Una voce in cerca di personaggi : Beckett e Pirandello (1)
1. La poetica dell’astrazione
Senza dubbio, per un critico letterario, L’Innommable di Samuel Beckett costituisce il romanzo di tutti i fantasmi esegetici. Il suo presentarsi, nell’edizione originale francese del 1953, con la dicitura “roman” in copertina ha poi contribuito a sollecitare questa ingordigia interpretativa. Appare evidente infatti, fin dalla prima lettura, che questo “romanzo” sfugge alle categorie più comuni del genere romanzesco, se non addirittura del fenomeno letterario più ampiamente inteso. D’altra parte, è nella natura profondamente ambigua di quest’opera di sottrarsi, da un lato, alla presa critica, e di fornirle, dall’altro, una gran quantità di suggerimenti e spunti.
E quando parlo di suggerimenti, intendo suggerimenti già formulati nel vocabolario del “critico letterario”. Facciamo un esempio tra molti: “Car je dois supposer un commencement à mon séjour ici, ne serait-ce que pour la commodité du récit”(1). L’istanza narrativa, insomma, parla spesso e volentieri la stessa lingua del critico; nessuna meraviglia allora che quest’ultimo faccia proprie le ipotesi autointerpretative che si susseguono nel corso della narrazione. Con tutti i rischi del caso.
Ma non è solo il critico letterario ad essere particolarmente provocato dal romanzo di Beckett. Anche il filosofo trova nella logorrea della voce narrante di che meditare, anzi vi trova già barlumi di meditazione, sentenze taglienti sulla condizione umana, una quantità di formule di natura speculativa da chiarire, riprendere, sviluppare. Come ad esempio questa: “Non, on peut passer sa vie ainsi, sans pouvoir vivre, sans pouvoir faire vivre, et mourir inutilement, n’ayant rien été, rien fait” (I, 119). Non solo il romanzo contiene in sé il proprio commento, con tanto d’indicazioni di poetica, ma possiede anche il proprio repertorio di sentenze, che promettono ad un attento esegeta una sistemazione coerente in qualche filone della speculazione novecentesca o della storia della filosofia occidentale.
L’errore giovanile della critica beckettiana è stato certo quello di gettarsi con troppa disinvoltura sulle chiavi interpretative e speculative che l’autore sembrava offrire in maniera così prodiga ai propri lettori. Ma questo entusiasmo esegetico ha constatato ben presto un proprio decisivo limite. Innanzitutto, la fiducia di possedere la buona chiave di lettura è iniziata a venire meno, nel momento in cui le prospettive interpretative piuttosto che rinforzarsi coerentemente l’una con l’altra, hanno cominciato a divergere e moltiplicarsi. Inoltre, dal punto di vista dell’intenzione dell’autore, per quanto essa venisse raramente resa manifesta in pubblico e sopratutto attraverso testimonianze indirette, ci si scontrava con una reticenza imbarazzante. Ma questa reticenza è apparsa nel tempo ben altro che uno sprezzante snobismo nei confronti di certa idiozia accademica o del più generale lavoro “secondo” del critico sull’opera letteraria. Beckett ha infatti avuto occasione di formulare in modo inequivocabile la sua posizione nei confronti dell’imponente ed eterogenea produzione critica che la sua opera andava provocando. Si pensi alla celebre lettera del 29 dicembre 1957 indirizzata al regista Alan Schneider, che stava curando in Germania la messa in scena di Finale di partita. Ecco quanto scrive Beckett:
“Ma quando si tratta di giornalisti credo che l’unica linea di condotta sia rifiutare di essere coinvolto in qualsiasi genere di esegesi. E insistere sull’estrema semplicità della situazione e del risultato drammatici. Se a questo loro non basta, e ovviamente non basterà, per noi è molto e non abbiamo delucidazioni da offrire per misteri che solo loro creano. La mia opera è una questione di suoni fondamentali (non sto scherzando) realizzata nel modo più completo possibile, e non accetto responsabilità per altro.”(2)
Possiamo contestualizzare quanto vogliamo queste frasi, sottolineando i riferimenti allo specifico lavoro teatrale e alla categoria un po’ vaga dei “giornalisti”, ma esse dovrebbero fungere comunque da monito nei confronti di qualsiasi disinvoltura interpretativa. Ma forse più che di disinvoltura, si può parlare nel caso della critica beckettiana, e in particolare di quella anglosassone, di una vera produzione a carattere “industriale”, che ha nelle università il suo maggiore epicentro. Se consultiamo la French bibliography per lo studio della letteratura contemporanea francese, otteniamo un significativo risultato: nel corso del 1953, anno di pubblicazione dell’Innommable, sono censite 12 voci, tra libri, tesi, articoli giornalistici o di taglio accademico che riguardano Beckett. Durante il 1963, le voci sono salite a 79. Venti anni più tardi, nel 1983, se ne contano 164.
