Le nuove frontiere del genere SF italiano
di Alessandro Leogrande
Una notizia di poche righe, intercettata su Google News pochi giorni prima, ha smorzato il botto, la sorpresa del pomeriggio di Pasqua. Cito si candida a sindaco di Taranto, diceva quella notizia, anticipando la frase lapidaria – identica – pronunciata da mio zio dopo il pranzo domenicale. E giù poche righe in cui si aggiungeva che un fantomatico staff stava valutando la possibilità della sortita e come piazzarla sul mercato elettorale. Una bomba, una vera bomba – uno degli ultimi casi, in Italia, in cui politica, racconto della politica, antropologia e letteratura coincidono. Il ritorno di Cito. Dopo la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo gli anni del carcere e quelli degli arresti domiciliari, dopo il collasso dietro le sbarre, dopo la perdita di quasi cinquanta chili, dopo tutto, dopo 14 anni di luci e ombre, di potere e di polvere, Cito ritentava la scalata alla guida della più scriteriata delle città del Mezzogiorno.
Per capire come a Taranto, agli inizi del ventunesimo secolo, un personaggio come Cito, con il passato remoto e prossimo di Cito, dopo un mandato e mezzo di dominio elettorale della Casa della Libertà, possa non dico candidarsi, ma solo ipotizzare una candidatura, occorre estendere lo sguardo alla città e alla sua irreversibile, tragicomica, devastante crisi politica.
Nel 1993 la sua sua eclatante vittoria elettorale fu il prodotto del nulla, e dello sfascio che quel nulla aveva prodotto. Oggi, 14 anni dopo, è la stessa cosa: la candidatura di Cito è il prodotto del nulla, e dello sfascio che quel nulla ha prodotto. Uno sfascio che qui vuol dire bancarotta comunale con un intero ceto politico di centrodestra che ha letteralmente svuotato le casse comunali per oltre 300 milioni di euro, e un ceto politico di centrosinistra che in questi mesi si è rimestato nella sua impotenza, incapace di trovare un candidato unico, incapace di trovare nelle primarie un momento di forza e coesione, allorquando il candidato unico non era stato trovato. Incapace di vincere la più facile delle elezioni contro un centrodestra che non ne aveva neanche uno di candidato, e che alla fine avrebbe messo qualche yesman, uno sparring partner pescato all’ultimo momento.
In questo vuoto si è ripresentato Cito ponendosi, al solito, come un cavaliere solitario al di là della sinistra “di merda”, della destra dei salotti e degli ex-democristiani che a Taranto, come in tutto il Mezzogiorno, sono tantissimi. Ma quello che promette di sapere mio zio è molto di più: “Guarda che un istituto di Milano ha fatto dei sondaggi e Cito è dato al 27%. Contro Stefàno al 44% e Florido al 28%.” Stefàno (Rifondazione comunista, ma in passato già candidato a sindaco per tutto il centrosinistra) e Florido (Unione, e attualmente presidente della Provincia per tutto il centrosinistra) sono i due candidati del centrosinistra. Due e non uno perché non c’è stata soluzione unitaria. Due e non uno, perché non ci sono state le primarie dove probabilmente Stefano avrebbe vinto “alla Vendola”, cosa che deve aver spaventato a morte i vertici di Ds e Margherita. Ma mentre i due candidati del centrosinistra occupano le pagine dei giornali da almeno sei mesi (in una lunga stramba campagna elettorale, all’ombra della drammatica crisi, che gli ha spompati e spremuti molto prima del rush finale), che Cito intendesse realmente candidarsi non lo sa ancora ufficialmente nessuno. La notizia è sussurrata da qualche giornalista. In molti però anno messo la pulce nell’orecchio e l’attesa, che segue regole perfettamente letterarie, è montata, fino a pretendere il ritorno di chi era stato allontanato dalla città da magistrati “figli di puttana”, lui che se anche era un mafioso che male c’era perché tanto le buche le aveva fatte asfaltare. Lui che quando c’era lui la città era illuminata, a differenza di oggi che – dopo che TUTTI hanno rubato – la luce non c’è più, i cassonetti traboccano di rifiuti ritirati un giorno sì e tre no, le “zoccole”, cioè i topi di fogna, corrono dappertutto e in alcuni quartieri assaltano i passanti, i morti – dico i morti! – al cimitero non vengono più sepolti, i dipendenti comunali non sono più pagati, gli autobus non passano più. Lui che stava in carcere era pulito, perché la vera corruzione era fuori, in chi lo aveva sostituito nell’amministrazione.
