El boligrafo boliviano 1

Una nota di Gianni Biondillo sul diario andino di Silvio Mignano

Ho conosciuto Silvio Mignano in una di quelle manifestazioni di provincia dedicate agli scrittori che, ho scoperto nel tempo, sono sempre più un modo non solo per farsi conoscere ai lettori ma anche un modo per conoscersi a vicenda. Io di lui non avevo letto nulla. Silvio, non me l’ha mai confessato, sono certo che già mi avesse letto, ma per evitare di mettermi in una situazione imbarazzante ha fintamente ammesso di non conoscermi. A tavola, dopo l’incontro pubblico, abbiamo chiacchierato un po’ di tutto. Così nel volgere di poche ore è nata una simpatia naturale per questo mio coetaneo dall’accento indefinibile (ed io ho una certa ossessione per gli accenti, i dialetti, le parlate), e dai romanzi curiosi, ambientati in Africa, nel Centro America, in posti così poco usi dalla nostra letteratura… “E’ che sono sempre in giro per lavoro”, mi ha detto, come fosse un rappresentante di chissà quale azienda. C’era anche sua moglie, una bella e dolce ragazza, incinta, che teneva a bada una bimba graziosissima. Si è parlato di figli. Cosa così rara fra gli scrittori che appena ne conosco uno con prole dimentico di parlare di libri e passo immantinente ai pannolini!
“Ma si può sapere che lavoro fai”, gli ho chiesto, ad un certo punto. Quasi intimidito ha ammesso di essere un diplomatico. Prima è stato in Kenia, poi a Cuba dove ha conosciuto sua moglie, ora era a Basilea. A fare che? “Il console”, con un sorriso imbarazzato.
Pochi mesi dopo ci siamo rivisti, proprio a Basilea, invitato ad un incontro pubblico. Ho portato con me la mia famiglia, abbiamo pranzato assieme, con le bimbe che saltellavano in giro per la casa. Silvio ha regalato un libro di fiabe scritto da lui, e da lui illustrato, a mia figlia. E poi a me una sua raccolta di poesie. La sua scrittura, intendo proprio la calligrafia, sapeva di antico, di nobile.
Nei mesi appresso ci siamo scritti, nei limiti degli impegni di tutti noi. Mi sono felicitato per la nascita del suo secondogenito, ci siamo mandati gli auguri di Natale. Poi, come nulla fosse, con quella semplicità che gli invidio, col suo modo sussurrato, mi ha comunicato il cambio di indirizzo email. “Ma dove diavolo l’hanno mandato”, mi sono chiesto, leggendo il dominio curioso della nuova email. Gliel’ho chiesto. “In Bolivia”, mi ha detto. Accidenti. Insomma, quasi estorcendoglielo, mi ha confessato di essere il nuovo ambasciatore italiano in Bolivia. Non solo, aggiungo io. Il più giovane ambasciatore della storia repubblicana nazionale (questa è una cosa che, ora che l’ho scritta, so che lo farà arrossire).
Da qualche mese manda dei “bollettini boliviani” ad una stretta cerchia di amici. Un suo diario, un suo modo di tenere la barra, di fare memoria, per un uomo che non ha più, da anni, una casa dove tornare, la sera.
Quello che ho capito, nel tempo, è che a Silvio le cose gliele devi un po’ strappare di mano. L’ho fatto. Gli ho chiesto il permesso di pubblicare questo suo diario su Nazione Indiana, a puntate. C’è una tradizione di diplomatici letterati in Italia (il primo che mi viene in mente è il mio adorato Dossi) che Mignano sta mantenendo viva e che mi fa piacere condividere con voi.
Qui di seguito c’è la prima puntata.