Ovviamente, tale proliferazione non è da considerare esclusivamente in termini negativi, come se si trattasse di una semplice moltiplicazione di vecchi errori e di iniziali ingenuità. Nel tempo, gli effetti di resistenza del testo beckettiano nei confronti degli “investimenti” e delle “proiezioni” del lavoro critico hanno permesso di chiarire alcuni punti fondamentali. La propensione iniziale del critico beckettiano è inevitabilmente quella di “riempire” qualcosa che tende invece a “mancare”: il senso, innanzitutto. Ossia la possibilità di rinviare gli enunciati contenuti nell’opera ad una qualche realtà extratestuale, di cui essi permetterebbero una maggiore comprensione. L’idea che l’arte possa portare luce e sollievo nella catastrofe e nella tenebra dell’esperienza umana è proprio, per Beckett, una fallimentare chimera. D’altra parte non vi è arte che ne sia completamente spoglia, da qui il suo progetto di un’“arte del fallimento”. Se la fede nelle virtù salvifiche dell’attività artistica, comunque si vogliano definire, è rimasta centrale nel corso del Novecento, Beckett è l’autore che più di tutti ha contribuito a metterla in crisi secondo una strategia consapevole. Non si tratta, però, di rompere le attese del lettore in una intellegibilità dei fatti o dei valori, come accade, da un lato, in certa letteratura antimimetica, e dall’altro, nelle letterature dell’assurdo. Queste diverse operazioni, infatti, implicano entrambe il sostegno di un controdiscorso, di una visione delle cose alternativa e articolata in maniera ideologica, che sappia mobilitare cioè valori e concetti contrapposti a quelli condivisi dalla società letteraria e dal pubblico borghese a cui essa si rapporta. Non è impossibile rintracciare frammenti di tale controdiscorso anche nell’opera beckettiana, ma esso sussiste come momento subordinato, moto tattico, nei confronti di una finalità più ardua ed estrema, quella dell’astrazione letteraria.
Con questa formula, la critica francese Pascale Casanova ha definito l’evoluzione complessiva dell’opera di Beckett, riuscendo a fornirne una chiave di lettura generale, che sappia però rispettare l’intenzione dell’autore e le sue reticenze nei confronti degli sforzi esegetici totalizzanti. Nel suo saggio Beckett l’abstracteur, Casanova scrive: “Piuttosto che fossilizzarsi nell’enfasi connaturata alla retorica dell’Essere, Beckett è preoccupato più di ogni altro della modernità estetica; egli si posiziona deliberatamente, a partire dal dopoguerra, in rapporto a tutta l’avanguardia letteraria e pittorica che frequenta a Parigi, e per nulla in rapporto all’esistenzialismo o al teatro dell’assurdo, i cui presupposti gli sono estranei”(3). Casanova non avanza qui proposte di lettura del tutto inedite e innovative, ma riorganizza una quantità di acquisizioni della critica beckettiana più accorta intorno al tema centrale del suo studio, la “poetica dell’astrazione”, rileggendo con particolare pregnanza tutti i testi dedicati da Beckett agli amici pittori. La definizione di una poetica beckettiana dell’astrazione apre una serie di riflessioni importanti, ad esempio, sulla distinzione da fare tra atteggiamento antimimetico e atteggiamento antifigurativo. Quest’ultimo soltanto, infatti, costituisce l’approdo ad una letteratura dell’astrazione.
