I fratelli minori
di Giovanni Carta
I was dumbfounded. It happened so fast. I wasn’t sure what I’d just seen and thought for a moment that it was some kind of an illusion. I looked closely to see if his feet were fastened to the board. They weren’t. Whatever he did, I needed to see it again.
Ero sbalordito. Era successo così in fretta. Non ero sicuro di quanto avevo appena visto e per un momento ho pensato che ci fosse sotto qualche specie di trucco. Ho guardato da più vicino, per vedere se i suoi piedi erano legati da lacci alla tavola. Ma non lo erano. Qualsiasi cosa avesse fatto, avevo bisogno di vederlo di nuovo.
Stacy Peralta nel ‘77, dopo aver visto il primo ollie(1).
Quando laggiù, in California o Florida che fosse, Alan “Ollie” Gelfand l’aveva già insegnato a qualcuno(2), agli estremi opposti dell’occidente, in alcuni piccoli centri rurali del meridione mediterraneo che non sto a precisare, una forza a metà tra storia e tradizione ancora imperava, imponendo agli uomini una regola precisa: qui, non succederà mai niente.
Soltanto le antenne sui tetti ricordavano a chi capitava in questi paesi di essere negli anni Ottanta del ventesimo secolo. Le tegole brune, i muri torti e sporgenti sulla via e l’intricato reticolo di vicoli facevano sembrare questi pueblos l’ultima evoluzione della lenta marcia geologica. Alti portali si aprivano su piccoli corti quadrate, ma solo per la raccolta del grano e per la vendemmia, e campanili tronchi sorvegliavano i vicini confini dell’abitato, a dire dove finiva la comunità e la proprietà privata. Anche le case costruite da poco erano già segnate dal “tempo che passa”: i blocchetti e il cemento armato già mimetizzati con gli antichi materiali, con l’arenaria, con il fango e il legno, alla maniera delle scaglie di mattone, che la risacca leviga e presto offre al bagnante come ciottoli quasi veri.
Quale che fosse il giorno della settimana, nell’aria si sentiva sempre l’odore della messa finita, di mandorle messe al sole; nella piazza della chiesa i vecchi consumavano le ossa su lunghe panche di marmo bianco. I suoni aspri della lingua di cui essi erano presumibilmente gli ultimi parlanti in vita, una lingua che la scuola vietava e le madri non volevano sentire a tavola, erano pronunciati con parsimonia, perché questi vecchi preferivano il silenzio e l’andare d’accordo tra loro. A volte capitava uno nuovo, un vecchio nuovo che aveva voglia di discutere e obbligava gli altri a rispondere per avere poi l’occasione di contraddire, ma la pressione arteriosa presto se li portava, questi oratori. Le campane allora suonavano a morto, i vecchi levavano il berretto e tornava il silenzio; fino all’arrivo di un altro nuovo, le mani sui fianchi a sbraitare: “Eh, però…”, e tutto ricominciava.
Quando il vento arriva in aree rurali ed assolate come quelle che qui descrivo, fa le solite cose folcloristiche cui ci ha abituato il cinema: arruffa i capelli dei bambini che corrono al bar a cercare un videogioco libero, permette alle donne di separare il grano dalla pula, dà un breve e inaspettato sollievo alle schiene abbronzate degli operai che, curvi sulle pale nere, seguono la macchina asfaltatrice. Durante gli anni Ottanta infatti i lavori stradali procedevano, pagati dalle amministrazioni comunali di questi piccoli insediamenti per scalare la collina, nella speranza di allargare i confini dell’abitato, di attirare gente dai paesi vicini: i prezzi bassi della terra pronti da offrire.
Dentro le case, le donne facevano entrare l’ospite solo se accompagnato, e gli offrivano il bitter con limone in salotti barocchissimi, il cellofan che copriva i tessuti a fiori dei divani. L’odore di confetti e di polvere faceva pensare che quelle stanze avessero proprio bisogno di “prendere aria”; una volta accomodati, si stava sotto l’attenta sorveglianza di un piccolo tante trasmissioni-contenitore dedicate agli adolescenti, con le ultime novità provenienti dagli Stati Uniti. Lontani dai salotti, dal cellofan e dai televisori, gli alti letti in ferro delle camere patronali aspettavano perfetti la sera, le trapunte ricamate tese come pelli di tamburo; nelle stanze dei ragazzi, file di lattine di Coca Cola e di Fanta di diverse provenienze e nazionalità, frutto di anni di collezionismo, sorvegliavano dall’alto delle mensole.
