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Ladyhawke ladyhawke

di Francesco Longo

Michele Mari è uno dei più grandi scrittori italiani viventi. La sua opera, per dirne una, compare già nelle storie della letteratura italiana. È un raffinato e ruvidissimo romanziere che ha dato vita a libri di culto, tra cui forse il più imponente e indimenticabile è Rondini sul filo (Mondadori 1999). Oggi Einaudi pubblica il suo libro di poesie, intitolato Cento poesie d’amore a Ladyhawke.
Tra le pagine di Rondini sul filo, un romanzo che iniziava e finiva senza mai aver bisogno di un punto a capo – né di un punto semplice – il protagonista diceva: “quell’orrendo tu montaliano, chi era? Sto vezzo del Novecento se l’ho sempre aborrito”. Che quell’io narrante fosse o meno autobiografico non è molto importante, certo è che, per chi ha letto quel romanzo, adesso è un colpo leggere queste poesie.
Le poesie per Ladyhawke sono infatti tutte rivolte ad un tu. Per esempio: “Dal mio banco al tuo / c’erano tre metri / che non ho mai percorso”. E siamo noi ora ad interrogarci su questo vezzo novecentesco del “tu” e ci chiediamo: chi è? Chi è Ladyhawke?
Difficile pensare che Mari abbia potuto recidere del tutto il suo passato di romanziere, e dunque, seppure col rischio di forzare l’interpretazione, si possono leggere queste poesie in modo narrativo. E cioè credere che vi sia un percorso in cui il “tu” di questi testi vada, di pagina in pagina, costituendo un’identità femminile e una storia. Si può tentare cioè di ripristinare il volto di Ladyhawke e la sua vicenda d’amore, a partire dalle singole poesie. E rispondere così alla domanda: chi è questo tu?
I temi che ritornano in questi versi sono almeno tre: un amore che risale ai tempi della scuola; trent’anni passati nella lontananza; un amore sempre ostacolato. Questo libro potrebbe intendersi come un ulteriore segmento, il quarto: quello della rivelazione dell’amore. La dichiarazione tardiva che ad un certo punto esplode. La dichiarazione a cui il J. Alfred Prufrock di Eliot, per esempio, non riusciva mai a dar voce.
Dunque, seguiamo la storia. Una poesia dice: “non ti ho mai visto i piedi / non ti ho mai visto in camicia da notte / […] e dopo più di trent’anni / non ho ancora capito / se questo è un bene / o un male”. E in un’altra: “scoprimmo insieme / di esser vissuti trent’anni nell’errore”. E ancora: “restare per trent’anni appeso”. E infine: “Trent’anni / mi sono preparato allo scontro finale”.
Questo amore è sempre rimandato. D’altra parte, il titolo Ladyhawke si riferisce proprio a questa impossibilità dell’amore: “La fiaba degli amanti / cui un maleficio tolse / d’incontrarsi / […] ci piacque tanto che per un bel pezzo / ci siamo firmati Knightwolf e Ladyhawke”.
La condizione di sospensione e di irrealizzabilità diventa la struttura di questa raccolta. Si potrebbe citare, come emblematica, la poesia che dice: “arrivati a questo punto / dicesti / o si va oltre / o non ci si vede mai più / Non capivi che il bello era proprio quel punto / era rimanere nel limbo delle cose sospese”. In questo limbo staziona la “trama” e anche il linguaggio poetico di Mari, che evita di imboccare una strada e si muove almeno in due direzioni alla volta. Mari sceglie le parole dai lembi estremi del dizionario, e così in una poesia si possono trovare insieme “Cavalcanti” e “sputnik”, e da un testo all’altro si può viaggiare da Assisi all’ Overlook hotel.
Si potrebbe poi indagare l’immaginario western delle poesie (il “battello del Mississipi”, “un uomo chiamato cavallo”, “la cassaforte verde della banca di El Paso”), oppure interrogarsi sull’ultima poesia. In questa infatti compaiono 119 nomi di fiori tra cui il croco. Fiore di cui parlava Pascoli, che sgridava così l’imprecisione dei poeti: “basta dir fiori e fioretti, e aggiungere, magari, vermigli e gialli, e non far distinzione tra un greppo coperto di margherite e un prato gremito di crochi”. A tale strigliata, Montale nel celebre Non chiederci la parola si sentì di avvertire i lettori di non avere parole che potessero “dichiarare” e “risplendere” “come un croco”.
Le poesie di Mari splendono ma sfuggono. Mari ci ha abituati a grandi densità narrative e a farci percorrere insieme a lui scalinate in discesa che ci immergono nel buio delle ossessioni. Ci ha abituati a ricevere ondate lessicali, grandi masse di letterarietà, svezzandoci con enormi porzioni cariche di dolori acuti, insopportabili. Non si può nascondere che, dopo aver letto due o tre volte Ladyhawke, si abbia solo voglia di aspettare il suo prossimo romanzo.

