Il letto di Procuste e la Cura Ludovico #2
di Giorgio Vasta
La prima intervista è a Paola Gallo, editor della narrativa italiana in Einaudi.
Proviamo a partire da una definizione secca: che cosa si intende per editing?
L’editing è il lavoro che viene svolto su un testo dopo averne stabilito la pubblicazione, e prima di darlo alle stampe. Consiste, sostanzialmente in una lettura: professionale, approfondita, simpatetica, sempre fondata sull’ascolto. Anzi, consiste in un imprecisato numero di letture, che procedono per strati.
– Il lettore professionale (spesso anche primo lettore, e consigliere, confessore, amico…) mette a disposizione dell’autore tutte le sue competenze: controlla l’esattezza di date, dati, nomi, la coerenza interna fra gli elementi che compongono il testo, la precisione di riferimenti e citazioni, la grafia dei termini stranieri, o dialettali, e così via. Questo è il primo servizio che si offre all’autore, che non sempre durante la stesura dell’opera ha la voglia, il tempo o la testa per andare a verificare ogni cosa, ma procede sullo slancio della scrittura.
– L’editor si offre poi all’autore come specchio: senza calare sul testo nessun tipo di canone, o formula, o prescienza, si pone all’ascolto dell’opera, e delle sue personali reazioni ad essa. Dopo una prima lettura vergine, emotiva, in cui misura il primo impatto della scrittura come lettore tout court, procede a un più approfondito esame dell’opera, che nella mia esperienza si configura proprio come un’immersione. Ascoltare il testo, analizzarne la struttura, apprezzarne lo stile, significa nello stesso tempo “sentirne” le smagliature e i cedimenti, i difetti, i momenti di minore tenuta, nonché intuirne le eventuali potenzialità inespresse.
Non vorrei dare in alcun modo una visione mistica di questo che è un mestiere come tutti gli altri, e richiede in prima istanza tempo, disponibilità, rispetto, rigore ed esperienza, ma la verità è che prevede anche una certa dose di talento, e la capacità di inventarsi per ogni libro e per ogni autore un modo nuovo, adeguato e consono.
Come si imposta il lavoro con gli autori?
Non c’è una regola, ovviamente: ci sono autori che ti mandano il libro da leggere dieci pagine per volta, e quelli che non spezzano la crisalide prima della parola fine. Ci sono gli autori che ti chiedono di essere il più critico possibile, quelli che aspettano a tagliare un passaggio che non li convince perché vogliono vedere che effetto ti fa, quelli che non cambieranno nemmeno una virgola ma si sentono trascurati se non li segui… la fenomenologia è infinita, e rappresentata in questi termini diventa puramente aneddotica: la verità è che, come in tutti i rapporti umani, non esiste una regola di comportamento universale.
Alla fin fine, forzando un po’, mi viene voglia di dire che sono gli autori a impostare il lavoro con te, così come a decidere il grado di interlocuzione con la casa editrice in generale. Chi interpreta il ruolo dell’editore come quello di una stamperia, e concepisce l’editor come un correttore di bozze (o peggio come un mostro armato di sega e accetta, pronto a trasformare la sua magnifica sequoia in una catasta di assi tutte uguali e pronte all’uso), sostanzialmente non sta accettando né l’uno né l’altro come interlocutori. Evidentemente in quel caso l’incontro non è stato né fruttuoso né felice. Capita nelle migliori famiglie, ma non è certo la norma.
Come si comportano gli autori rispetto all’editing? C’è disponibilità? Resistenza?
Sia “disponibilità” che “resistenza” mi sembrano termini inadeguati e svianti, perché partono entrambi da una logica di contrapposizione. Se l’editor ha lavorato bene, gli autori sono grati e soddisfatti: non sentono il suo intervento come una forma d’imposizione più o meno violenta, ma come una possibilità.
Prendo a prestito le parole che Andrea Canobbio ha scritto in un intervento sul Bollettino d’italianistica: “L’editing non è una scienza, ma una pratica; qualunque teoria è inconsistente. Esistono tanti editing quanti editor (teoricamente). Quindi anche il superfluo è indecidibile (teoricamente). Ma quando uno scrittore trova il suo editor succede qualcosa: è l’incontro con il lettore ideale, che capisce e tiene al libro come se l’avesse scritto. Lo scrittore assiste incredulo alla scena di un se stesso che non ha scritto una parola, e ama ogni parola che non ha scritto (anche quelle che cancella)”.
Vorrei aggiungere che questa visione protezionistica per cui i poveri autori sono sottoposti a pratiche di tortura in nome della pubblicazione, o più astrattamente del mercato, mi pare insultante in prima istanza per gli autori stessi, rappresentati come vittime imbelli e non come soggetti pensanti, creatori e firmatari dell’opera, capaci di esercitare il loro spirito critico e il loro potere di veto, e proprio per questo di apprezzare i suggerimenti di un lettore che stimano.
Il luogo comune, con particolare solerzia ribadito negli ultimi tempi, vuole l’editing come una forma di manipolazione capziosa del testo – ad opera di uno sgherro della casa editrice, appunto l’editor – finalizzata all’adeguamento del testo stesso alle condizioni delle mode e del mercato. Cosa produce, secondo te, un’idea di questo genere? Perché, cioè, in Italia l’editing subisce questo destino di demonizzazione?
Non ho nulla da dire a questo proposito. Non conosco queste regole, perciò sono certa di non averle mai applicate. Posso aver sbagliato (l’avrò fatto certamente), ma sempre nella ferma convinzione di lavorare nell’interesse dell’autore (e con il suo consenso), cercando di portare quel singolo libro (e quella singola immagine, frase, parola) al suo massimo grado di espressività. Ritengo che nell’editoria letteraria in genere i criteri siano questi. Può essere che sia diverso per la letteratura di genere e quella di consumo, che si misurano con un canone per loro stessa natura, ma non ne sono affatto certa.
Non riesco a capire bene chi sono i soggetti di questa demonizzazione: i critici?, gli autori che non hanno trovato spazio nelle patrie lettere? Allora forse la questione riguarda la selezione dei testi da pubblicare, e non l’editing. Ho la sensazione che ci sia una forte confusione di fondo. Eppure risulta piuttosto strano trovarsi a difendere il proprio operato, a spiegarne l’utilità: a parlare dovrebbero essere gli autori che sono stati pubblicati, e hanno lavorato con un editor. Credo che sarebbe semplicemente più interessante.
Un’altra idea – per molti una convinzione indiscutibile – è quella che pensa al sistema editoriale come a un qualcosa di omogeneamente cinico e opportunista, un luogo nel quale – attraverso la già descritta mortificazione dell’autorialità – si procede compattamente alla fabbricazione di prodotti commerciali. Sembra quasi che la condizione d’accesso al lavoro editoriale sia il pelo sullo stomaco, una cinica ignoranza, un appetito da squali e un disincanto assoluto che si traduce in strategia commerciale. È tutto davvero così semplice o ha senso pensare invece a uno scenario più contrastato e contraddittorio?
Le case editrici sono aziende, lavorano a scopo di lucro (o quanto meno non possono essere in perdita). Questo è allo stesso tempo un dato di fatto, un vincolo e uno stimolo. Misurarsi col mercato non significa esserne sopraffatti. Ogni casa editrice compone nel proprio catalogo una partitura complessa e articolata, che comprende libri commerciali e libri invendibili, scommesse sbagliate e bellissime sorprese, opere più o meno felici, commerciali, stravaganti, letterarie, interessanti, effimere o eterne. La verità non sta mai negli estremi (le 500.000 copie o le 500, le memorie della spogliarellista o l’edizione critica in sette volumi di un manoscritto in sanscrito…): per capire la qualità del lavoro bisogna interrogare l’intera produzione, vedere come si muove nei tempi lunghi. Lo ribadisco, non penso che spetti all’editor o all’editore commentare o difendere il proprio operato: è sotto gli occhi di tutti, esposto quotidianamente ai critici, ai lettori, ai recensori, agli aspiranti scrittori, agli storici della letteratura, ai comodini, agli scaffali, ai cassonetti della carta di recupero.