Dopo il pranzo, i bambini sedevano nell’ombra davanti ai portali chiusi, in attesa: la terra per anni si era sollevata in piccole nuvole, permettendo ai portieri di tuffarsi a fare le parate, a chi non stava in porta di fare le scivolate, il giorno che la terra aveva cessato di sollevarsi, però, non soltanto il pallone era rimbalzato in un modo nuovo e rumoroso, ma era capitato anche qualcos’altro. L’asfalto infatti è anche una cosa liscia, asciutta e vergine. Era arrivato dalle colline quasi per caso, forse per un’eccedenza di catrame nel cassone della macchina asfaltatrice, e quando aveva smesso di fumare ed era solidificato definitivamente, calligrafie femminili subito lo avevano segnato di dediche e cuori rosso mattone. Alcuni ragazzi avevano preso in prestito dai più piccoli gli skate-banana(3) regalati per Natale e le ruote di plastica erano risuonate sui muri. I bambini così, ora aspettavano che del pomeriggio passassero quelle prime ore che, con l’amplificazione causata dall’asfalto, erano state vietate sia per il gioco del calcio che per tutte le altre pratiche rumorose. I ragazzi, ormai imparati i rudimenti di una discesa perlomeno sicura sugli skate-banana, si erano procurati skate più grandi e veloci, gli avevano dato il nome di “skate professionali” e ora, nel dopo pranzo, erano in giro alla ricerca prima solo di superfici poi anche di bordi.
In inglese, il sostantivo generico di quello che i primi skater di questi pueblos volevano assolutamente imparare è “trick”, che tradotto vuol dire trucco e inganno. Le uniche altre pratiche che nell’intero territorio comunale potessero essere assimilate a questa definizione erano le “pariglie”: corse sfrenate di cavalli che per secoli si erano viste nella strada centrale del paese, in cui i cavalieri esibivano le proprie doti acrobatiche. Ora che le strade in paese erano state asfaltate, le “pariglie” si correvano fuori dall’abitato: il pubblico definiva in due lunghe file la pista improvvisata, apprezzando con applausi le prove più coraggiose e partecipando con sospiri collettivi alle cadute. Fino all’arrivo dei flussi turistici, e alla necessità di animare con un tocco di “realtà locale” le estati, queste manifestazioni erano praticate in primavera, durante le celebrazioni per il santo patrono(4). In questi piccoli centri, diventare adulti era da sempre una questione di velocità e di cavalli, così solo il coraggio e l’approvazione della comunità permetteva ai ragazzi di entrare nel novero dei cavalieri e quindi degli uomini. Già nei primi anni Ottanta, però, la percentuale di cavalieri e di allevatori di cavalli era diminuita rispetto al passato con una forte progressione. Senza volerci vedere nessuna connessione di tipo deterministico ma attenendoci a semplici dati demografici, negli anni Ottanta molti ragazzi in questi pueblos si bucavano le braccia o il dietro delle ginocchia, o imparavano i riff dei Doors o di qualche altra band, ma era un segreto, e le donne non ne parlavano. Nelle vetrine dell’unica bottega del paese che non vendeva da mangiare, accanto alle stelle filanti dell’ultimo carnevale e alle facce di Zorro di cartoncino sbiadito con i buchi per gli occhi, poggiavano ora tavole di “skate professionali”, attacchi, e ruote piccole e bianche.
“L’area destinata al verde pubblico” è qualunque spiazzo non reclamato da nessuno, di cui l’assessore all’urbanistica un giorno decide che il Comune deve prendere possesso, ordina un bel disegno sul lucido ad un geometra, e magari il geometra applica pure un paio di decalcomanie di alberi, di aiuole, di gradini e di panchine attorno e sopra l’elemento architettonico fondamentale e fondante: una spaziosa distesa nuova di cemento liscio. Il giorno dell’inaugurazione queste “piazzette” (come furono presto ridefinite) erano lustri posti inutili che facevano venire in mente delle enormi bomboniere.