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24 Commenti

  1. “Michele Mari è uno dei più grandi scrittori italiani viventi”

    “Roberto Saviano è uno dei più grandi scrittori italiani viventi”

    “Alessandro Baricco è uno dei più grandi scrittori italiani viventi”

    “Giorgio Faletti è uno dei più grandi scrittori italiani viventi”
    ……..

    Please, piantatela con codesti incipit tonitruanti.
    Mi state facendo diventare uno dei più grandi scrittori morenti (di noia).

  2. Confermo. Michele Mari è un grandissimo. Dava del tu anche all’infanzia (non solo a Ladyhawke), pur definendola sanguinosa.
    “Tu, sanguinosa infanzia” (titolo sublime).

  3. Un gran bel libro. A parte la Cavalli, erano anni che non leggevo nella anemica bianca collana einaudiana , qualcosa di così vitale e intenso. Tra il dire e il fare c’è di mezzo Michele Mari.

  4. c’è una bella differenza tra dire : Michele Mari è uno dei più grandi scrittori italiani viventi”, e dire: “Roberto Saviano è uno dei più grandi scrittori italiani viventi”
    o “Alessandro Baricco è uno dei più grandi scrittori italiani viventi”
    o “Giorgio Faletti è uno dei più grandi scrittori italiani viventi”.

    c’è una bella differenza, se ci pensi, no?

  5. @ Longo

    Non vorrei finire a fare il dandy come Camillo Langone o, peggio, come altri che non siano Camillo Langone.
    Però spero tu convenga che si abusa moltissimo di superlativi, relativi per i più discreti o assoluti per i più coraggiosi.
    Questa corsa agli armamenti lessicali produce secondo me tre risultati:

    1) Sospetto e noia nel lettore, con conseguente vanificazione del significato dei giudizi espressi, sia nei casi in cui il superlativo sarebbe meritiato, sia nei casi diametralmente opposti (la domanda “ma quanti sono questi – più grandi – in Italia?” credo sia a questo punto obbligatoria)
    2) Generica, sgradevole sensazione di “marchetta”, una vera “sindrome D’Orrico”. Sarà ipocrisia ed eccesso di conservatorismo, ma credo che una forma più controllata ed imparziale aiuti la serietà del discorso e della critica letteraria.
    3) Un’escalation linguistica che prima o poi indurrà qualche anima bella a proporre un superlativo del superlativo quale completamento permanente alla lingua di Dante (Ottimissimo, eccezionalissimo…) proprio per permettere nuovamente una distinzione ed una scala valoriale.

    Se si potesse fare a meno di tutto questo… sarebbe bellissimissimo. :))))))))))

    Vale et ego.

  6. @abateditheleme
    giustissimo, veramente, sottoscrivo quello che dici. devo dire che cerco di non usare quasi mai superlativi. è chiaro che quando ho scritto quella frase suonava anche a me come una marchetta o come uno spot, o un rilancio. però credo che se chi ha un minimo di capacità di distinguere ancora tra faletti e mari (come possiamo avere noi) si tira indietro, fa un pessimo servizio. non posso far intendere che mari è mediocre, e lascare i superlativi solo a chi parla di faletti. se lascio quelle parole di elogio a chi non ha idea di cosa sia la critica letteraria la colpa diventa mia.
    per me il modo di riappripriarmi delle parole è usarle quando servono. rieducarle a stare al loro posto. farle tornare ad avere il significato che hanno.
    ci sono mille rischi. di alcuni mi rendo conto.quelli che tu elenchi sono esempi evidenti. è solo la mia idea.
    grazie

  7. Il mio amore è un trapano tremendo
    con punte
    al tungsteno
    al molibdeno
    al vanadio
    che fanno paura soltanto a vedersi

    Il guaio è che da ragazzo
    mi han fregato il mandrino
    e ancora
    lo sto cercando

    (così leggendo una poesia ho anche imparato cos’è il mandrino!)

  8. che michele mari sia uno dei pochi scrittori di valore presenti oggi in italia, mi trova perfettamente d’accordo. così come mi trova d’accordo l’affermazione di chi dice che sarebbe pure l’ora di smetterla con superlativi e affini. che poi questi ‘testi’ rappresentino un ‘gran libro’ di poesia, lo trovo, invece, francamente inaccettabile.

    se dieci poeti si presentano all’einaudi, o a qualsiasi altra casa editrice, con un libro del genere da pubblicare, vengono messi alla porta seduta stante. non perché lì capiscano o sappiano distinguere il ‘valore’, più o meno presunto, di una proposta poetica (basta vedere il cumulo insopportabile di ciofeche col quale hanno imbrattato la ‘bianca’ negli ultimi anni), ma perché proprio non li prenderebbe in considerazione nessuno.

    qui non è il valore dell’opera a farsi libro, è il nome che ‘fa’ il libro. si tratta di operazioni strettamente legate all’incidenza dell’autore. lo stesso discorso, anche se su un piano diverso, che si può fare per l’ultima ‘fatica’ di aldo nove. se hai un nome, ti puoi permettere di tirare fuori dai cassetti anche l’impresentabile. la realtà è questa. prendere o lasciare. io lascio.