Qual è, nel rapporto tra editor e autore così come in quello tra i diversi comparti di una casa editrice, il valore della negoziazione?
Più che di negoziazione, parlerei di persuasione. E comunque mi viene voglia di ribaltare la domanda: qual è, nei rapporti fra le persone, e tra i diversi comparti di una vita, di una famiglia, di un condominio, di un’organizzazione, di una società, il valore della negoziazione?
Confesso che l’articolo devo ancora leggero…
ma questa immagine
m’impressiona alquanto!
Ritorno sulla cosa Giorgio, dato che nel topic precedente hai eluso una mia richiesta di riferirsi a fatti circostanziati per dare modo al tuo lettore di verificare se non sei tu stesso quello che fa operazioni con idee fantasma.
Quando tu chiedi alla Gallo – che non dubito sia l’editor più corretta del mondo, come potrebbe esserlo Dalia Oggero per esempio – dicevo, quando tu le chiedi:
“Il luogo comune, con particolare solerzia ribadito negli ultimi tempi, vuole l’editing come una forma di manipolazione capziosa del testo – ad opera di uno sgherro della casa editrice, appunto l’editor – finalizzata all’adeguamento del testo stesso alle condizioni delle mode e del mercato. Cosa produce, secondo te, un’idea di questo genere? Perché, cioè, in Italia l’editing subisce questo destino di demonizzazione?”
Le proponi una domanda che dipinge già uno scenario che vede un complotto di cattive persone, avvelenate da sentimenti di rivalsa, che tessono un racconto pieno di fantasmi.
Esistono davvero queste persone? Chi sarebbero? Quali sono le parole che hanno utilizzato per inscenare questa falsa realtà?
Permettici di capire, di verificare anche quello che dici tu. Tu non sei al di sopra delle parti. Del resto se noti la tua interlocutrice fatica a rispondere a una domanda che ha già dentro la risposta.
Poi ti vorrei chiedere anche, Giorgio, che cosa intendi tu per “negoziazione” nell’editoria.
Non credo si possa buttare in campo una parola così ambigua senza chiarirla un po’, specialmente per quanto riguarda il rapporto editor-autore. In che cosa consiste la loro negoziazione secondo te?
andrea barbieri, ma rompi veramente le balle. questi due pezzi di giorgio sono due pezzi utilissimi a cercare di rendere articolato un discorso che viene fatto in modo stramanicheo, risentito, pregiudiziale certo, perché nell’aspettativa di uno scrittore l’editor è un po’ un fantasma. poi li conosci, dalia oggero, canobbio, paola gallo, elisabetta sgarbi, franchini, helena, canalini, giulio mozzi, nicola lagioia, manuela laferla, massimiliano governi, eccetera, e ti sembrano delle persone più intelligenti ed empatiche di quanto credevi.
non so se in qualche post fa helena faceva una minima distinzione: l’editor che sceglie (in genere brutto figuro), l’editor che cura il testo (figuro ambivalente).
vasta c’ha messo cinque link in cima al suo pezzo. la prossima volta viene a casa tua e ti viviseziona ogni parola.
massimiliano governi non direi
effeffe
Ma infatti. Il problema riguarda la selezione dei testi da pubblicare. Naturalmente ogni casa editrice è libera di selezionare i testi come crede. Una volta che i testi sono stati selezionati, vanno tutti editati. Al meglio. Sempre ricordandosi che il prodotto finale è di chi lo firma. Mai fare pettegolezzo pernicioso. Ci vorrebbe maggiore discrezione. Forse addirittura il segreto professionale. Dovrebbe essere scontato sapere che dietro ad ogni grande autore c’è un lavoro di squadra. Di quale grandezza sia grande poi l’autore in questione, questo sarà il tempo a deciderlo.
Stare poi a discettare se quella gonna l’ha disegnata Miuccia Prada o un suo pupillo in transito, che senso ha, in un’epoca in cui la creatività cozza contro la necessità di una produzione standardizzata?
Non posso che rinnovare le mie domande, aggiungendo che non cerco “vivisezioni”, ma soltanto di avere modo di verificare il discorso di Giorgio Vasta che dà tante cose per scontate. Per come è impostato, per la sua genericità, questo è impossibile. E’ lui che chiede qualità euristiche. Bene, applichiamo la cosa anche alle sue parole.
Infine, caro Raimo, “rompi le balle” potresti magari dirlo ai tuoi amici più cari e pazienti…
Oddo, parla degli autori come dei malati terminali che han bisogno minimo minimo d’una chemioterapia.
Ho scritto due libri che sono usciti, uno non ancora, con Sironi. Il lavoro di editing é stato svolto da Ilaria Caretta. Un giorno é venuta a vedere il mio orto e mi ha mostrato cose che non vedevo, piante a cui andava tagliata ramaglia perché la luce dilagasse, erbacce che toglievano nutrimento ad altre piante. Alcune le abbiamo lasciate, avevano i colori dell’iride.
Poi, assieme, abbiamo lavorato ai sentieri che attraversavano l’orto e ho trovato le piste tra gli ortaggi che cercavo da sempre. L’acqua irrigua no,
l’avevo condotta da anni, pescata da una cisterna di savoiarda memoria
e incanalata per terrazze.
scusi marino,
lei pubblica testi di botanica?
oh marino, evviva i limoni, trombe d’oro della solarità!
non sono ancora riuscita a leggere…
m’incute un grande timore…..
cercherò di superarlo…..
infatti, ce l’ha presente Libereso, il giardiniere di casa Calvino, anche lui di terre di savoiarda memoria, inoltre faccio un po’ l’ufficio stampa per un paio di riviste che si occupano di mostre e giardinaggio selvaggio.
Ora appunto mi trovo ad aalsmeer per il mercato.
ah, Beccalossi, io e lei dissertiamo più volentieri di Boca e River, e di cololiche e lunfardo, dica di no…
cocoliche
eheh, nostalgia canaglia. ma dai marino, il mio era solo un piròpo. comunque mi hai dato una nuova chiave interpretativa per montale: magari la sua era un’ode all’editor.
@marino
non sono riuscito a trattenere la battuta, spero che l’ironia scolastica non l’abbia offesa. comunque anch’io adoro i savoiardi.
aridanghete!
scusi, stasera è più forte di me.
Indubbiamente Paola Gallo si sta facendo un nome. Magari presto la inviteranno anche a “Che tempo che fa”. Immagino che abbia nel suo curriculum l’editing di un sacco di successi. Un po’ come Sergio Claudio Perroni, per intenderci, “editor di alcuni fra i romanzi di maggior successo degli ultimi anni, Caos calmo, Le uova del drago…” :- )
Be’, alcuni scrittori – si fa per dire, scrittori – sono proprio tanto tanto terminali, che oddo! se non avessero l’editor a imbeccarli di parole di pensieri di scene, davvero non potrebbero essere oltre la carta d’indennità. Sono sì, delle metastasi viventi di cui l’editor cerca di venire a capo, asportando pezzi di tumore, di massa superflua, altre ancora strappando via interi pacchetti di calcutta cranica.