I vecchi continuarono a prediligere le lunghe panche della piazza della chiesa; i ragazzi col pallone, le strade anche se asfaltate per giocare a pallone. Gli uomini e le donne, che conoscevano le colline vicine e la vicina montagna dove spesso andavano a funghi o ad asparagi o a lumache, si può intuire quanto fossero sensibili al tema del “verde pubblico”. Alcuni audaci potevano interessarsi della piazzetta a una fontanella, da sradicare e rivendere a un privato per il giardino della casa al mare, o a qualche specie vegetale non presente in campagna, ma succedeva raramente. Il giorno dell’inaugurazione, il solo utilizzo potenziale che poteva venire in testa a guardare il “verde pubblico”, era quello propagandistico-elettorale, probabilmente l’unico previsto anche dall’amministrazione comunale. La presenza di un piano di cemento liscio e vietato all’accesso delle auto, anche se di ridotte dimensioni, permette però da sempre i primi tentativi di chi vuole imparare qualcosa su ruote, pur nella timidezza delle cadute davanti ai passanti e ai ragazzi in bicicletta o motorino che, nella precisa fattispecie di questi pueblos negli anni Ottanta, si fermavano a guardare quello che avevano visto solo in televisione: uno “skate professionale”.
Arriva però sempre il giorno che qualcuno degli abitanti di questi pueblos decide che il “verde pubblico” gli abbellisce la facciata della casa, ed esporta la sua proprietà privata ai gradini della piazzetta adiacente alla sua abitazione, ai muretti e ai marciapiedi demaniali, spiando dietro le tapparelle e dando la stura a inseguimenti e fughe. Le ripetute telefonate anonime hanno così permesso ai rappresentanti della forza pubblica di imparare nuove forme di reato, nuovi divieti e nuove e fantasiose sanzioni (per esempio il “sequestro della tavola”, che vede l’immagine paradossale di un rappresentante in divisa e pistola allontanarsi dal luogo del reato con uno skate sottobraccio come qualsiasi skater, solo vestito in un modo un po’ eccentrico). Molti degli skate in quei giorni sono finiti nei depositi comunali o nei garage, dove vengono tuttora utilizzati come carrelli per portare pesi.
Giù da qualche discesa però, in questi pueblos c’è sempre qualche recinzione, e scavalcata la recinzione, le pareti inclinate di un vascone secco, i lunghi marmi di un monumento ai caduti, i marciapiedi e le scalinate delle scuole quando le scuole sono chiuse. I muri alti delle scuole chiuse e le siepi dei monumenti ai caduti hanno così permesso velocità e discrezione, migliorando le tecniche e affinando gli stili personali di chi praticava lo skateboarding. Al riparo delle recinzioni, le ossa hanno imparato a ripetere in modo volontario e non più accidentale i trick, per la cui effettiva esecuzione(5) – questo va detto – c’è voluto molto meno tempo che per impararne le più o meno grammaticalmente corrette definizioni(6).
Negli ultimi venticinque anni qualcosa di insondabile poi però è successo, e ha sottratto questi pueblos all’isolamento e a un destino stabile. La frizione tra il passato, in cui gli abitanti vivevano il quotidiano-lavorativo, e il presente occidentale, emesso dai nel frattempo moltiplicati mezzi di comunicazione, ha imposto nuove forme di consumo e causato spinte culturali interne dalle forme grottesche o perlomeno originali. Sui tetti sono arrivati i dischi bianchi della ricezione satellitare. La gente ora viene da lontano per fotografare una buona mole, equamente distribuita sulle colline intorno, di sassi archeologici, che hanno così sostituito i campanili cattolici a definire i confini delle comunità, assieme a leggi buffe come quella che obbliga tutte le case nuove ad avere un portale di legno, i muri di un dato spessore, e una certa tonalità di marroncino sulle tegole. A definire i confini della comunità è subentrato anche un terzo fattore. Ognuno di questi paesi ha infatti appreso, più che ricordato, di avere una lingua privata e perduta ancora da formalizzare, la stessa lingua che i vecchi parlavano nella piazza della chiesa. Per la prima volta questa lingua è stata scritta e sanzionata grammaticalmente(7). Molti termini, considerati ormai inutili, sono stati accantonati, mentre sono fioriti diversi neologismi per i nuovi referenti entrati nella vita quotidiana.