Per definire l’atteggiamento antimimetico applicato al romanzo, faremo riferimento ad una categoria critica elaborata da Giancarlo Mazzacurati nel suo saggio del 1987 Pirandello nel romanzo europeo. Mazzacurati parla di romanzo tecnomorfo, per definire una categoria di opere narrative nate dalla crisi del modello naturalista. Mentre il romanzo antropomorfo è un romanzo-natura che accoglie e affina gli stereotipi condivisi della cosiddetta “realtà”, il romanzo tecnomorfo, che pur ha remoti e illustri antenati (dal Don Chisciotte al Tristram Shandy), è scritto “per negare, ironizzare, rovesciare in grottesco la stessa pretesa di sopravvivenza del romanzo, specie nelle sue forme più ingenuamente antropomorfe, pseudo-naturali”(4). Due sono quindi le caratteristiche più generali di questa tipologia di romanzi antimimetici: la presenza di procedimenti autoriflessivi, che investono l’agire stesso del romanziere, le sue tecniche e le sue finalità, e l’instabilità nei confronti delle forme e delle immagini della narrazione, che sono costantemente sottoposte ad uno scetticismo o ad una irrisione radicali.
In nessuno caso, però, si parla di “superamento” o di “azzeramento” delle immagini. Non si parla insomma di cancellazione del patrimonio figurativo insito tanto nella lingua letteraria che in quella comune e quotidiana. Ma tale cancellazione è invece lo scopo della poetica beckettiana dell’astrazione. Quest’ultima, allora, si pone come una possibilità ulteriore, un estremo e più radicale tentativo rispetto alla realizzazione del romanzo tecnomorfo. Scrive Casanova, “Seguendo il modello di libertà conquistata dai pittori, Beckett lavora ad inventare immagini letterarie svincolate da norme e da prescrizioni figurative, tra le quali l’evidenza dell’interiorità psicologica”(5). A partire dagli anni Sessanta, infatti, il processo di astrazione ha portato Beckett a rinunciare radicalmente alla forma romanzo, per passare alle composizioni di “prose brevi”. Non si tratta quindi di attaccare, all’interno delle vestigia della forma-romanzo, i vari elementi che ne costituiscono l’ossatura fondamentale: intreccio, personaggi, paesaggio, coordinate di tempo e spazio. Questo lavoro “decostruttivo” realizzato con L’Innommable lascia lo spazio ora ad una prosa governata da un repertorio figurativo ridottissimo ed elementare, costituito dagli skullcapes, i “paesaggi cranici”, e da figure umane quasi cancellate, per lo più immobili, prive di memoria, di sogni, di percezioni distinte. È in queste short proses che il lavoro sulla sintassi e sul ritmo si fa accuratissimo e fondamentale. E le poche situazioni che emergono riconoscibili in questi esili universi sono da leggere nella loro piena letteralità, evitando ogni interpretazione di tipo allegorico.
Accertata, dunque, la strategia della scrittura beckettiana, rimane da osservare che essa non può che essere destinata ad un parziale fallimento, in quanto lo strumento stesso della dissoluzione della figura, ossia la parola, è di per sé inevitabilmente portatore di uno spessore figurativo. Non esiste, in termini figurativi, un “grado zero” nell’impiego della parola. Ogni parola ne richiama un’altra, e con essa una possibile frase, e con la frase una possibile situazione, e con la situazione un racconto e un possibile mondo. Ogni parola custodisce una propria “memoria”, così come delle proprie “chimere”, quella memoria e quelle chimere che sono vietate o sottratte alle sagome sfocate che occupano le ultime prose di Beckett. Ma lo svuotamento dell’interiorità dei personaggi, la dissoluzione di ogni densità psicologica dell’istanza narrativa, ha proprio come sua finalità quella di ritrovare una possibile percezione nitida della parola, tremante tra memoria e chimera, memoria di mondi e lingue di cui è erede, o chimera di mondi e lingue a venire di cui potrebbe essere frammento profetico(6). Ma in nessun caso questa incertezza, questa oscillazione e interferenza deve risolversi, perché per Beckett non c’è salvezza né nella nostalgia né nella speranza, e lo sfondo che dà senso a quella parola non è un “discorso” che potrebbe accoglierla e sostenerla, ma il silenzio che finirà per inghiottirla senza echi e riprese.