Chissà che un giorno non si possa curare il canchero con la persuasione: speriamo e preghiamo, ognuno secondo propria fede. E coscienza.
suvvia cappuccetto rosso, piccola cara, non essere timida e, soprattutto, non aver paura: qui, come puoi vedere, c’è posto per tutti. su, piccina, buttati, buttati senza remore. tanto, a quanto vedo, di qua non è ancora passato luminamenti. e poi, c’è pure iannozzi, coraggio…
Coraggio, Cappuccetto Rotto :-D Pardon, Rosso: tutti questi re ottusi, refusi volevo ardire, dire. Per fortuna che c’è un erettore, cioè un dottore, cioè un odontoiatra, uffa!, un regolatore… Non mi sviene la pantofola. Però, in ginocchiio, cioè occhio, cioè prezzemolo e finocchio… :-D
davvero non se ne può più: che ottime persone come Vasta si debbano scusare di essere editor, mi pare troppo.
discussione poi che interessa solo i quattro miserelli che un libro non sono ancora riusciti a pubblicarlo – colpa dell’editor, certo: peccato non sappiano neppure *cosa* sia un editor.
e chiudo con un omaggio a Marino: a volte son belli i prati selvaggi; meglio ancora gli alberi da frutto e le zucchine.
omaggi,
Vs Anonimo
versus, ma ti sei svegliato/a di soprassalto? hai fatto un brutto sogno?
qui ci sono ventidue commenti (beh, facciamo finta):
cappuccetto rosso (2), che cerca di vincere la sua timidezza;
eva risto (1), che cerca di persuaderla;
andrea barbieri (3), che fa delle domande (non gli capita spesso);
andrea morgillo (1), che parla della sua amica prada;
raimo (1) e effeffe (1), che sono della parrocchia;
iannozzi (3) e angelini (1), che pìrlano (come al solito);
merisi (2), marino (4) e beccalossi (2), che preparano le trenette al pesto.
scusa, chi è che sta obbligando un’ottima persona come vasta a ‘scusarsi di essere editor’?
chi sono i miserelli che non sono ancora riusciti a pubblicare un libro per colpa dell’editor?
non credi sia il caso di farsi una bella flebo di valeriana e cercare di riprendere sonno?
i terminali. un romanzo di andrea barbieri. editing di iannozzi. ed.libri molto speciali.
Sì, però adesso promettete di non rosicchiare ulteriormente l’osso dell’editing, di cui, – da Benedetti in poi – si è ormai detto il poco che si poteva dire. Se tutti vogliono un posto al sole, finisce che all’ombra non resta più nessuno. A parte Eva Risto.
Sì, ma adesso promettete di non rosicchiare ulteriormente l’osso dell’editing, di cui – da Benedetti in poi – è ormai stato detto il poco che si poteva dire. Se tutti vogliono un posto al sole, finisce che all’ombra (dell’autore) non resta più nessuno. A parte Eva Risto, un habitué del sottobosco (letterario).
L’editing lo faccio pure, però, per d-o, pagamento sull’unghia o altrimenti nemmeno un guanto bianco.
L’anonimo che fa tanto bla-bla è tanto divertente quanto commuovente, al pari di sitting targets.
Iannozi: “L’editing lo faccio pure, però, per d-o, pagamento sull’unghia o altrimenti nemmeno un guanto bianco.”
Signore, prendimi! Posso morire serenamente. Ora ho visto e letto tutto.
Sì, Signore, se ci sei – cosa di cui dubito ampiamente e di più -, prendite con Te L’Innnnnominabbbile. E’ lui che te lo chiede, con tanto tantissimo fervore; è pronto a morire seneramente come un bravo fondamentalista.
Sì, Signore, se ci sei – cosa di cui dubito ampiamente e di più -, prenditelo con Te L’Innnnnominabbbile. E’ lui che te lo chiede, con tanto tantissimo fervore; è pronto a morire seneramente come un bravo fondamentalista.
A proposito, noto nella rubrica “This day 2 years ago: 04/20/2005: Nascere da un uovo di cigno”. Che tenerezza. L’unico articolo che gli indianini della riserva si rassegnarono a pubblicarmi… dopo una sanguinosa lotta intertribale:- /
Lucio, non ti disperare. Sono fatti così, innominabili che amano gli innominabili gli indianinini. :-)
Gli indianini amano il Vaticano, la Chiesa e tutte le sue diramazioni.
Cantano le lodi al fondamentalismo cattolico cristiano da mane a sera.
Che d-o li abbia in gloria. :-)
Disperare? Suvvia. Ci ho il mio bel blog, io. Con un imperdibile pezzo di Aldo Busi, oggi.
1. il fatto che vasta sia una ottima persona, affermazione, peraltro, opinabile centra ben poco con il discorso del mestiere dell’editor.
2. non è detto che quello che viene pubblicato sia il meglio che il mercato può offrire: in questo come in altri settori il cosidetto “gancio” è fondamentale.
3. non sono del mestiere, ma ho partecipato con un amico aspirante lettore all’incontro al circolo dei lettori “esor-dire” . L’impressione è stata pessima e condivisa con la maggior parte delle persone che hanno partecipato insieme a me.
4. vasta se la prenda poco, che esistono persone che studiano anni si specializzano e vanno ad esercitare professioni – ben più impegnative – più che vessate da chicchessia: valga, per tutte, la professione di avvocato o quello di commercialista.
una buona giornata a chi frequenta questo forum.
Lucia
Errate corrige: aspirante scrittore.
@ LUCIA
Lucia ha parlato molto ma molto bene.
Ce ne fosse di più di coscienza così, di parlare in maniera educata e senza peli sulla lingua.
@ LUCIO
Sì, l’ho visto e l’ho letto. TVTB, lo sai, non è vero? :-)
@ Lucia. Non nominarmi gli avvocati, per amor d Dio. Mi hanno appena scucito 22.000 euro per una semplice separazione consensuale. Dio li strafulmini.
Altre questioni:
– l’oltemodo giovane età di alcuni editor (e quindi la poca esperienza, innanzitutto come “lettori”).
– l’oltremodo giovane età di molti traduttori (perché anche la traduzione rientra in questo discorso, no? Siamo cioè sicuri che quanto leggiamo tradotto sia “uguale” all’originale? Vale a dire, non c’è il sospetto che lo stile sia un po’ stravolto a vantaggio di un tipo di scrittura imperante oggi che è, come dire, generica e senza carattere?).
– la proliferazione di libri, sia cartacei che nel web, con conseguente (o precedente?), mancanza di un filtro autorevole: del tipo, siamo tutti scrittori, siamo tutti lettori, ma non sappiamo più cosa sia davvero uno “scrittore” e come lettori non ci raccapezziamo più perché in questa grande marmellata cosa è davvero “indispensabile” leggere?
– l’autocelebrazione e narcisismo imperante degli scrittori (anche quelli che pubblicano a pagamento. cioè, pubblicano a prescindere dal valore di quello che scrivono, perché alcune di queste presunte case editrici non fanno alcuna selezione sui testi: l’importante è che l’autore paghi) che hanno l’arroganza di ritenersi tali e trovano l’appoggio di riviste, giornali compiacenti e quando invece si leva qualche critica pertinente, scendono in campo a dar battaglia (la stessa cosa accade nella musica, nel cinema e nell’arte in genere).
Tornando alle questioni sollevate dal post c’è un passaggio che mi piacerebbe discutere con Paola Gallo. Risponde infatti:
“…sempre nella ferma convinzione di lavorare nell’interesse dell’autore (e con il suo consenso), cercando di portare quel singolo libro (e quella singola immagine, frase, parola) al suo massimo grado di espressività. Ritengo che nell’editoria letteraria in genere i criteri siano questi.”