In alcuni di questi piccoli centri è stato addirittura costruito uno skate-park, e questo ha permesso ai ragazzi che un tempo chiamavano i loro skate “professionali” (ora panettieri, manovali o bagnini, ben oltre la trentina e piuttosto determinati) di affinare ulteriormente le linee e di entrare se non nella rispettabilità e considerazione dei compaesani, almeno nel novero degli onesti, dei non-più-teppisti. Niente più piazzette dunque, niente più siti nascosti da esplorare e bordi nuovi da scovare. Andare(8) negli skate-park, per chi in questi pueblos aveva “imparato” lo skate negli anni Ottanta, ha però necessariamente un suono diverso. Sebbene oggi come allora basti ancora la giusta pressione sulla parte posteriore della tavola, l’impatto dei sette strati di acero sulla terra e il successivo attrito, il piede avanti che solleva il resto del corpo… l’esterno della scarpa del piede avanti che striscia sulla carta abrasiva incollata alla tavola, portandosela dietro per poi calciarla verso moti di gradazione varia su uno dei tre assi, e infine affidarla ad un bordo o semplicemente tornare a terra: tutto questo negli skate-park ha un suono che a dirla tutta può essere visto sì, ma si sente poco e male. È il suono di quando ci si allaccia le scarpe e i lacci nella stretta chiudono il fiocco: un suono concluso, perfetto e simmetrico. Il legno, il cemento armato e il ferro, quando prendono la forma di luogo adibito all’uso più o meno esclusivo (con gli anni sono arrivati anche i roller e le bmx) degli skater, producono al contatto o al semplice passaggio un rollio/ticchettio debole e uniforme. È possibile udire questo rumore pure alla televisione, ogniqualvolta un cronista più o meno preparato presenta il frammento di un video di skate, inserendolo nella lunga sequela di frammenti delle innumerevoli pratiche cui non da molto hanno dato il nome di “sport estremi”.
La varietà di materiali che negli anni Ottanta (e nei Novanta) gli skater invece incontravano andando per le strade di questi pueblos, la casualità di binomi di materiali assolutamente non-nati l’uno per l’altro e ora sposati in attriti non sempre facili (spesso possibili soltanto dopo il consumo massiccio di cera o sapone), producevano rumori sfaccettati e originali, tanto che anche solo dal suono si poteva capire quale panchina in quale piazzetta di quale paese in un preciso momento era utilizzata.
La prima volta che la ricerca di superfici e bordi si è spinta fino alla piazza della chiesa patronale, e siamo ancora negli anni Ottanta seppure alla fine, in un preciso momento di quella prima volta è apparso in questi pueblos un suono terzo, tanto diverso sia dal suono che fa l’andare oggi negli skate-park, quanto dal suono sfaccettato dei materiali inadatti che gli skater avevano adattato. Nel preciso momento in cui ancora le figure lunghe degli skater non erano apparse all’imboccatura della piazza, la facciata della chiesa è stata raggiunta da un rumore non riconoscibile in nessuna precedente esperienza liturgica, sebbene si tratti a rigore comunque di una, seppure alquanto originale, forma di epifania. L’unico rumore conosciuto assimilabile a quel suono, che si faceva progressivamente più vicino, è il fiato di un animale in arrivo dalla collina, corto e affannato per la paura o l’eccitazione. Questa assimilazione dipende dai vecchi, che in quel momento erano gli unici ad udire. Negli anni Ottanta infatti, questi vecchi ancora sedevano silenziosi sulle panche della piazza della chiesa con lo status, anche se ancora per poco, di unici abitanti stabili. Essi quel giorno percepivano questo suono per la prima volta, e la loro sola presenza fisica di rappresentanti anziani ne definiva la forma e diventava tramite verso l’intera comunità, di cui le facciate fitte delle case aperte sulla piazza e la facciata della chiesa e il campanile e da lì i tetti fino al confine dell’abitato, sembravano ora in attesa di responso e giudizio.