2. Il romanzo crocevia
Se ritorniamo ora a considerare L’Innommable, possiamo chiederci come situarlo rispetto all’evoluzione della scrittura beckettiana verso una poetica dell’astrazione. In altri termini, è già in atto in esso quel lavoro di dissoluzione della dimensione figurativa che caratterizzerà le short proses della seconda metà degli anni Sessanta? A nostro avviso esiste un evidente elemento di discontinuità tra L’Innommable e le prose degli anni Sessanta a partire da Comment c’est (1960). Il vero testo di cerniera tra la Trilogia e la successiva produzione beckettiana è costituito infatti dalla raccolta dei Textes pour rien, nei quali al lavoro antimimetico del romanzo tecnomorfo sia affianca un diverso tipo di lavoro, quello antifigurativo. Nei Textes pour rien è possibile riconoscere formule e procedimenti sintattici apparsi con L’Innommable e, nello stesso tempo, rintracciare alcuni elementi di quella topologia narrativa(7) che da Comment c’est si protrae, attraverso un numero ridotto di variazioni, fino ai testi più tardi quali Compagnie.
La collocazione dell’Innommable nell’evoluzione dell’ars poetica beckettiana è ovviamente importante per compiere di esso una lettura adeguata. Di certo questo, più di altri testi di Beckett, è un’opera che funge da grande crocevia. Si potrebbero classificare le letture dell’Innommable in tre grandi categorie: le letture che incentrano la loro attenzione sull’evoluzione interna alla Trilogia; quelle che ragionano sull’Innommable come snodo particolarmente significativo all’interno dell’intero processo evolutivo dell’opera beckettiana, e quelle, infine, che cercano di comprendere la specificità di questa operazione romanzesca sullo sfondo del romanzo novecentesco, o dell’evoluzione del romanzo moderno in quanto tale.
Insomma, se L’Innommable è davvero, come crediamo, un’opera crocevia, significa che si può arrivare ad essa da molte strade, come proseguire per altrettante e varie direzioni. La lettura che noi proponiamo appartiene alla terza categoria e si propone di considerare questo romanzo “eccentrico” come un punto d’arrivo, o una tappa estrema, nell’evoluzione del romanzo novecentesco di tipo psicologico e autobiografico. Chiariremo in seguito alcuni dei caratteri salienti che definiscono questa tipologia di romanzo. Per ora sia sufficiente aggiungere che intendiamo mostrare una via che da Pirandello porta a Beckett. Questa via è meno una questione di influenze, verificabili filologicamente, di un’opera letteraria su di un’altra, o di un autore su di un altro, che il riconoscimento di procedimenti letterari simili operanti su problemi simili, pur all’interno di contesti culturali e storici relativamente lontani.
Questa mia affermazione non esclude che sia da intensificare la ricerca sulle possibili influenze dell’opera di Pirandello su Beckett, già lettore e conoscitore della più illustre tradizione letteraria e speculativa italiana, da Dante fino a Vico e Leopardi. In effetti, per quanto ne so, certe straordinarie “somiglianze”, evidenti almeno dal punto di vista tematico, non sono state sufficientemente approfondite né dagli studiosi beckettiani né tanto meno da quelli pirandelliani(8). Per quanto mi riguarda mi limiterò a fornire un piccolo contributo in tal senso, seguendo però un percorso non proprio ortodosso, ossia quello che dal dramma tecnomorfo di Sei personaggi in cerca d’autore conduce al romanzo tecnomorfo di L’Innommable. La considerazione dei procedimenti e delle riflessioni teoriche di Pirandello, relativi al suo dramma più celebre, ci permetterà di comprendere meglio l’operazione compiuta da Beckett nel suo romanzo.