La questione del criterio o paradigma da applicare resta sospesa, tanto più che la mia impressione, confortata dall’esperienza che ho, sia di un criterio su tutti e che potremmo definire, con Antoine Berman, “razionalizzazione del discorso.
Scrive infatti in un libro bellissimo, credo tradotto in italiano, -La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, Seuil 1999) (la traduzione e la lettera o la locanda del lontano) qualcosa che la dice lunga sulla “dittatura” dello “scritto bene”.
Il primo traduttore francese di Dostoïevski, aveva così commentato l’opera del maestro:
« La lourdeur originale du style de Dostoïevski pose au traducteur un problème quasi insoluble. Il aurait été impossible de reproduire ses phrases broussailleuses, malgré la richesse de leur contenu… »
La pesantezza originale dello stile di Dostoievsky, pone al traduttore un problema quasi insolubile. Sarebbe stato impossibile riprodurre le sue frasi
arruffate nonostante la ricchezza del loro contenuto”
Non so se mi spiego, ma in ragione di quello che Berman chiama razionalizzazione del discorso, e che corrisponde, a mio parere, al principio dello scritto bene come scritto semplificato, si può arrivare a decidere di cambiare il registro e lo stile di uno scrittore.
Una razionalizzazione del discorso che come scrive Berman,
“recompose les phrases et séquences de phrases de manière à les arranger selon une certaine idée de l’ordre d’un discours. La grande prose – roman, lettre, essai- a, nous l’avons brièvement dit, une structure en arborescence ( redites, prolifération en cascade des relatives et des participes, incises, longues phrases, phrases sans verbe, etc.) qui est diamétralement opposé à la logique du discours en tant que discours. »
ricompone le frasi e le sequenze di frasi in modo da sistemarle secondo una certa idea dell’ordine di un discorso. La grande prosa- romanzo, lettera, saggio- ha, lo abbiamo brevemente detto, una struttura in arborescenza (ripetizioni, proliferazione a cascata delle relative e participie, incise, frasi lunghe senza verbo ecc.) che è diametralmente opposta alla logica del discorso in tanto che discorso”
Per concludere, senza demonizzare gli editor – secondo me qui nessuno demonizza alcunché e se qualcuno lo fa, a me, non me ne frega una cippa- la mia impressione generale è che sia in atto un l processo di banalizzazione, novlinguazione, semplificazione della lingua nelle patrie (e matrie) lettere, assecondando una normativitità e una standardizzazione della creazione letteraria.
Questo per quanto rigurda gli editor, ovvero quelle persone che lavorano un testo insieme all’auotre che si è deciso di pubblicare.
Per quanto riguarda l’editor che propone il testo da pubblicare in casa editrice – se confusione c’è, tra le due funzioni, tra chi edita un testo e chi decide di pubblicarlo, è perchè spesso le due competenze sono ricoperte da una stessa persona- riprendo quanto dice paola Gallo sul fatto che
le case editrici sono imprese come tutte le altre, ovvero che l’economia (il bilancio) ha la vera voce in capitolo, per una semplice osservazione.
In Italia economia significa Prudenza. L’economia italiana, a cominciare dalle banche, fino alle medie e grandi imprese è codarda,. Non prendere un rischio, come quello di pubblicare un libro che ha un sicuro valore letterario – a detta dell’editor- ed un insicuro valore di mercato, (ma potrebbe anche essere una banca che accordi un prestito a un giovane imprenditore, magari un editore, o un locale che voglia proporre altro dalle musiche di tendenza) non è la sola “via economica” possibile.
Molte case editrici impostavano la propria politica editoriale su un principio di distribuzione degli utili. per un Volponi, Villa, che non vendevano ma si pubblicavano, fortunatamente, esistevano degli autori da cassetta, magari meno nobili, ma famosi che “garantivano.” La sensazione che ho è che la percentuale di testi importanti ma in perdita, si sia ridorra, e destinata a scomparire.
Un mio amico libraio a Parigi sopravviveva con il porno e l’esoterismo però da lui potevi trovare opere bellissime (tipo la produzione di Isou e del lettrisme.)
In italia poi si pubblicano opere che non sono nemmeno pornografiche (vd Melissa P)
Del resto c’è un’assonanza tra pruderie e prudenza…
pru|de|rie
s.f.inv.
ES fr. eccessivo e ostentato pudore, spesso formale e ipocrita
effeffe
ps
a riprova del fatto che non faccio parte della cricca di chi afferma che non si pubblicano bei libri vi annuncio che ho appena finito di leggerne uno bellissimo, “Altrove” di Paolo Mastroianni, pubblicato da Effigie. A suivre…
E’ vero, ci sono professioni per le quali uno ha studiato 200 anni tipo i poveri Dottori e anche loro si sentono vessati perchè qualcuno gli dice: Sei un ignorante e poi ci sono anche quelli che asfaltano le strade, che hanno la terza media, e sono vessati dalla calura di agosto che gli brucia perfino le palle: che mondo variegato. Bell’intervento Giorgio: come sempre sei un grande.
Melissa P., porno o meno, ha venduto sin tanto che è stata lolita, cioè in una fascia di età “minorenne”. Credo che all’editore non interessasse che questo: vendere il prodotto sin tanto ch’era fresco e appetibile al pubblico.
E’ stato poi tentato un rilancio della Melissa P. più matura, anche attraverso le pagine de L’Espresso. Credo non sia servito a nulla. Oramai è stata sostituita nel ruolo ch’era suo da altre, più giovani, più smaliziate. Non faccio nomi per non far della pubblicità che non mi va di fare.
La scrittura uniformata è il “tallone di Achille” e delle traduzioni e dei libri che escono oggigiorno. Non è tanto una questione di dire, “troppo giovane”. Semmai troppo poco preparato o preparato ma male l’editor o il traduttore. Il risultato è poi quello di avere traduzioni scialbe, senza carattere, e libri rivisti dagli editor, che tendono ad uniformare la scrittura di tutti, dei pochi esordienti e di chi invece sul mercato già da parecchio tempo.
Si tenga poi presente che nelle scuole è (anche) iniziato il processo degenerativo portando agli allievi traduzioni facili, anzi scialbe, motivando che il Monti e il Pindemonte non andavano più bene, tanto per portare un esempio. Così oggi abbiamo traduzioni che non sono poetiche né altro: nemmeno scolastiche. E su questi testi i giovani di oggi studiano Omero, continuando comunque a capirci niente. E magari finiscono a fare gli editor. Se da una scuola escono delle persone il cui studio è stato approntato su degli schematismi, mi pare abbastanza chiaro che applicheranno il metodo insegnatogli a scuola anche sul lavoro, e non da ultimo nelle relazioni sociali.
Libri che si possano dire belli ce ne sono, perlopiù, per mia esperienza, pubblicati soprattutto da piccole, ma proprio piccole, case editrici che si avvalgono poco o niente degli editor, operando invece una severa cernita del materiale che gli arriva. I grandi editori non hanno né la voglia – e forse neanche il tempo – per promuovere autori che sanno scrivere in maniera originale; il grande editore dal libro pretende soprattutto che sia un prodotto, che sia vendibile in breve tempo e che diventi un bestseller. Poi poco importa se l’anno immediatamente successivo il libro non è più nella memoria di nessuno, perché tanto già un altro libro-prodotto sarà stato sfornato. L’editor non fa altro che seguire quello che è l’ordine “dall’alto”, ovvero: far funzionare l’azienda. E per farla funzionare non può far altro che credere e obbedire. Solo così può tenersi il posto di lavoro, salvaguardare la sua categoria e pensare di riuscire un giorno a salire nell’organigramma aziendale (editoriale).
