale all’espansione dell’Uomo della Tecnica.
Si dice che bisogna smettere di chiedersi chi sono e di passare all’azione.
E’ una percezione culturale errata quella che fa credere che le due cose siano separate, essendo proprio nella prassi un’unica identità, sempre.
Inoltre vorrei dire che proprio il modo di procedere dell’epistemologia scientifica (dominante) è quello che si mostra come paradigma dell’azione che precede l’identità. E proprio per avere separato le due cose (perché le vede separate) è destinata necessariamente a fallire allorquando il Paradiso della Tecnica rigetterà l’uomo indietro (non nel senso di un ritorno a forme di vita passata) preso dal dubbio che la Felicità tecnica – essendo fondata sul modello storico-epistemologico dell’ipotesi e della previsione – così come è stata conquistata può essere perduta. Angoscia del divenire.
@Luminamenti (senza vis polemica).
Riesco a capire che “l’apparato scientifico-tecnologico”, e tutto l’insieme di apparati (e di bisogni) ad esso collegati, proceda con un’inerzia terrificante (sembri cioé procedere da solo ed essere privo di controlli), e possa quindi fornire l’impressione di perseguire dei fini “propri”, quasi si trattasse di un’entità cosciente (e particolarmente pervicace ed ottusa). Quest’inerzia fa certamente parte della doppia natura (di supporto e di vincolo) che per Konrad Lorenz caratterizza qualsiasi struttura, e ne limita l’adattabilità a nuove condizioni.
Ma non capisco l’utilità delle personificazioni allegoriche (sebbene le sappia filosoficamente “legittimate” dalla consuetudine). Il Capitalismo sarebbe uno strumento della Tecnica? E perché non l’inverso, dato che della Tecnica si serviva anche il Comunismo? Cosa cambierebbe invertendo il verso della relazione? A me pare nulla, e quindi ne deduco che si tratta di una relazione che non spiega nulla, e che i veri rapporti sono intrecciati e multidirezionali, e non si prestano facilmente al giudizio sentimentale (Tecnica, Volontà di Potenza, Occidente, etc. = Male vs Poesia, Senso del Limite, Altro etc. = Bene).
@wovoka. Mi sembra che ti sia dato da solo la risposta.
Dici: “Il Capitalismo sarebbe uno strumento della Tecnica? E perché non l’inverso, dato che della Tecnica si serviva anche il Comunismo?”
La coessenziale unità del capitalismo e delle tecnica e la fine dei Comunismi storici mostrano come la Tecnica, per sopravviere ha bisogno del Capitalismo, della sua struttura produttiva, mentre il Comunismo era inadeguato, in quanto ad organizzazione produttiva al perpetuarsi della Tecnica. Quindi, la Tecnica, si comporta, nel processo selettivo come un fine e non come un mezzo. Mi fermo qui, perché argomentare i vari passaggi mi comporterebbe molto tempo.
Da Aristotile in poi si segnala questo rischi dell’inversione fine-mezzi e con Hegel la previsione si realizza.
Cosa cambia? Tantissimo se l’Uomo prende consapevolezza delle radici della tecnica così come sono pensate e incorporate nell’Uomo.
Molti si sono occupati di una riflessione sulla natura tecné dell’uomo (un certo modo di pensarsi in quanto uomo sin dalle origini, che è quello a cui mi oppongo e che invece ci trasciniamo ancora).
Il discorso cmq è troppo esteso e si può procedere per frammenti.
Ma se vuoi valutare se è inutile porsi questo problema puoi provare a leggere quello che invece tashtego vuole dimenticare perché fa male scambiarsi informazioni e approfondimenti che per la natura del Web non possono che rimandare a una lettura solitaria di libri: Psiche e techne di Galimberti (812 pagine su cui discutere)
Grazie Lumina, le tesi di Galimberti (e Severino) non mi sono del tutto ignote, anche se una carenza di presupposti condivisi mi ha finora impedito grandi approfondimenti. Immagino che il punto cruciale si configuri nell’interpretazione del farsi “fine” (anziché “mezzo”) da parte della tecnica. Ma se dici “si comporta come”, tutto ciò mi può anche star bene – mi rimane però il sospetto che tutta quella faticosa costruzione concettuale miri semplicemente a fondare la possibilità che la soluzione ai nostri mali possa provenire da qualche “risveglio delle coscienze”, ovvero dall’affermarsi di qualche nuova “postura”, o “dispositivo”, nel mondo intellettuale. Ma forse è obbligatorio che essi presuppongano un simile potere nelle Entità di cui cercano di mantenere il monopolio. La sterilità di un simile approccio mi pare evidente nel modo in cui tutto infine si sintetizza a livello di “grande pubblico”: una ridicola demonizzazione, di sapore estetizzante, della tecnica, dimenticando che se così tanta gente (anche se mai “abbastanza”) risulta oggi affrancata dalla schiavitù materiale, è perché la tecnica ci ha consentito di schiavizzare al nostro posto qualcos’altro (le macchine, e parte della natura).
Pensare non significa scimmiottare il proprio pensiero. Se Severino e Galimberti parlano della Tecnica e della Scienza, questo non equivale a non usare a proprio beneficio la Scienza e la Tecnica. Se uno ha un’appendicite si fa operare, fa uso della tecnica. E’ il sottosuolo quello a cui si guarda, cioè a ciò che guida, anima la scienza e la tecnica.
Il senso che la Scienza e la Tecnica attribuiscono a se stessi e il senso che viene creduto dall’Uomo. Il Principio e la sua Fine.
E poi ci sono tanti altri punti di vista, come quello del dislivello prometeico di G. Anders: chiamiamo dislivello prometeico l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che si fa ogni giorno più grande.
La scienza non si limita a voler affrancare l’uomo dalla schiavitù materiale, vuole salvarlo, vuole la soluzione di tutti i problemi esistenziali. Gli esempi sarebbero infiniti e anche i guai!
la Tecnica ce l’aveva anche l’australopitecus afarensins.
la scienza e la tecnica sono cose ben diverse: lo sapeva anche Lucy.
Sì, ma questo lo sapevamo Tashtego, ma non sposta il problema, anzi
insomma (?), a prescindere dal nucleo vuoto o pieno della macchina mitologica, la profanazione intesa come separarazione dell’uomo dal mito, anche solo smitizzando, de-vittimizzandolo in questo caso, sembra non convenire. Resta però il che fare e senza sottovalutare i requisiti di vitalità (“azione” che fa, la storia) propri dell’ immagine anche di sé, restituiti (d)all’uomo, oltre che via arbitrio, anche via con-testo (intersoggettività cioè la massa di wowoka).
matri.