Ma come si è arrivati a pensare questo? Nel silenzio generale, appena interrotto da questo o quel reportage apparso su qualche testata nazionale, Taranto è sprofondata in una crisi surreale dagli aspetti ballardiani. È una crisi verticale del consesso civile. E crisi del pubblico, luce spenta nelle scuole e negli ospedali, non vuol dire povertà. Perché i soldi privati ci sono: le pizzerie sono piene, le ville sono ristrutturate, i locali del centro sono sempre affollati, il rito dello shopping è intatto, le statue della tradizionale processione dei misteri, quella del venerdì santo, sono state date all’asta per cifre esorbitanti, fino a 80mila euro, spesi da poche persone per sorreggere una statua di legno rappresentante una delle poste della via crucis in un percorso estenuante che dura una sola notte… I soldi ci sono, trafugati o meno ci sono. È il pubblico che non c’è più in tutte le sue forme. Tranne che in piccoli sussulti di umanità: come quando quattro operatori cimiteriali che non prendevano lo stipendio da mesi si sono impietositi nel vedere una piccola bara bianca che conteneva il corpicino di una bambina di quattro anni, e quella, sì, l’hanno sepolta… Ma a parte questi sussulti, niente. Niente.
Qualche mago della sociologia politica un giorno dovrà spiegare come mai la sinistra, quando la destra ruba, non riesce assolutamente a far capire alla gente che non è vero che TUTTI rubano, che solo la destra ha rubato… C’è una legge non scritta, un riflesso condizionato che, riproducendosi all’infinito, regola la percezione della questione morale in Italia. Se ruba la destra, rubano TUTTI. Se ruba la sinistra, sono dei maiali comunisti, da castigare votando plebiscitariamente a destra.
Come è che TUTTI a Taranto oggi pensano che anche la sinistra, che era all’opposizione, abbia rubato? Come è che anche tanti elettori di sinistra pensano questo? Forse perché, sotto sotto, tale percezione nasconde un fondo di verità. O forse perché, dai e dai, si finisce per introiettare la percezione degli altri. Eppure ciò non risponde ancora alla domanda del ritorno di Cito.
“Guarda che si candida davvero”, mi dice mio zio. E lui lo sa in gran segreto, perché gliel’ha detto un conoscente che fa parte di quel fantomatico staff di fedelissimi intorno al Geometra… Cito da noi era sempre chiamato il Geometra; anzi, era lui a farsi chiamare così, quasi in contrapposizione al Cavaliere, al Professore, all’Avvocato, al Senatùr… era il suo titolo di studio e lo rovesciava ogni volta al momento opportuno come una clava antipolitica e antiintellettuale – una grottesca versione jonica delle peggiori pulsioni goebbelsiane… “Ma quale geometra”, dice mio zio, “Ora quello si prende la laurea in legge. Ha studiato in carcere, ora parla come un avvocato, e a fine aprile si prende la laurea in legge. E sai cosa fanno? Con la sua tv filmeranno tutto. Filmeranno la seduta di laurea, le strette di mano con la commissione, i fiori, gli applausi, lo zoom sulla copertina della tesi… e proprio in quel momento, proprio lì, davanti alla commissione, annuncerà la sua candidatura a sindaco.” Sarà una diretta televisiva, da cui trarranno uno spot che poi rimanderanno a loop per tutta la campagna elettorale.