Il pubblico, ormai da anni, è stato disabituato all’arte della lettura. Per anni e anni è stato lobotomizzato per mezzo di libretti facili, inutili e senza stile. Oramai la più parte delle persone ha in memoria pochi concetti essenziali e poche parole, e comprende in base a quel poco che gli è stato dato. Il bagaglio culturale dell’italiano medio è al di sotto dell’essenziale. Se ciò è minimamente vero, è allora lapalissiano che l’editore continua a sfornare libri senza carattere, perché sono gli unici che la più parte del pubblico è in grado di comprendere. E più si va avanti, più il bagaglio culturale del cittadino medio si assottiglia.
E’ evidente che Iannozzi parla da addetto ai lavori: non interviene mai nei blog senza aver assicurato il giusto editing ai propri commenti.
Comunque direi che l’osso dell’editing è stato rosicchiato a sufficienza. Adesso ne sappiamo quanto prima, ovvero che a seconda degli autori occorre intervenire poco, abbastanza o molto.
Mi pare che il discorso di Francesco sposti in avanti la questione: il fattore rischio è probabilmente davvero ciò che fa la differenza. Al di là di ogni insensata e ideologica diatriba sull’editor versus autore.
Giusto Lucia: parliamo di avvocati, ché ‘sta editoria ha stufato.
Luogo misterioso di congiure proplutocratiche, assemblee di adepti dello gnosticismo consensuale, artefici dell’imbarbarimento del Mondo.
Inutile ripetere tutti tutte le stesse cose: e chi sceglie i libri; e gli editor sono giovani, non hanno letto; e i libri son tutti uguali.
Basta, basta, basta.
Che si parli della più grande opera d’arte degli ultimi anni: l’ha pubblicata Scarpa su Primo amore, traducendola.
Che si parli di altro, di libri, anche, ma di quelli scritti o da scrivere.
(anche di giorno niente valeriana)
Vs Anonimo,
con grazia.
Scusate la mia domanda: Se invio un manoscritto all’editore e l’editore risponde che non rientra nelle linee editoriali, mi dico: >. Riprovo. Busso ad altre porte. Male che vada, dopo molti tentativi, la storia che ho scritto la posso stampare da me. Nessuno mi vieta di fare così. Nessuno mi toglie la libertà di fare. Giacché mi troverei in imbarazzo qualora l’editore mi dicesse di sfoltire là dove col tempo e con l’impegno ho già sfoltito. Allora, così fosse la richiesta dell’editore o l’editor per conto di lui, mi dicano con la stessa naturalezza che non so scrivere. Ma non ci crederei, perchè scrivo, e soprattutto perchè porto avanti la mia poetica, o la mia idea o come si chiama; diversamente dal discorso riguardo alla correzione dello scritto perchè non sono un talento, ho molte lacune, faccio fatica e ho i miei limiti: dovrei accettare tipo un doping per superare quei limiti che sono parte della mia stessa maniera di scrivere? Non è così? Se scrivo un breve romanzo, un racconto lungo, poi un altro breve romanzo e mi chiedo qualcosa su ciò che ho scritto, e mi interrogo, e poi lo correggo e l’aggiusto in base alla mia naturale e spontanea riiflessione, riterngo che il mio testo sia chiuso, completo, dal mio punto di vista lo considero una cosa autonoma che porta la traccia delle mie esperienze, della mia vita. Una traccia della mia vita in quel momento, di certo; mica ora, in questo momento, due anni dopo, due mesi dopo, due ore dopo. Eppoi, la visione del mondo e dell’intimità, la nostra stessa psiche, sono cose complicate; come si fa a metterci mano, come si sposta una frase senza che abbia risonanza su tutta la struttura, e perché, se la scrittura è la nostra firma; cosa ci rimane?
ops, dopo il “mi dico” ci andava:
mi dico: Non rientra nelle linee editoriali.
rileggo il commento di Lucia
mi piaceva l’aspirante lettore
peccato per l’errata corrige
effeffe
ps
non toccatemi Giorgio, però
@ c(a).(r)o.
Infatti è un discorso molto complesso e pieno di sfumature, ma anche paradossi.
Guido Morselli, ad esempio, mi pare non riuscì mai in vita a pubblicare la sua produzione letteraria (magari rifiutò l’editing, chissà). E non so neanche se si fosse autopubblicato. Però Morselli ora è inserito nelle storie di letteratura italiana: pubblicato postumo.
Quello che voglio dire è che in linea generale un’autopubblicazione può essere giusta, quando per esempio si crede fermamente nel proprio lavoro e non si accettano interventi esterni di un eventuale editing e logiche commerciali. Però un confine esiste, perché qui, ripeto, altri invece si considerano “scrittori” senza esserlo e in questi casi, pur se loro sono convinti, non c’è niente da fare, non lo sono.
E allora, qual’è il criterio?
Perché esiste anche l’editing su casi di autopubblicazione.
Perché l’editing si differenzia non solo da casa editrice a casa editrice, ma anche da singolo caso a singolo caso.
Cioè a dire: se in un modo e in un altro viene messa in questione la stessa nozione di “scrittore”, come autore puro, di che cosa stiamo parlando? Cosa sono diventati i libri? Sono come i film che sono il risultato di un lavoro a più mani? Ma anche nei film, dalla politica autoriale della Nouvelle Vague, c’è una nozione precisa di “autori”: questi “autori” dove sono finiti?
Rimane un bel niente. L’editore vuole un prodotto. L’editor vuole mantenersi il posto e non può che dir di sì all’editore, perché è lui che ha i soldi e che gli dà lo stipendio, quindi si fa come dice lui, anche se in vita sua non ha letto un solo libro, punto.
Si possono aspettare tempi migliori. Ma questo medioevo ho proprio l’impressione che non finirà tanto presto. Non oggi comunque.
E se uno vuole proprio pubblicare, allora che si rivolga a dei piccoli editori, di quelli seri, non di quelli che (ti) fanno pagare per pubblicare. E non ci si aspetti di diventare ricchi o famosi. L’altra via è quella di darsi in pasto agli editor, agli editori griffati, ma sempre non con un santo in paradiso e nemmeno due, diciamo pure che bisogna avere alle proprie spalle almeno tutto il primo anello di angeli e pure il primo anello di dannati all’inferno per poter pubblicare con un grosso editore, il cui nome sia sulla bocca di tutti. E non è affatto detto che il libro editato diventi un bestseller: il più delle volte non lo diventa, l’editore s’inalbera per aver fatto un investimento sbagliato e non pubblica più quell’autore che l’ha deluso, anche se chiama a raccolta tutti gli angeli e i demoni di cui può disporre.
Se non sei uno scrittore, continui a non esserlo anche se ti pubblica Einaudi. Scrittori si diventa solo dopo decenni dalla propria morte. Secoli.
Come è facile notare, Anonimo, non hai colto il senso del mio messaggio: d’altra parte c’era da aspettarselo visto il Tuo intervento inziale, di cui il mio successivo costituiva solo risposta ad argomento, inopportuno, da Te introdotto.
Qui non si parlava della bonta di Vasta, di cui, francamente, non me ne può fregare di meno.
C’ gente “onesta” costretta a giustificarsi e chiedere scusa quotidianamente e Vasta non fa eccezione.
Lucia
@ Alessandro Morgillo
Sono d’accordo. Ma questa è una conclusione a cui possiamo giungere noi che magari abbiamo chiare certe dinamiche, mentre invece a me pare che, banalmente, ne passi un’altra, e cioè, appunto, che scrittori sono “tutti” (tutti quelli che pubblicano qualsiasi tipo di libro o postino materiale nella rete).
Per cui?
@ Gianluca Minotti
Che in Occidente tutti possano definirsi scrittori è un diritto ormai acquisito. Noto però che sono ancora in pochi a considerarsi autori. Dato questo che dovrebbe far riflettere.