3. Mitologie dell’interiorità
Un primo punto da chiarire è il ruolo rispettivo che elementi di carattere concettuale e argomentativo, da un lato, e procedimenti drammatici e narrativi, dall’altro, giocano nel dramma tecnomorfo di Pirandello. In altri termini, vi è alla base delle strategie drammatiche di Pirandello una qualche dottrina, una teoria filosofica, oppure queste stesse strategie nascono come modalità estetiche per interrogare e mettere in crisi un certo patrimonio di luoghi comuni del pensiero novecentesco? Crediamo che sia un equivoco ascrivere certi motivi ricorrenti nell’opera romanzesca e teatrale ad una qualche dottrina di cui Pirandello sarebbe il portavoce originale. Consideriamo una delle tesi principali di quello che viene definito “relativismo pirandelliano”, ossia l’idea che ciascuno viva in un suo mondo ermeticamente chiuso e incomunicabile agli altri esseri umani. A ben guardare, tale concezione funge da leitmotiv, ripresentandosi in opere diverse, sia narrative che drammatiche, senza approdare mai ad una definitiva e articolata dottrina filosofica. Mettiamo a confronto due passaggi, uno tratto dal dramma Sei personaggi in cerca d’autore (1921), e l’altro dal romanzo Uno, nessuno, centomila (1926).
Il primo s’inserisce in un momento culminante della vicenda dei sei personaggi, quando il padre si presenta nella casa d’appuntamenti di Madama Pace, ignaro di aver comprato i favori della figliastra. Incalzato dal racconto di quest’ultima, che evoca i dettagli della grottesca agnizione, il padre vuole sospendere la narrazione dei fatti per lasciare spazio alla “spiegazione” dei suoi “stati d’animo” (“Il padre. Ma io non narro! Voglio spiegargli.”) Ed ecco la sua digressione di carattere speculativo:
“Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!”(9)
Mettiamo per ora tra parentesi l’origine di questa tesi, o il suo statuto concettuale, e consideriamo la funzione che essa gioca nella scrittura teatrale. Il motivo delle interiorità segrete e della loro incomunicabilità mette in crisi il funzionamento stesso della rappresentazione teatrale, che riposa sull’imitazione delle azioni e dei dialoghi tra i diversi agenti. È come se il padre imponesse sulla scena procedimenti rappresentativi che appartengono al genere romanzesco, e in particolar modo al romanzo di tipo autobiografico o psicologico. Sulla scena, insomma, dove s’intrecciano ed incontrano in forma pubblica atti silenziosi e verbali dei personaggi, si dovrebbero sovrapporre esaustivi monologhi interiori. Ad ogni personaggio, allora, sarebbe concesso di sottrarsi almeno in parte all’unico e condiviso piano dell’azione generale, per esistere in forma privata, separato dagli altri, nell’universo dei suoi sentimenti e delle sue percezioni. Ma se le tecniche narrative del romanzo tra secondo Ottocento e primo Novecento concorrono a dare consistenza narrativa a queste forme private di esistenza, esse non possono penetrare nell’universo teatrale se non a costo di distruggere il piano condiviso su cui si svolge l’azione, la quale è determinata non dal frazionamento delle interiorità individuali, ma dal reciproco dialogo e riconoscimento come agenti di un medesimo mondo. (L’unicità del mondo, nella rappresentazione teatrale come nella narrazione storica, non implica evidentemente che in esso siano sconosciuti i conflitti e le divisioni. Anzi, ciò che rende così cruenti, dolorosi ed enigmatici i conflitti e le divisioni tra gli individui, è la percezione che tutti, in definitiva, apparteniamo allo stesso mondo: sia che si tratti poi dei conflitti tra i membri di una famiglia, o di quelli tra classi antagoniste di una stessa società, o di quelli tra popoli di un’unica specie umana.)
Ciò che resta da chiedersi sulla tesi espressa dal padre è se essa sia in qualche modo vincente, se l’autore la condivida senza riserve, se l’opera in definitiva consegua coerentemente da essa. È facile rendersi conto che non è certo il padre ad avere l’ultima parola, così come nessun monologo interiore potrebbe subordinare a sé il conflitto fra i sei personaggi, e fra i personaggi e la compagnia teatrale. E l’esito, sul piano della rappresentazione teatrale, non è infatti una moltiplicazione di drammi individuali, ma l’unico dramma, seppure anomalo, di sei personaggi che cercano invano un loro autore.