A un certo punto ho pensato che quella dei sondaggi fosse una bufala. Non orchestrata da mio zio, ma da chi gliene aveva parlato. Chi erano questi ricercatori? Che nome aveva l’istituto milanese? Quei risultati potevano anche essere del tutto falsi. Formulati e spiattellati in giro dall’entourage fi Giancarlo Cito per smuovere un po’ le acque. Oppure potevano essere veri, ma solo per un po’, solo in parte: con le percentuali gonfiate di qua e ridotte di là. Oppure, come tutti i sondaggi, quelle cifre intercettano il malessere più che le reali intenzioni di voto. Sono un termometro più o meno veritiero delle pulsioni dell’elettorato, ma poi nell’urna, il giorno delle elezioni, in Italia si finisce per votare ancora secondo altri criteri. Magari quelle domande sulle intenzioni di voto erano state fatte al mercato o in zone della città tendenzialmente citiane, passando per oggettivo quello che era un campione che già si sapeva orientato. E poi, per quanto Stefàno sia ancora molto amato, è difficile pensare che possa prendere da solo, con l’appoggio del solo PRC, tutti quei voti e che, sull’altro versante, il candidato dell’Unione possa prendere così poco. I partiti contano ancora, la mobilitazione degli apparati conta ancora qualcosa, anche in una città come Taranto, nonostante la disaffezione crescente…
Mi sono detto questo, ma poi – nonostante mi sforzassi di essere realista – mi si è parato davanti, un’altra volta, il dato di per sé più incredibile. Il fatto stesso cioè che Cito si candiderà e che sondaggi che lo danno al 27%, per quanto potenzialmente falsi, siano dati per plausibili, e comincino a mettere paura. Questa è la vera notizia, in fondo.
Quando nel 1993 Cito riuscì a farsi eleggere sindaco, la sua biografia era già al di fuori dell’ordinario. Ex-picchiatore fascista vicino a Ordine Nuovo, negli anni settanta aveva insanguinato le piazze tarantine. Poi, negli anni ottanta, aveva fatto fortuna prima con un’impresa edile e poi con un tv privata, AT6. E, tra la fine degli anni ottanta e gli inizi dei novanta, il colpo di teatro: Cito fonda un movimento populista e antipolitico, lo chiama AT6, proprio come la tv di sua proprietà, e utilizza l’emittente come un’arma politica, lanciando accuse e calunnie contro tutto il ceto politico, locale e nazionale. Poiché tutte le forze del pentapartito erano state inquisite e il consiglio comunale sciolto per infiltrazioni mafiose, quelle accuse piovevano sul bagnato, qualcosa di vero, insomma, pescavano. Da qui la sua ascesa politica, mescolata al machismo, all’anticomunismo viscerale e alla riscoperta delle radici di una presunta “tarentinità”. Pochi in realtà avevano il coraggio di denunciare quello che tutti sapevano: che Cito era vicino ad alcuni clan, che era stato sorpreso a passare la notte di Natale nella casa di due boss sanguinari agli arresti domiciliari, che la sua fortuna televisiva aveva molte ombre… La calunnia, la tribuna tele-politica erano armi imbattibili. Vinsero da noi molto prima che Berlusconi decidesse di scendere in politica con un videomessaggio che almeno a Taranto sarebbe apparso molto sciapo, abituati com’erano i tarantini a quelli di Cito.
Invettiva tipica. Contro Vincenzo Scotti, allora ministro degli interni: “Scotti, io con lo scottex mi pulisco il culo…”
In questi quattordici anni la metamorfosi di Cito è stata soprattutto fisica. Quando fu eletto sindaco pesava molto più di un quintale. Il viso grasso e cascante, i pochi capelli castani rigirati nel riporto, il tono roco e berciante sempre e comunque, l’ostentata cadenza dialettale, gli occhi sempre sgranati da felino in gabbia… Tutto il suo corpo, mastodontico, emanava virulenza sopraffazione, cialtroneria.
Dopo due anni fu costretto a dimettersi da sindaco perché accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Cionostante riuscì a farsi eleggere al parlamento ottenendo l’immunità e a far eleggere sindaco il suo delfino, Mimmo De Cosmo, con l’appoggio questa volta del centrodestra locale benedetto da Peppino Tatarella.