Mi metto in gioco:
Io ho pubblicato un saggio monografico su Valerio Zurlini per la casa editrice Il Castoro. E anni fa un piccolissimo racconto in un contenitore della rete. e poi da poco tempo mi sono deciso a mettere in giro alcune cose presso case editrici e gente seria.
Mi domando: sono uno “scrittore”?
Il giorno in cui una casa editrice dovesse essere intenzionata a pubblicarmi una raccolta di racconti, previa sforbiciata di un editor, come mi comporterò?
E perché se io mi pongo tutte queste domande, altre persone che conosco, si fanno pubblicare romazi improbabili da case editrici che chiedono l’acquisto da parte dell’autore di 300 copie e che non fanno alcuna selezione? Soprattutto quando queste persone si ritengono degli “scrittori” e sono considerate tali dalla comunità locale (articoli di giornale, presentazioni nelle biblioteche comunali, eccetera, eccetera).
Quello che io faccio notare non succede solo in realtà provinciali, ma è esemplificativo di un costume nazionale. Succede anche in grande, con la compiacenza di giornalisti. giornalisti che spesso lavorano per le stesse aziende che pubblicano libri (ma anche per la musica e il cinema è lo stesso).
Tutto questo anche per dire che ci sono in gioco una miriade di elementi, e forse l’editing è solo uno dei tanti.
Buffo, ma non inatteso: molti commenti ai due post di Giorgio replicano specularmente quello ha scritto in premessa:”A sorprendere è soprattutto il semplicismo, la sbrigatività, l’ansia liquidatoria che elimina qualsivoglia possibilità di una lettura non voglio dire più “reale” ma almeno più “realistica”,….. sentenze tanto indignate e apodittiche quanto, di fatto, tragicomicamente scollegate dai fatti.”
E a proposito dell’editing: la fiera dei luoghi comuni.
Profeta di un Giorgio, nel prossimo post aggiungi i numeri del lotto.
Ma infatti. Basta criminalizzarli. Gli Hair Stylists, quando sforbiciano, ci offrono solo il loro servizio. Io da Paola Gallo mi farei sforbiciare almeno una volta al mese. Ma non me la posso permettere. Troppo cara. Il mio barbiere è marocchino. E mi fa la testa a uovo.
Sembra il passo di una sentenza o di una discussione finale di un processo.
E se Vasta – l’ intoccabile, il profeta, ma che dico il santo protettore degli editor – avesse sbagliato mestiere?
Toga e parrucca, subito!
Lu
Devo proprio confessarvelo: pur essendo straniera, qui tra i commenti mi trovo proprio come a casa mia. C’è un clima così familiare.
effeeffe nella prima parte del suo post mette in guardia dal rischio di normalizzazione, banalizzazione, semplificazione che la lingua correrebbe a causa dell’editor. Discorso complesso e vecchio, che ogni volta mi fa prudere le mani e anche un po’ il cervello. Ma perché mai, noi che cerchiamo una lingua che ci colpisca, ci urtichi e ci scuota (insomma che ci raggiunga e ci parli anche attraverso le sue macchie, le sue crepe benedette) dovremmo poi ridurla a una poltiglia indifferenziata? E per chi, soprattutto, per quale lettore? A qualcuno piace poltiglioso?
@ Gianluca Minotti
Intanto non volevo essere così strappalacrime. Sono molto sereno. Sono molto favvorevole alle case editrici piccolissime, difatti ho mandato un racconto ad una di queste (l’avevo già mandato l’anno scorso ma non era arrivato, per cui ho dovuto rispedirlo e loro mi hanno mandato una mail dicendo che mi faranno sapere). Ho mandato un romanzo breve ad un editore medio-piccolo, poi passati sei mesi lo ho mandato ad un altro editore medio-piccolo. Nella scelta non sono andato a casaccio perché mi sono prima informato sulla linea editoriale. Detto questo, non mi spavento se mi dicono che non sono buono a scrivere, perché ho un lavoro, grazie a Dio, e non è mia intenzione campare di rendita: lavorare mi piace. Però mi piacerebbe anche misurarmi per sapere cosa fare di questa scrittura che ogni tanto mi prende e ogni tanto mi lascia. So bene che se buttassi via tutto non avrei perso tempo. Non è tanto nel libro, futuro, la mia soddisfazione. La mia soddisfazione è essere arrivato fin qui, perché scrivendo ho imparato qualcosa; avrei potuto impare andando a pescare, e sarebbe stato lo stesso. Dunque conosco ogni parola che ho scritto e ad ogni parola sapevo cosa stavo scrivendo. Quindi è per questo che tengo ad ogni parola. Per me va bene così.
carissima Dalia
la questione della lingua (dei linguaggi) investe il mondo culturale nella sua totalità (cinema, televisione, letteratura, scuola). Non credo che gli editor (tra l’altro credo che Paola Gallo abbia a giusta ragione “disinnescato” l’uso della categoria parlando piuttosto di pratiche di editing e di edizion, calandole in un caso per caso, desiderino la novlingua.A desiderare la novlingua sono i clienti – un tempo si chiamavano lettori- e i manager che dirigono le società editrici.
Vorrei citare, a questo proposito, quanto scritto da Philippe Muray n un articolo e pubblicato su NI.
“Il mondo era fatto, credeva Mallarmé, per finire in un libro; i libri, ormai, sono pubblicati per finire nel torpore: torpore critico (i pietosi critici di professione si sono riconvertiti come tutti al turismo, i loro articoli sono dépliant da tour-operator con indicazione delle località da vedere ignorando le altre). Torpore contemplativo. Torpore acquirente, non acquirente, sempre meno acquirente. Torpore di chi legge, torpore di chi scrive, poco importa:torpore sempre di chi approva.
(…) Mai si erano visti gli individui collaborare alla propria perdita (alla liquidazione della loro negatività vitale) con così tanto entusiasmo.
Che cos’è questo fine secolo, sul piano del discorso multiplo che lo avvolge e protegge? La storia del ritorno del mondo alla poesia, e non parlo qui della grande forma poetica d’un tempo, ma di questo nuvoloso, abbellimento pubblicitario e livellante, di questo movimento di fondo, indispensabile per “habiller” la nuova animalità dominante, a cui si potrebbe senza esagerare dare il nome del poetically correct.
Cosa fa il romanzo? Imita questo allineamento. Imita questo ritorno, questo ripiegamento, questa lenta caduta che ci si sforzerà di presentare come una nuova tappa esaltante della Storia continuata o rinnovata.”
Philippe Muray era un autore pubblicato dalle maggiori case editrici francesi, con un suo lettorato e dunque non il “marginale” che si pretende essere quello che da escluso muove critiche al sistema.
Nessun colpevole tutti responsabili? Io, personalmente non accordo agli editor un così grande potere. Non hanno gli strumenti, per “imporre” alcunché, figuriamoci una visione della cultura quando non gli riesce nemmeno di far passare un titolo , in cui credono, ai propri direttori finanziari ..
Ciò in cui credo fermamente, al punto di viverla come una vocazione, è un’idea di cultura come critica. Non essendo più confrontato al problema di capire se ho degli spazi a disposizione (quegli spazi me li sono conquistati sul campo) la mia ricerca è in questa direzione.
Ecco perchè non mi meraviglia che mezzo mondo editoriale (l’ho scoperto da poco) origli dalle serrature dei blog come Nazione Indiana. Forse perchè, tutto sommato, nonostante l’immagine che si ha dall’esterno (ed è meglio restarne fuori) di morti viventi, non corrisponde “totalmente” alla verità. Insomma che anche agli editor , come a tutte le altre professionalità del settore possa capitare ancora di “innamorarsi”…
effeffe
Credo invece che
L’editor difende sé stesso. Mi meraviglierei del contrario.