Passiamo ora a considerare la tesi dell’incomunicabilità nella prospettiva di Vitangelo Moscarda, protagonista del romanzo autobiografico e psicologico Uno, nessuno, centomila:
“Ma il guaio è che voi, caro, non saprete mai, né io potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.”(10)
L’argomento del narratore, che è nel contempo il personaggio protagonista dell’intreccio, è quanto mai paradossale. L’istanza narrativa in questo romanzo si configura in apparenza come occupata quasi interamente dal monologo di Moscarda, ma di un tipo per nulla riconducibile allo stream of consciousness che ritroviamo in autori quali Joyce o Faulkner. Nemmeno, però, siamo di fronte a quel tipo di monologo ben organizzato sul piano retorico e argomentativo che ricorre nella Recherche di Proust. In Uno, nessuno, centomila, l’autore recupera il modello dostoievskiano caratteristico di un romanzo quale I ricordi dal sottosuolo, modello che inserisce nel monologo tradizionale, inteso come discorso che un personaggio rivolge a se stesso, una struttura dialogica, ossia un discorso in prima persona che si rivolge esplicitamente ad un interlocutore ideale, il lettore-ascoltatore, di cui anticipa domande, obiezioni, repliche.
Fin dalla prima pagina del suo monologo, Moscarda ingaggia in realtà un dialogo fitto con un testimone terzo della sua vicenda, un rappresentante del buon senso, ed è a lui che si rivolge costantemente. Solo quest’ultimo è il destinatario dei retroscena “psicologici” della condotta bizzarra del protagonista, non certo i personaggi che circondano Moscarda e partecipano delle sue azioni (la moglie, gli amici, ecc.). Tali personaggi, infatti, lo giudicheranno in base alla sue azioni, e non alle sue presunte motivazioni interiori. E l’importanza del giudizio altrui, della sua parzialità e inadeguatezza, contro cui si erge in forma sostanzialmente apologetica il monologo del protagonista, è confermata dallo scioglimento della vicenda che si realizza nella aule di un tribunale. (Qui si configura insomma il “rovesciamento” romanzesco della situazione in cui si trovava il padre nell’azione drammatica dei Sei personaggi. Un’istanza monologante subordina a sé i punti di vista dei diversi personaggi che, nel dramma, s’intrecciavano e confliggevano nell’unico mondo raffigurato dalla scena teatrale. L’ultima parola, in teatro, è quella dello spettatore che giudica da testimone terzo le parole e la azioni avvenute in scena, laddove nel romanzo Uno, nessuno, centomila essa spetta al solo protagonista-narratore. Anche nel romanzo, Pirandello rende percepibile la figura del testimone esterno ai fatti, il lettore, ma esso è fin dall’inizio reso complice dalla struttura dialogica in cui il protagonista-narratore lo coinvolge.)
Abbiamo accennato al carattere paradossale della tesi dell’incomunicabilità avanzata da Moscarda. Il motivo di tale giudizio appare ora più chiaro: colui che continua a giustificare e a motivare la stranezza della propria condotta di fronte al lettore-testimone, nega nel contempo ogni consistenza al suo discorso apologetico. Se Moscarda ha ragione, nulla di quanto dice non solo può essere compreso dalle persone che lo circondano, ma neppure da quell’ascoltatore ideale al quale svelerebbe i retroscena “interiori”, i tormenti metafisici, le complicazioni psicologiche delle proprie azioni.
Il motivo dell’interiorità, del suo carattere segreto e inesprimibile, viene dunque utilizzato da Pirandello in termini esclusivamente negativi. L’interiorità non è una realtà che offre una qualche presa ai personaggi del dramma o al personaggio-narratore del romanzo. Non costituisce quindi un effettivo baluardo contro la banalità del linguaggio comune né contro la povertà dei fatti. Essa, semmai, è un elemento destabilizzante che viene di volta in volta giocato contro l’ovvietà dei ruoli sociali e delle narrazioni condivise.