Il fenomeno Cito sarebbe durato ancora qualche anno. La giunta De Cosmo sarebbe poi caduta per divisioni interne al centrodestra. Finito il mandato il parlamentare, e persa l’immunità, Cito non sarebbe stato rieletto. La città ormai, apparendo a suo modo emancipata, guardava a Forza Italia e all’UDC. Si parlava di maturazione dell’elettorato di destra.
Nel 2002 la condanna definitiva, in Cassazione, per concorso esterno in associazione mafiosa. La difesa, guidata da Mino Pecorella, pensò di chiedere anticipatamente la grazia a Ciampi, ma ovviamente non potè ottenerla. Cito venne arrestato.
Entra in carcere, prima a Taranto e poi a Torino, e qui incomincia quello che i suo sostenitori hanno definito un calvario. Perde 50 chili, ha continui collassi. Le poche foto che lo ritraggono mostrano un uomo smagrito, scavato nel corpo e nel volto, lo sguardo spento. È molto più che una vittima della magistratura, quel tracollo tracima in una dimensione più profonda. Almeno così dicono. Per riprendersi, legge i classici del diritto.
Dopo due anni di carcere pieno, passa al lavoro per i servizi sociali, poi agli arresti domiciliari. Oggi, alla vigilia dell’annuncio di una nuova candidatura, ha saldato, dicono, tutti i conti con la giustizia. In realtà non è proprio così: ci sono altri procedimenti aperti per corruzione, cose accadute quando era a Palazzo di Città.
Ma per i più quell’uomo smagrito, svuotato, con i capelli già bianchi, è una vittima pulita…
Negli anni, quelli del liceo, i primi anni dell’università, ho imparato a vedere ciò che riguardava Cito, gli aneddoti, le storie vere, quelle inventate, come l’irruzione dell’impossibile nell’agone politico. Come se il parto di una mente deviata fosse sempre sul punto di realizzarsi. Questi erano gli aspetti esileranti, quelli che – immagino – galvanizzavano il suo elettorato. Come quando si faceva riprendere a riparare le buche del manto stradale dando ordini agli operai. Come quando (credo contro l’inquinamento) organizzò una traversata a nuoto in solitaria di oltre venti chilometri lungo la costa tarantina, sostenendo di essere un grande nuotatore, salvo poi essere beccato da un videoamatore che lo immortalò stravaccato su un motoscafo a largo del golfo.
Come quando scese dall’auto blu mentre attraversava il ponte girevole che unisce i due lembi di Taranto perché un disoccupato minacciava di buttarsi di sotto, in mare. Cito lo raggiunse e gli urlò contro che doveva finire di rompere i coglioni altrimenti lo avrebbe buttato lui di sotto. Allora quello disse che non aveva lavoro, che era disperato, e Cito gli rispose: vieni con me, te lo do io un lavoro… E quello non si buttò più di sotto. Ora lo abbracciava, lo abbracciava piangendo tra due ali di folla che applaudivano commosse.
Non so più se questa storia sia andata veramente così. Che senso avrebbe recuperare il ritaglio di giornale del giorno dopo? È un fatto accaduto 13-14 anni fa, ma quella che vi ho appena ricordato è la vulgata che ancora oggi si racconta. O almeno che mi ha raccontato pochi giorni fa un tabaccaio, come fosse la verità cristallina, come se fosse successo mezz’ora prima e lui vi avesse assistito di persona. Nella concitazione del racconto, gli era venuto quasi il fiatone…
Questi, dicevo, erano i fatti esileranti che nutrivano il suo successo. Ma poi c’era l’anima nera del citismo. Quello delle squadracce notturne che si aggiravano di notte pestando studenti e militanti di sinistra. Quello dei raduni che si concludevano in fiaccolate e in incitazioni al fascismo; delle adunate in cui si minacciava questo o quel politico; dei comizi in cui si bandivano dalla città “negri, ricchioni, zingari, drogati…” tra gli applausi, le urla, i bracci tesi.