El boligrafo boliviano

    20 gennaio 2007

Eccoci a La Paz, atterrati all’aeroporto del Alto alle 23,50 di venerdì 19 gennaio dopo un defatigante viaggio Basilea-Zurigo-Madrid-Lima. Bellissima l’immagine che ci ha accolti al Callao, la flotta peschereccia, le grandi sagome inquadrate dal finestrino dell’aereo tra la spiaggia grigia, le onde piatte del Pacifico, il disco rosso del sole morente. Invece le luci de La Paz, viste dall’aereo in discesa notturna (una delle mie fissazioni), non sono poi così diverse da quelle di qualsiasi altra città del mondo, nel loro consueto alternarsi di arancio e biancoblù su un monotono fondo nero che nulla rivela.
Quando il portellone si è aperto, abbiamo fatto tutto quello che ci era stato raccomandato in questi mesi: alzarsi lentamente, camminare con cautela, attraversando il corridoio dell’aereo come farebbe un anziano in quello di una casa di riposo, aspettare prima di compiere sforzi bruschi, ad esempio afferrare dalla cappelliera il solito bagaglio a mano pieno zeppo di libri.
Ma non è successo niente, nemmeno un mal di testa, nulla più di quanto ci si potesse aspettare dopo quindici ore di volo.
La macchina dell’ambasciata ha attraversato le vie del Alto ancora illuminate da lampioni aranciati, da un bagno di luna e da un soffuso chiarore che sembrava generarsi dall’acciottolato fitto delle strade. Sfilavano case basse quasi tutte uguali, facciate di mattoni rossi incompiute, una città vagamente spettrale ma soffusa – come dirvi? – di un’aria buona che emanava dalla gente (tanta) ancora in piedi a quell’ora di notte, alcuni attorno a carretti che vendevano da mangiare, altri seduti davanti alle porte di casa o sul bordo basso del marciapiedi. Slogan politici tracciati a mano sui muri, insegne casarecce di officine, tavole calde, rivendite di auto o di pollame, pochi manifesti. Pulizia, un’impressione onesta e vagamente triste di pulizia.
Quattromila ottanta metri, mi ripetevo.
Poi la strada si è messa a scendere brusca, come il movimento dell’acqua nel sifone di un lavabo. Ampie curve in senso antiorario ci trascinavano verso il fondo della valle. A un certo punto uno scorcio panoramico, l’immagine mozzafiato della città capovolta, caduta nella conca sette-ottocento metri più giù.
E’ strano essere accompagnati nella vettura numero uno dell’ambasciata, sentirsi chiamare ambasciatore a ogni pie’ sospinto, a cominciare dal secondo segretario del Cerimoniale boliviano che ci ha accolti in aeroporto. E’ strano arrivare in residenza, aspettare che il poliziotto dia il via libera all’apertura del cancello e venga poi a congedarsi e a farsi dire che tutto era perfetto, muchísimas gracias. E’ strano trovare il personale di casa che ti attende schierato in uniforme come la forza di una caserma che presenti le armi.
Alla fine della nottata, prima di andare a dormire, ci siamo bevuti il nostro primo mate di coca.

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19 Commenti

  1. Scrive bene questo giovane ambasciatore e, a quanto dice il buon Gianni Biondillo, sembra che tratti temi a me molto cari. Cosa ha pubblicato? Un saluto.

  2. Biondillo, mi ha fatto venire in mente una cosa che mi ero dimenticata da tanto tempo…quant’è buono il mate! Anch’io l’ho bevuto, non quello di coca però, quello di yerba mate, c’è tutto un rito, un sapore, altro che tè…in Italia si può trovare in qualche negozio alimentare etnico, ma non ho mai trovato tutta “l’attrezzatura” che occorre: il bricco scoperto con la cannuccia di metallo, che si scalda a poco a poco insieme all’acqua che si versa lentamente a filo di cannuccia, rigorosamente immobile, per non turbare la posizione, quasi il sonno dell’erba che ad ogni sorso respira e muta assumendo tutte le possibili gradazioni del verde e muta anche il sapore insieme al tempo sia in senso diacronico che meteorologico…che voglia di mate che mi ha fatto venire, tanto più ora che inizia il caldo, sarebbe un sollievo dalla sete e l’indolenza.

  3. @ Maria

    Concordo sul mate, è divino. E, poi, oltre alle cose che dici, c’è tutto un rito che lo rende, per me, affascinante. Se capiti a Roma ci sono un paio di posti dove trovi tutta “l’attrezzatura”…

  4. che bella cosa Gianni!
    Prendere spunto da questi incontri, far nascere storie, narrare la vita…

    di Silvio Mignano, di quel poco che per ora ho avuto il piacere di leggere, mi è rimasto lo stupore….
    Lui si stupisce, nonostante la sua posizione prestigiosa, si stupisce ancora delle piccole cose….

  5. @ pedro comacho

    io abito a due ore di treno da Roma. Perciò, dimmi, arrivata alla stazione, dove vado?

  6. @ maria

    Prendi la metro A, scendi a Lepanto e vai a v. Cola di Rienzo da Castroni, però chiamami pedro cAmacho, please

    @ a vittorio

    el gaucho? no, por favor

    @ a marino

    Sin azúcar? sì, sì…

  7. muchas gracias, Pedro, perdona il lapsus, è che sono in cOma profondo ultimamente, ma appena mi procuro tutta “l’attrezzatura” siete tutti invitati: Pedro, Biondillo, Marino, la Bariffi…el gaucho no, perché mi pare schifettoso (eh sì che si beve tutti rigorosamente dalla stessa cannuccia ;-)

  8. In compenso la tua unica riga è perfettamente inutile, Matteo.
    (detto da uno che solo due ora fa ha scoperto che Vonnegut è morto)

  9. Matteo, nessuna fretta, i morti non hanno fretta, i morti hanno oramai smesso di scappare…

  10. mate di coca?
    ma siamo sicuri? esiste davvero?
    in argentina ho sempre e solo bevuto il mate-mate, cioè di yerba mate. non sapevo che esistesse anche quello di coca.

    comunque: si, certo, senza zucchero! anche se in momenti di intollerabile amarezza provate la versione con un cucchiaino di miele.

  11. io volere profare MATE con Succchero di canna!
    es possible?
    essere Bbono?
    tu dire me, io dopo fare
    the.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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