Per quanto possa suonare strano, un editor dirà sempre che lo scrittore è un ingenuo e che ha bisogno d’una balia. Gli autori che sono passati sotto le mani – cioè sotto le forbici censorie degli editor – non potranno che dar ragione a chi li ha tagliati e censurati, perché dirne male significherebbe condannarsi a non pubblicare più.
Purtroppo ci sono autori così pieni di sé disposti ad accettare di tutto, anche la censura preventiva, pur di vedere apparire il loro nome in copertina e poi nelle vetrine d’una libreria.
Per certi autori non è neanche importante vendere oggi o domani, o servire ai posteri; alcuni, non dico tutti, si accontentano di apparire oggi, nel tempo presente, indipendentemente dal successo di vendite, dalla fama e dal prestigio, e anche delle accuse di superficialità e sciatteria. C’è una nutrita schiera di sédicenti scrittorucoli che vivono per apparire, per risiedere oggi nelle vetrine delle librerie, supermercati, e autogrill anche. Non a caso gli editori tendono sempre più a pubblicare libri di persone che non venderanno che pochissime copie: si pensi ai tanti titoli inutili stampati e che sono firmati da un personaggio televisivo o del mondo del calcio. Questi libri difficilmente venderanno: l’italiano medio, per fortuna, è il caso di dirlo, preferisce ancora i gossip su Annamaria Franzoni al suo libro, che dovrebbe contenere una sua personalissima verità. Eppure libercoli che hanno in copertina il nome della Franzoni o quello d’un calciatore sono tenuti ben in evidenza presso le librerie e non solo, sono tenuti bene in vista nel catalogo dell’editore: servono per attirare l’attenzione, basta la sola copertina il più delle volte, tanto l’editore lo sa che libri così non venderanno mai, neanche nei remainders; però saranno come reliquie che di mano in mano passeranno quando l’avventore in libreria in cerca di un titolo. Hanno questo solo compito titoli scritti da personaggi così, titoli che si presume siano stati ampiamente lavorati dalla penna degli editor. Non credo affatto che ci sia qualcuno tanto ingenuo da credere che Gianluca Vialli, di punto in bianco, sia riuscito a scrivere quasi 400 pagine di pensieri un minimo ordinati e grammaticalmente corretti. In ogni caso penso che esistano dei bietoloni e che stiano in angoli neanche poi troppo riposti del nostro Bel Paese, e così accanto al poster di Vialli oggi c’è anche “The italian job. Tra Italia e Inghilterra, viaggio al cuore di due culture calcistiche”.
Gianluca Vialli e Gabriele Marcotti hanno effettivamente scritto il libro. Le famigerate 400 pagine. E pensa un po’, l’hanno scritto addirittura in inglese. Abbiamo dovuto farle tradurre quelle 400 pagine in italiano.
Non l’hanno fatto di punto in bianco, ci hanno messo parecchio tempo.
Il ritratto di Vialli incapace di “pensieri minimamente ordinati e grammaticalmente corretti” è quasi strepitoso nella sua fantascientifica e razzistica hubris.
Io temo che l’avatar Giuseppe I. sia solo appunto un avatar. Meraviglioso, quasi migliore del modello a cui si ispira il suo autore, quasi migliore- intendo dire – di Berto Wooster.
Ah, dimenticavo. Il libro ha venduto bene. E’ stato ristampato diverse volte.
Ma si sa il mondo è pieno di “bietoloni”…
Ho deciso.
Iannozzi ha ragione. Sempre, sempre, sempre.
Ha ragione, ha ragione. Sì, sì, Iannozzi ha sempre ragione. Mai più contraddirlo, mai più…
E ora io sono libero, libero, LIBERO.
Dio, che sensazione meravigliosa…
parole sante. vado a editarmi un caffè corretto.
mi riferivo al commento di brugnatelli.
biondillo però quando ironizza ha sempre ragione.
quindi parole sante tutt’e due.
iannozzi santo subito.
(e ho ragione anch’io).
@ EDOARDO BRUGNATELLI
Se è per questo, posso scrivere anch’io in inglese e poi farmi tradurre. Il problema è: io che inglese scriverei?
Se “Italian Job” ha venduto, tanto piacere: il nostro Bel Paese è ricco di bietoloni che spendono il loro salario dietro ad abbonamenti per la squadra del cuore dimenticando l’istruzione dei figli, ecc. ecc. Ma però non dimenticano quasi mai di far casini negli stadi. Quindi non mi sorprende che Vialli abbia venduto qualcosetta. Nel mio commento di cui sopra, se leggesse attentamente, io non dicevo affatto che Vialli non ha venduto, difatti scrivevo in maniera assai precisa: “In ogni caso penso che esistano dei bietoloni e che stiano in angoli neanche poi troppo riposti del nostro Bel Paese, e così accanto al poster di Vialli oggi c’è anche “The italian job.” Sono sicuro che di poster di Vialli l’Italia ne sia piena. Dovrebbe dunque essere contento se accanto al suo poster oggi gli italiani possono disporre anche del libro.
Ci avrebbero messo parecchio tempo a scriverlo… Per fortuna nostra e loro.
Ora vado a farmi una cenetta all’inglese: speriamo che non mi servano degli anni. Perché, per chi non lo sapesse, io sono proprio negato in cucina, proprio come nella scrittura, ecc. ecc.
Biondillo: piacere di saperti libero. Fa sempre piacere la libertà altrui, come il caffè caldo.
Buona serata
g.
JEEVES: La cena è servita, Sir
@ BRUGNATELLI
– C’è una mosca nel mio brodo.
– Garçon, indaghi immediatamente sul caso e mi faccia sapere perché questa mosca a pancia all’aria nel brodo.
…
– Ho indagato.
– E allora?
– Perché Lei potesse comandarmi.
– Ahhh! Mi porti il caffè, mi è passato l’appetito. (con tono alterato) Senza zucchero, mi raccomando.
– Come comanda Lei, Sir. Per accontentarla.
Buona serata, di nuovo
g.
non avrei difficoltà a risistemare una frase, a limare, a rivedere, a reinventare, se un editor mi facesse comprendere che serve a rendere migliore il mio testo. certo, dovrei essere d’accordo, dovrei essere il primo a dargli ragione, e troverebbe terreno fertile, non sono il tipo che considera i suoi scritti nati perfetti alla prima spinta.
direi di no solo se snaturasse il mio lavoro, se non mi ritrovassi in quello che viene fuori, se dovessi riscrivere un libro seguendo quello che l’editor vorrebbe scrivessi.
ora: se fosse l’editor di una grande – per via della distribuzione -casa editrice, mi romperebbe il ca**o dire di no, perchè quando cristo lo ritrovo un contratto con questi qui, ma purtroppo quella sarebbe la mia linea, dire no assolutamente.
quindi, che fare? forse spedire il manoscritto ad altre case editrici sperando di trovarne una che creda nel progetto, sperando di trovare un editor meno invasivo, sperando, sperando… oppure, per non morire cacando, autoprodursi i romanzi e essere distribuiti da autocircuito.it – solo per autori autoprodotti – in oltre settanta librerie italiane.
ecco, ora sono uno scrittore, i miei libri sono in libreria, sono rilassato e non intaso i blog con acide stronzate su tutto quello che concerne l’editoria italiana. mi limito a leggere e ogni tanto commentare con qualche stupida battuta ininfluente.
consiglio questa strada a tanta gente.
sì lo so, autoprodursi è un palliativo, da sfigati forse. un amico mi ha detto che è come masturbarsi invece di scopare.
embè, il risultato è il solito, comunque si gode.