Un passato che fino a ieri raccontavamo come passato. Come un periodo buio che a ogni modo ci aveva formato, svezzandoci alla politica. Col tempo ho capito che crescere a Taranto in quegli anni plumbei aveva regalato a me e a pochi miei coetanei il senso immediato della dicotomia politica. Ci aveva insegnato quale fosse la differenza psicologica tra fascismo e antifascismo e che l’indifferenza era complice della volgarità andata al potere. Pur barcamenandoci sul baratro, eravamo stati istruiti a una forma elementare della politica e negli anni successivi, quelli in cui Cito non c’era più e in cui Taranto era amministrata come tante città, come tutta l’Italia, da una maggioranza di centrodestra (a sud UDC+AN+Forza Italia), la raccontavamo quasi come un’esperienza positiva nel negativo. In fondo, ci dicevamo, meglio il nero del grigio: meglio le storture manifeste che il mortorio di un eterno presente omologante in cui si sogna che una città sfasciata dall’industria possa diventare una capitale del turismo mediterraneo, che le gite in barca e i musei tutti da inventare possano sostituire le ciminiere che ancora, e forse sempre, allignano nello skyline cittadino. Meglio il nero, ci dicevamo, che il consenso assoluto a Forza Italia, meglio il nero della bolla dei finti ricchi, di una città divisa in salotti urbani di poche centinaia di metri e enormi banlieue irredente…
Ora che questo presente che pensavamo durasse più a lungo è esploso, ora che la bolla di un’improbabile belle epoque cittadina è scoppiata sotto il peso del dissesto finanziario causato da chi, più presentabile di Cito, era andato al potere dopo Cito, il passato nero rischia di tornare. Incontrando una città più sfilacciata di ieri, ancora più impolitica di ieri, ancora più imbarbarita di ieri. In verità, anche se facciamo fatica a dircelo, ancora più nera di ieri.
Il 27% dei consensi senza essere ancora candidato. “Ci pensi?”, mi ripete mio zio, “E voi che avete passato anni a scrivere contro di lui…” Quando sarà la seduta di laurea?, gli chiedo… “Il 27 aprile, a un mese esatto dal primo turno elettorale, esattamente alla scadenza della presentazione delle liste elettorali…” Penso a quello che sarà un mese di fuoco. Penso al laboratorio politico in cui si trasformerà Taranto per queste modestissime elezioni. E penso anche, e su questo sono pronto a scommettere già da ora, che se Cito arriva al ballottaggio contro Stefàno, anche partendo da 27 a 44, vince. Vince sicuramente. Come vinse esattamente 14 anni fa contro un giudice, Minervini, scomparso pochi mesi fa e mai ripresosi dalle accuse infamanti ripetute compulsivamente dall’allora Geometra.
È una campagna elettorale da seguire con fiato sospeso quella del prossimo maggio. E la prima cosa che mi viene in mente è provare a dirimere quest’enigma: come farà Cito a smarcarsi dal suo personaggio? Voglio dire, tutta la menata della laurea in legge, i toni compassati che pare abbia deciso di adottare nelle conversazioni private, nelle interviste che ha già concesso a pochissimi graziati, conviveranno o no con i toni “barbari” del passato? Li ingloberanno o li neutralizzeranno? Cito è un animale politico che fiuta la piazza come pochi (almeno in una città avvitata su se stessa come Taranto), e sa che senza quei toni del passato quel 27% non lieviterà. Lo sa, non potrà farne a meno. E allora riuscirà, forse, nella difficile arte di trasformare una seduta di laurea in un manifesto goebbelsiano.
Mi ripete ancora mio zio: “La gente pensa questo: qua tutti hanno fottuto i soldi. Ma lui no, non poteva: stava in carcere, come faceva a fotterli?” Che poi lui in carcere che stava per una condanna definitiva in Cassazione per concorso esterno in associazione mafiosa, condanna alla quale se ne sono accumulate delle altre per delle tangenti che ha avvallato quando era sindaco, questa è una cosa che la gente non vuole ricordare. E la sociologia, l’analisi delle distinzioni sociali di fronte a questo fenomeno politico c’entrano fino a un certo punto, perché a Taranto la predisposizione al consenso è davvero trasversale rispetto a tutti i ceti sociali, riguarda larga parte degli esclusi e larga parte dei privilegiati.