Lungo l’asse evolutivo del romanzo moderno che va dalle Confessions(11) di Jean-Jacques Rousseau alla Recherche di Marcel Proust, l’idea che la vita interiore (i “vissuti”, gli “stati d’animo”, ecc.) costituisca una fondamentale risorsa espressiva e morale dell’individuo non è mai venuta meno, consolidandosi di pari passo con lo sviluppo delle varie tecniche narrative di evocazione e disvelamento del sé profondo e segreto che hanno caratterizzato la penetrazione del paradigma autobiografico moderno nella struttura del grande romanzo realista dell’Ottocento. La Recherche è probabilmente l’ultima opera novecentesca che sfrutta tutte le possibilità espressive del sé segreto, senza frantumare completamente il nesso che lega l’universo idiosincratico individuale a quello da tutti condiviso, in cui si giocano i destini comuni. Ma pur perseguendo questo scopo sul piano dell’architettura romanzesca, Proust è anche colui che ha formulato con maggiore efficacia il mito del linguaggio privato nella sua versione “letteraria”.
Nelle Ricerche filosofiche (1953), uno dei capolavori filosofici del Novecento, Ludwig Wittgenstein dedica circa duecento paragrafi allo scioglimento di alcuni nodi concettuali che hanno dato origine ad una sorta di mitologia filosofica molto diffusa, quella inerente alla possibile esistenza di un linguaggio privato. Per avere un’idea di questi nodi concettuali, riferiamoci direttamente ad un passo delle Ricerche tratto dal paragrafo 243:
“Ma sarebbe anche pensabile un linguaggio in cui uno potesse esprimere per iscritto od oralmente le sue esperienze vissute interiori – i suoi sentimenti, umori, ecc. – per uso proprio? – Perché, queste cose non possiamo farle nel nostro linguaggio ordinario? – Ma io non l’intendevo così. Le parole di questo linguaggio dovrebbero riferirsi a ciò di cui solo chi parla può avere conoscenza; alle sue sensazioni immediate, private. Dunque un altro non potrebbe comprendere questo linguaggio.”(12)
Non ci interessa ricondurre questa problematica alla tradizione filosofica e alla specifica funzione che essa pretende di svolgere in sede speculativa. È sufficiente riconoscere la parentela tra questa definizione del linguaggio privato e le definizioni analoghe che noi riscontriamo in ambito letterario, sotto la penna di poeti e romanzieri. Se a determinare il significato delle parole sono in ognuno di noi i privati vissuti di coscienza, il linguaggio pubblico che adopriamo per comunicare è uno strumento grossolano, astratto, del tutto approssimativo. Il linguaggio privato, invece, sarebbe un linguaggio che ognuno adatterebbe alle sue esperienze interiori, e dunque sarebbe l’unico in grado di veicolare fedelmente i significati delle parole. A partire da questo canovaccio filosofico, si possono immaginare una serie di varianti interpretative che sono fatte proprie anche da poeti e romanzieri, e che concorrono sia all’elaborazione di dottrine letterarie sia all’invenzione di situazioni romanzesche o liriche.
Va però ribadito che questo modo di vedere le cose, quest’idea di linguaggio per uso privato, corrisponde per Wittgenstein ad un mito filosofico, ossia ad un pensiero confuso, che gira a vuoto, stregato dalla potenza evocativa di alcune immagini e metafore ereditate dalla tradizione. Non vi è nessuna necessità di postulare l’esistenza di un tale linguaggio né di enfatizzare l’abisso comunicativo od espressivo che separerebbe gli individui. Wittgenstein, insomma, non solo produce un’immane opera di demolizione di diverse “metafisiche” implicite nella concezione moderna del linguaggio, ma libera il linguaggio ordinario da quella inadeguatezza profonda a cui quasi due secoli di lirismo lo avevano condannato. La terapia wittgensteiniana non agisce solo nei riguardi dei grandi edifici filosofici, ma anche, seppur indirettamente, sul piano delle dottrine estetiche e su quello più diffuso dell’ideologia comune. La lirica, dunque, così come qualsiasi altra espressione artistica che usi il linguaggio come proprio medium, non permette di accedere ad un linguaggio più autentico di quello ordinario, essa semmai istituisce, attraverso il linguaggio ordinario, uno specifico gioco dell’autenticità. L’ideologia individualistica può sì allora sfruttare una serie di dispositivi letterari o di altro genere allo scopo di “produrre interiorità” (fantasmagorie private, universi lirici, memorie e chimere individualizzate, ecc.), ma non può in nessun caso postulare che gli individui siano per natura e originariamente depositari di tale interiorità, al di fuori di quei dispositivi sociali e linguistici che la producono.