No. Io credo che la soluzione più coerente sia non scrivere.
però, però. però.
Però la conoscete la parabola del tizio che per estrema coerenza non scriveva (agrafia autopunitiva esistenzialista) eppure pretendeva uguale di essere uno scrittore?
Al punto che era pure piuttosto incazzato perché nessuno lo pubblicava?
(Ora metto su Modern Dance dei Pere Ubu e mi fumo una sigaretta).
Forse forse ce l’ho fatta
a superare quel blocco enorme che scaturiva dall’immagine…
io non sapevo niente di editing….
mi piace la definizione che viene fatta del rapporto di empatia che deve sorgere tra l’editor e l’autor…..molto interessante…
direi vitale per la riuscita di un’opera buona!
Bene. Il dibattito è servito. Manca solo uno spot e provvedo io, che da giovane facevo lo spammatore. A Vibrisselibri i libri approvati dal comitato di lettura ricevono un servizio di editing ***gratuito***, seguito da quello di impaginazione e pubblicazione in pdf. L’ufficio grafica provvede – sempre gratuitamente – alla copertina e poiché, oltre a essere una casa editrice on line, Vibrisselibri è anche un’agenzia letteraria, gli editor di passaggio in Nazione Indiana possono tranquillamente attingere al catalogo di VL (solo 4 i titoli usciti sinora) per concordare con gli uffici responsabili l’acquisto dei diritti di pubblicazione in cartaceo dei testi cui sono interessati. Sono PRONTI PER LA STAMPA. Se li acquistasse Paola Gallo, si troverebbe la pappa già scodellata. Un bel vantaggio, no?
ehm…
(minuto di pudore).
Ipotizziamo che una società, la Pirelli, decida di emettere un’obbligazione. Cosa fa di solito? Contatta un tizio o un gruppo di tizi che si fanno chiamare ADVISOR, i quali danno pareri finanziari alla società che li ha contattati, elaborano degli studi per capire (spesso non ci riescono) se il mercato sarà disposto a comprarsi il bond, e a che prezzo, definiscono i termini dell’operazione, togliendo tutto ciò che è superfluo, e alla fine si impegnano a distribuire questi strumenti finanziari, contattando le banche, e costruendo, in un certo senso, una rete di distribuzione fino al grado zero del risparmiatore, la massaia di Stradella.
Questi advisor si chiamano ad esempio Lehman Brothers, Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, e sono spesso famose e rinomate banche di investimento diffuse su tutto il globo terracqueo. Danno consigli nel caso si debbano piazzare le obbligazioni, ma anche quando si tratta di vendere azioni (negli aumenti di capitale), o per altre operazioni societarie (fusioni, scissioni, aste, quotazioni in borsa).
Nel più dei casi (direi sempre) la Pirelli di turno si affida ciecamente a quello che gli dicono gli advisor; i quali, a loro volta, molto mal volentieri rinunciano a compiere l’operazione per conto del cliente; nel nostro caso, a distribuire il bond.
E comunque la Pirelli, che ha un disperato bisogno di emettere quell’obbligazione, se trovasse un advisor non disposto a collaborare, farebbe il giro di tutte le banche di investimento fino a scovare qualcuno che dice: certo, emettere questa obbligazione è una gran bella idea, è un’idea geniale, dammi 10 milioni di euro, amigo, che io te la vendo a due milioni di italiani.
Perchè tanto l’advisor sa che, in qualche modo, quell’obbligazione riuscirà ad essere piazzata; e riuscirà a finire anche nel potrafoglio della massaia di Stradella. Infatti l’advisor si sarà impegnato a fare una bella pubblicità, oppure a nascondere qualche conticino dei libri contabili del cliente oppure pagando un paio di giornalisti affinchè ne scrivano bene sulle colonne di finanza de “La Gazzetta dell’Oltrepo Pavese”.
Probabilmente, senza quell’advisor, Pirelli non avrebbe mai emesso l’obbligazione, tale è la fiducia nei confronti del consulente. E la massaia di Stradella avrebbe ancora mille euro sotto il letto. E ora, anzichè fissare lo schermo del Mibtel sul televideo starebbe ancora guardando “Il Pranzo è Servito” su Padania TV.
Negli ultimi cinque anni (e questi sono conti veri) gli advisor di Pirelli hanno intascato, per consulenze a emissioni di bond, azioni, e pareri per operazioni societarie, circa 2 miliardi di euro. E intanto Pirelli si è riempita di debiti; e il suo amministratore delegato è stato costretto a un mesto ritiro dalla scena della finanza italiana.
Per ogni imprenditore che è finito presto sul viale del tramonto, c’è un advisor che sta contando i soldi che ha incassato, mentre aspetta la telefonata del suo prossimo cliente.
bella parabola.
Uno scrittore è immorale (o molto bisognoso) il giorno in cui permette che qualcuno gli modifichi gli scritti; finché vende scritti che non sono destinati per necessità intrinseca alla vendita, dimostrerà non già la sua contraddittorietà, ma soltanto la sua mancanza di rendite (Elémire Zolla).
e già, lumina/zolla: la letteratura è cosa per chi ha una rendita e può permettersi di passare la giornata a scrivere, che può lavorare per l’immortalità e non per pagar l’affitto…
Scrivere ed essere letti insieme è un lusso
Lumina,
lusso che non tutti possono permettersi!
;-)
e poi,
come si fa a scrievere una cosa così:
Uno scrittore è immorale (o molto bisognoso) il giorno in cui permette che qualcuno gli modifichi gli scritti;
e chi li modifica?
Si tratta di trovare un accordo su cosa e come deve essere cambiato.
non sarà facile ma non è impossibile.
Lumina, ma lumina pero!!!
chiedere a luminamenti di (andare a) lavorare, è volere la fine dell’universo conosciuto. lui pensa. ed è questa sua attività a imprimere il moto a pianeti e galassie.
Se ho capito bene: uno manda il manoscritto all’editore, nel pieno delle proprie facoltà di scelta. L’editore liberamente e per giudizio oggettivo o personale decide di pubblicare o non pubblicare. Se decide di pubblicare, ha due alternative: correggere il testo, non correggere il testo, esercitando un proprio diritto siccome è lui che paga ed è lui che sceglie il prodotto. Fin qui nessuna delle parti vede limitata la propria libertà, perché nessuno è obbligato a pubblicare se non vuole. Se l’editore decide di correggere il testo, e lo può chiedere perché c’è libertà di farlo, l’autore ha due alternative: rifiutare o accettare, in piena libertà perché nessuno lo obbliga o lo può obbligare. Allora, fermo restando che i bisogni di ciascuno sono rilevanti, nello specifico bisogno materiali, culturali, emotivi, civili, ambizioni varie, vizi, sanità e virtù, rimane che ognuno è libero di fare quel che crede. Dunque fino a qui non c’è strapotere, non c’è coercizione, non c’è nulla di ciò che si è andati scrivendo verso gli editor e gli editori. Se l’editore chiede modifiche che rendano il testo più appetibile, più commerciale, ovvero più colto, più bello, più brutto, più… In questo caso l’autore può sempre esercitare la propria libertà di scelta. Può accettare con gratitudine i consigli, sia partecipati; sia motivati dalla remunerazione che l’editore giustamente ritiene di dover avere a fronte dell’impegno di pubblicare, coi rischi economici e pure di immagine di un possibile affare sbagliato o troppo rischioso. A questo punto è l’autore in un dilemma. Accettare con umiltà o rifiutare con umiltà? L’autore è dunque chiamato in causa in questa questione, non l’editor o l’editore, giacché ne è della libertà, con le più sopra citate sfumature.