Penso a Vittorio, uno dei miei più cari amici dai tempi del liceo. Penso ai chilometri che abbiamo macinato a piedi da ragazzi fumando una sigaretta dopo l’altra e parlando di Taranto. Del fatto che era tutto deprimente, che loro erano la maggioranza, che ci sentivamo quasi dei panda in una città in cui i più sostenevamo il Geometra, dal contrabbandiere di sigarette dietro l’angolo a una buona metà dei nostri insegnanti… Ci sentivamo molto soli e, a ripensarci, quei pomeriggi intossicati dalla nicotina erano abbastanza grigi e ripetitivi. Entrambi siamo poi andati a studiare fuori. Io ci sono rimasto, lavoro a Roma. Lui è tornato a Taranto a fare l’avvocato, ogni giorno più deluso dall’ordinaria corruzione, ogni giorno più incattivito dalla guapperia dei nuovi ricchi che ostentano le loro illecite ricchezze.
Illecite… Ma a chi importa veramente che siano illecite? Allora mi dico che forse è vero che hanno vinto loro, che hanno comunque vinto loro.
Ripenso a una manifestazione degli anni di Cito. Era un corteo contro il razzismo e l’antisemitismo. Dopo essere arrivati in piazza, ci lasciammo, ognuno se andò per i fatti suoi. Io, Vittorio e un altro ragazzo avevamo con noi uno striscione. Non ricordo cosa vi fosse scritto, ricordo però che dovevamo portarlo da qualche parte. Girammo per una via laterale e ce li trovammo di fronte. Erano dieci, quindici fascisti. Una buona metà li conoscevamo bene, con alcuni ci era anche capitato negli anni precedenti di giocare a pallone. Erano loro la ciurma di Cito o, meglio, una piccola parte della vasta ciurma di Cito di quegli anni. Il pretesto è che volevamo lo striscione, volevamo strapparcelo e bruciarlo, dicevamo. Tenemmo duro, e allora cominciarono a picchiare. Non pesantemente, non erano armati, però picchiavano. Mi volarono gli occhiali. Uno schiaffo mi fece quasi fare un giro pieno su me stesso, come nei cartoni animati. Perdemmo lo striscione, ma alla fine riuscimmo a divincolarci e a scappare. A correre via, respirando a pieni polmoni.
Quelle botte mi fecero male. Non fisicamente, ma – come si dice in genere – dentro. Mi fece male vedere la loro cattiveria. Mi fece male vedere che eravamo solo in tre e che nessuno dei passanti ci aveva aiutato. Mi fece male vedere un commerciante sull’uscio del suo negozio applaudire proprio nel momento in cui perdevamo lo striscione. E mi fece male vedere un capo scout, del gruppo in cui ero cresciuto, passare da lì proprio in quell’istante, vedermi malmenato e tirare avanti senza intervenire. Perché, poi seppi, solidarizzava con quegli altri.
Ecco, questo era il citismo. E ripensarci mi provoca dei conati di vomito. Che Cito si candidi alle future elezioni partendo dal 27% dei consensi dà solo molta tristezza. La capitale del fallimento delle partecipazioni statali, la città assediata da fabbriche che da sole producono il 20% delle emissioni di CO2 di tutta Italia e l’8% della diossina scaricata in tutta Europa, martoriata da polveri ultrasottili che producono 1.200 tumori all’anno non avrà futuro… questa è Taranto. Solo la politica, si dice in genere, può risolvere, una situazione così drammatica. Ma la politica qui non farà niente, perché questi sono i suoi protagonisti. I due cancri, l’inquinamento e la cattiva politica, si alimentano a vicenda. Da troppo tempo quelli che non ci stanno si dimostrano del tutto impotenti, non riescono a pensare, e poi edificare, una città diversa. Sia chi a Taranto è rimasto a vivere, sia chi lavora fuori ma fa avanti e indietro senza aver tagliato il cordone ombelicale, affondiamo spesso nel nostro stesso egoismo. Che dopo molti anni è diventato anche un po’ rancoroso.