  9. Tu guidavi mentre io ubriaca di gelosia
    continuavo a chiedere.
    E poi mi hai detto: “Senti camminiamo”,
    Siamo scesi in fretta ma restati li…

    In silenzio soli, io ti ho stretto, stretto a me.
    La tua giacca sul mio viso
    mi hai detto: “Basta amore,
    sono stanco, lo vuoi tu?”

    Pazza idea, Patty Pravo, 1973

  10. Tu non dici mai niente
    (di L. Ferré – trad. di E. Medail)

    Io vedo il mondo come qualcosa d’incredibile
    L’incredibile è cio che non si puo vedere
    Fiori nelle matita Debussy sulla sabbia
    In una sconosciuta località di mare
    Ragazze dentro il ferro in fondo all’abitudine
    Minatori che scavano nella loro apatià
    Reggiseni per gatti e degli industriali
    Che lavorano per gli operai della Fiat
    Io vivo altrove dentro la quarta dimensione
    Dove è messa in fumetti la relatività
    Vieni da me che sono la quercia ed il domani
    Vieni da me c’è un fuoco che ti riscalderà
    Io volo per la pelle in cieli di miseria
    Io sono un vecchio Boeing dell’anno ottantanove
    Porto il fiore tra i denti verso l’ultima guerra
    Con macchine da scrivere dalle uniformi nuove
    Io vedo pianoforti su ventri di ragazze
    Ed in occhi di bimba la stereofonia
    Uno scimpanzè di ghiaccio che canta la mia musica
    Dolcemente con me e tu non parli mai

    Tu non dici mai niente tu non dici mai niente
    Qualche volta tu piangi come piangon le bestie
    Che non sanno il perchè e non dicono niente
    Come te l’occhio altrove mi fanno le feste

    Io vedo moltitudini nel tuo ventre deserto
    Io sono l’indomani il mio domani sei tu
    Io vedo denudarsi fidanzati perduti
    Alla tua voce lieve agni notte di più
    Tiepidi odori sopra marciapiedi di sogno
    Nel mio letto d’asfalte dentro a questa città
    Sopra di me lo scorrere di ragazze e di spugne
    Che trasudano il succo di questa folle età
    Io vivo altrove dentro la dimensione ics
    E osservo il mondo da una feritoia
    Io sono il sempre il mai sono la ics
    Della formula dell’amore e della noia
    Io vedo tramvai blu su rotaie di pianto
    Paraventi cinesi sotto il vento del nord
    Oggetti senza oggetto e finestre d’artisti
    Da cui escono il sole il genio e la morte
    Aspetta vedo ancora una stella smaritta
    Che ti viene a trovare e ti parla di me
    La conosco da tempo vive alla porta accanto
    Ma la sua luce è illusaria come te

    E non mi dici niente tu non dici mai niente
    Ma splendi nel mio cuore come splende una stella
    Coi suoi fuochi perduti in sentieri lontani
    Tu non dici mai niente proprio come una stella

  11. Lei ha scritto che ho capito a volo, e ha chiesto come faccio. Mi sembra, dal tono, una palese domanda retorica. Perché, ce l’ha con me? – domando -. Presumo allora di aver sbagliato qualcosa: me lo spiega per cortesia?

  12. Non è copla mia se la poesia postata nel commento di così&come mi ha fatto tornare in mente la conzone di Patty Pravo, del ’73. A me piace. Sarà stato l’uso del “tu”, oppure qualche risonanza nella mia mente a farmela ricordare. Era questo che intendeva dire lei?
    Spero di aver chiarito il piccolo equivoco. Buona serata.

  13. Per correttezza riporto la poesia che mi ero andato a cercare prima di scrivere il commento con la citata conzone do Patty Pravo.

    In quale oceano, in quale notte
    la sto perdendo
    chiesi al delfino

    Disse il delfino:
    nell’acqua nera
    dove quello che unisce separa
    dove il silenzio è un boato
    dove sei perso anche tu

    Fedeli al duro accordo
    non ci cerchiamo più

    Così i bambini giocano
    a non ridere per primi
    guardandosi negli occhi
    e alcuni sono così bravi
    che diventano tristi
    per la vita intera

    Michele Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke, 2007

  14. Se le parole hanno un senso, e non sono invece tirate dove meglio aggrada, ecco siamo qui tra la paura e la distinzione. Buon pranzo.

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