Quando poi le mattonelle lisce della piazza hanno ticchettato sotto le ruote, il suono si è aperto, e lo si è potuto ricondurre a un’origine meccanica visibile: il rumore discendente e ripetuto prodotto dall’attrito dei cuscinetti interni alle ruote(9) in seguito alle spinte degli skater.
Le applicazioni che sono seguite – perché la plastica dei rails venisse via, perché le vernici sulla pancia della tavola venissero via, il metallo degli attacchi, le vernici sotto il naso e sotto la coda venissero intaccati, strisciati e abrasi, assecondando i bordi e i materiali che il pomeriggio per la prima volta offriva – sono state per i vecchi abitanti della piazza della chiesa un motivo valido per parlare subito e con veemenza. Molti dei vecchi dunque quel giorno si sono alzati dalle panche e hanno urlato la loro rimostranza all’intaccamento, all’abrasione e all’accumulo sul marmo bianco e sul granito dei segni della caratteristica usura metallica. La protesta di questi vecchi è stata in quel momento il definitivo responso della comunità e, assieme alle precedenti rimostranze dei compaesani, la sanzione dell’allontanamento definitivo degli skater dalle strade del paese.
La protesta di questi vecchi però non era soltanto la reazione al baccano e a ciò che già le forze dell’ordine avevano assimilato alle altre forme di vandalismo e danneggiamento, ma aveva anche una motivazione più pressante. La piccola sconfitta in atto, rispetto alle forme strambe che l’ingerenza del presente occidentale in un futuro prossimo avrebbe ripetutamente sedimentato, non aveva la parola giusta per essere definita(10), era muta e diversa. L’azione di quei ragazzi rimandava a qualcosa di noto e precedente, che muoveva a un tempo alla riprovazione e alla paura, causando in questi vecchi solitamente silenziosi una reazione tanto scomposta. Davanti ai loro occhi era cercata, di nuovo e con accanimento, l’affermazione del gesto individuale, e quando essa riusciva, aveva la forma perfetta della velocità coniugata con il coraggio. I ragazzi si dibattevano per liberarsi dalla propria infanzia, come già secoli prima avevano fatto, e questo obbligava i vecchi, che ancora si sentivano uomini, a proteggere il proprio status: nell’azione in corso c’era una parte importante della loro morte.
Oggi gli skater sono confinati negli skatepark, assieme ai ciclisti in bmx e ai roller. Intanto è ripreso l’allevamento dei cavalli, sono stati addestrati cavalieri professionisti in scuole specializzate, e in agosto, dopo aver cosparso le strade che portano alle piazze con uno spesso strato di sabbia, si addobbano le facciate delle case con grandi coccarde bianche e rosse per le “pariglie”, alte impalcature sostengono gli spalti e si allestiscono mercatini di artigianato tipico. Tali rievocazione sono però prive del loro ruolo folklorico arcano, di sfida e sopraffazione delle generazioni precedenti, e hanno un carattere puramente folkloristico. I costumi dei cavalieri sono rievocazioni baroccheggianti di quelli indossati dai loro predecessori e vengono scommesse ingenti quantità di denaro sui cavalli che saranno premiati. Le amministrazioni comunali, da parte loro, hanno elaborato adeguate strategie di intervento per accogliere, indirizzare, ospitare e ristorare il flusso turistico così attirato.
Alle forme occasionali e “geologiche” delle strade e delle case, sono subentrati rigorosi piani regolatori, che danno al nuovo la forma perfetta e sognata dell’antico. L’asfalto è stato sostituito da altre superfici nella pavimentazione dei vicoli, molto attraenti per il turista ma difficilmente skateabili. La stessa pavimentazione liscia delle piazze è stata sostituita da sampietrini.