Quando qualche mese fa scrissi in un editoriale del “Corriere del Mezzogiorno” che il citismo non era mai morto, che dalle sue viscere sarebbe nato qualcosa di nuovo e allo stesso tempo vecchissimo, in realtà non ci credevo più di tanto. Era una frase ad effetto, volutamente dura, radicale, di quelle che si scrivono appunto negli editoriali. Mesi dopo quella modesta profezia si è avverata, l’imponderabile è ritornato nell’agone politico. E il ridicolo è solo la maschera di mille rigurgiti.
[…] Leogrande, su Nazione Indiana, ha pubblicato un interessante articolo su Cito, neo-vetero-candidato sindaco di Taranto. Vi consiglio di leggerlo con attenzione, lo […]
solo per ricordare che a Taranto nell’area “centro-sinistra” c’è un terzo candidato: Liviano, della “Città che vogliamo”
bello, ma ci sono da correggere alcuni refusi, sopratutto verso la fine: sbaglio o “volevamo, dicevamo” è “volevano, dicevano”? (episodio dello striscione…).
Chiedersi perché tanta eccitazione per Cito. Vince Vendola ma riciccia Cito. Taranto, la Puglia, l’Adriatico. Chiederselo nonostante le botte.
meravigliosa disamina. Alessandro Leogrande è da oggi uno dei miei personali riferimenti giornalistici.
L’articolo dell’amico e compagno Alessandro lancia ombre inquietanti, tanto più se si pensa che il circuito illegale costruitosi negli anni attorno alle giunte susseguitesi al governo della città di Taranto, si è prontamente ricostituito e saldato attorno a nuovi candidati, espressione di una mentalità capillarmente diffusa che continuerà a saccheggiare le ultime risorse rimaste a Taranto con il consenso di una cittadinanza assolutamente consapevole di ciò che accade. Non è un giudizio catastrofista ma ragionato e pragmatico. Anche altre città, del resto, vivono la stessa situazione ma non è stata ancora resa pubblica perchè non si è ancora rotto il “giocattolo”. Cito è la punta di un iceberg che rischia di sciogliersi ovunque…
sì, scusate, ci sono alcuni refusi… nel passaggio sullo striscione, “volevamo, dicevamo” va ovviamente sostituito con “volevano, dicevano”…
Bisogna guardare i cassonetti pieni, i cadaveri marcire, i lampioni spenti e la gente che la notte si ruba pure le arance amare di Via di Palma. Poi lo struscio del sabato, i negozi di griffe pieni a tappo. Non importa che il debito sia (dati del 18 novembre) di 416 milioni, pronto ad arrivare a 500. E che Riva ti offra 7 sigarette gratis al giorno, anche se sei minorenne. Come Vendola non può niente contro l’Ilva, così gli abitanti di Taranto, affogati nell’apparenza e nella proiezione di sé in quello che vorrebbero essere, convinti che sia sufficiente dire una cosa perché automaticamente divenga realtà, guardano a quelle strade senza buche e ad un telepredicatore con occhi sgranati. La cortina di egoismo, la convinzione del si stava meglio quando sembrava (per gli altri) peggio, è più delle offese alla Di Bello e degli attentati minacciati a Cito negli anni che furono. Perché, fino a quando sarà più importante camminare fasciati di soldi, anche se circondati di puzza, lo spazio degno di interesse sarà solo quello occupato dal proprio sedere e, al massimo, da quello dei più stretti famigliari. E il resto sarà di chi, Cito o non Cito, minaccerà – senza logicamente mantenere – le prospettive (meno) peggiori.
Da una città in cui si ruba perfino la collana dell’Addolorata, – e lo dico amareggiato, incazzato, ferita nell’orgoglio di tarantino – spiegami, per favore, che bisogna aspettarsi.
Il dramma é ke nonostante tutto il tempo ke é passato… e soprattutto.. nonostante tutto quello ke é successo… i “Panda” a Taranto siamo rimasti noi…