Se un tempo la lingua parlata dai vecchi nelle piazze non riusciva a dare un nome alla qualità che il ragazzo doveva conquistare per diventare uomo, oggi nelle scuole di questi pueblos vengono insegnati i sinonimi possibili delle seguenti parole: rituale, baldanza, celebrazione, tutte astrazioni di cui non esiste più una prova verificabile sul campo.
(Pubblicato in “Cavalcando onde piatte”, libro allegato a “Dogtown and Z-Boys, Fandango Libri)note:
1. L’ollie è la figura base dello skateboarding moderno, è il “salto” che permette tutte le odierne evoluzioni.
2. Sebbene sia difficile provare con certezza chi effettivamente abbia “ollato” per la prima volta, certo in pochi anni in gli skater di tutto il mondo avrebbero imparato la manovra: lo street-skating era appena nato.
3. I piccoli skate di plastica, lenti e difficili da manovrare, che anche in questi piccoli insediamenti rurali si potevano acquistare per pochi soldi da un ambulante al mercato del venerdì.
4. La liturgia cattolica ha fagocitato all’interno delle sue celebrazioni innumerevoli rituali propiziatori primaverili che prevedevano l’utilizzo degli animali e la velocità, per smorzarne gli aspetti più oscuri e pagani.
5. Per definire l’effettiva esecuzione di un trick gli skater utilizzano il verbo chiudere: un trick è chiuso solo quando entrambi i piedi sono di nuovo sulla tavola, le quattro ruote dello skate di nuovo a terra, e la sua corsa riprende. Basta un piede a terra perché un trick non sia considerato chiuso.
6. I nomi dei trick o manovre, come vengono anche definiti, sono in inglese, per essere precisi, in americano. La pronuncia da parte dei ragazzi di questi pueblos (negli anni in cui la lingua inglese veniva insegnata solo a partire dalla scuola media, e si poteva anche preferire, a discrezione, il francese) produceva nomi storpi, monchi, deformati dalla necessità di un apprendimento derivato non dall’ascolto diretto di un parlante madrelingua, ma dalla lettura delle didascalie sotto le sequenze fotografiche di riviste di importazione acquisite miracolosamente.
7. Le lingue prodotte da economie agricole o comunque da culture tradizionali o arcaiche come quelle qui trattate, hanno vocabolari che richiamano direttamente la vita rustica, hanno bisogno di referenti concreti per dar vita alle parole, e non sono in grado di enunciare concetti astratti. Inoltre, essendo subordinate alle lingue nazionali degli stati di cui queste terre sono sempre state province, non hanno mai avuto validità legale, quindi mai nessun documento è stato redatto, né è mai esistita una produzione artistica scritta. L’unica ragione perché non possono essere definite “dialetti” e hanno la denominazione e la dignità di “lingue” è l’originalità della sintassi e del lessico, dovuti all’isolamento geografico in cui sono state prodotte.
8. Con il corsivo s’intende sottolineare la stessa sfumatura di significato che in tedesco differenzia il verbo fahren dal verbo gehen: l’andare con un mezzo di trasporto, dall’andare a piedi.
9. I cuscinetti a sfera (la cui marca più nota è SKF) trasformano l’attrito radente in attrito volvente, e il rumore prodotto dagli skate è il risultato di questo attrito, poi trasmesso alla gomma delle ruote e agli attacchi e quindi alla tavola dello skate,
10. Il mercato dei consumi di massa, quando sarebbe arrivato definitivamente in questi piccoli pueblos, avrebbe avuto la pressione indotta dalla macchina pubblicitaria, e un lessico appropriato e inevitabile, studiato preventivamente da professionisti del settore, e malleabile per essere adattato alle diverse fasce di mercato, anche alla fascia degli over settanta: tutto sarebbe arrivato con già un nome per nominarlo.
Lo leggo stasera….
ciao
Quei piccoli centri rurali, sul mediterraneo….
mi viene in mente il villaggio di Macondo,
l’atmosfera trasognante
la baldanza dei vecchi,
le mandorle al sole,
l’arenaria bianca….
e questo pensiero:
i vecchi non moriranno mai,
finchè la loro voce
avrà spazio e memoria dentro noi.