Proust, dal canto suo, ne Le Temps retrouvé fornisce invece la più suggestiva dottrina della letteratura basata sulla mitologia del linguaggio privato. La letteratura ha una funzione fondamentale che essa soltanto, tra tutte le attività umane, è in grado di svolgere. La letteratura può rivelare il sé segreto di un individuo, ossia la sua più profonda realtà, e può farlo in quanto è capace di tradurre il suo linguaggio privato nel linguaggio dell’opera letteraria. Si legga questo passo:
“le style pour l’écrivain (…) est la révélation qui serait impossible par des moyens directs et conscients, de la différence qualitative qu’il y a dans la façon dont nous apparaît le monde, différence qui, s’il n’y avait pas l’art, resterait le secret éternel de chacun. Par l’art seulement nous pouvons sortir de nous, savoir ce que voit un autre de cet univers qui n’est pas le même que le notre et dont les paysages nous seraient restés aussi inconnus que ceux qu’il peut y avoir sur la lune.”(13)
Poco importa che la dottrina cui Proust fa riferimento non sia né particolarmente originale, affondando le sue radici nella stagione simbolista, né particolarmente attuale, avendo le avanguardie già avviato da più di un decennio una distruzione dell’interiorità. Proust ha dato forma in modo sistematico ad un mito che continuerà ad abitare ancora a lungo la pratica letteraria, seppure in modi sempre più problematici e controversi. E sia in Pirandello che in Beckett troviamo dei motivi e delle immagini che sono riconducibili a tale costellazione mitica.
Di Pirandello abbiamo già parlato, mostrando come nei suoi personaggi la valorizzazione dei vissuti individuali implichi necessariamente la svalutazione del linguaggio comune e delle forme di comunicazione quotidiana. Per quanto riguarda Beckett, sarà sufficiente ricordare un passo contenuto nel suo studio giovanile su Proust: “Either we speak and act for ourselves – in which case speech and action are distorted and emptied of their meaning by an intelligence that is not ours, or else we speak and act for others – in which case we speak and act a lie”(14). Appare evidente come l’evocazione di una tale alternativa si attaglierebbe perfettamente ad un personaggio pirandelliano. Fin qui, dunque, Pirandello e Beckett sotto il segno di Proust e di tutta la mitologia dell’interiorità e del sé segreto. Ma ciò che ci permette di avvicinare Pirandello e Beckett non è tanto l’eredità proustiana, che è in realtà patrimonio comune dell’ideologia letteraria dell’epoca, quanto l’uso specifico che essi ne fanno.
(Continua)
Note
1)Samuel Beckett, L’Innommable, Paris, Minuit, 1953, p. 14. D’ora in poi I.
2)Samuel Beckett, Disiecta. Scritti sparsi e un frammento drammatico, traduzione e cura dell’edizione italiana di Aldo Tagliaferri, Milano, EGEA, 1991, pp. 151-152.
3)Pascale Casanova, Beckett l’abstracteur. Anatomie d’une révolution littéraire, Paris, Seuil, 1997, p. 11.
4)Giancarlo Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 96.
5)Pascal Casanova, Beckett l’abstracteur, cit., p. 142.
6) Si pensi al motivo del “murmure de mémoire et de songe”, già presente nei Textes pour rien (Paris, Minuit, 1958, p. 197).
7)Troviamo in Tagliaferri una sintetica definizione di questa partizione fondamentale che dai Textes pour rien ricorre in molte successive prose beckettiane: “Gli esseri umani che nei loro contenitori vagano sperduti, o si contraggono rattrappiti, o si agitano in preda a propositi irrealizzabili, devono la loro sofferenza all’associazione di due distinti ordini di realtà, quelli stessi che rendono tra loro incommensurabili l’‘allora’ e l’‘adesso’.” Aldo Tagliaferri, La via dell’impossibile. Saggio sulle prose brevi di Beckett, I quaderni di “Testuale”, supplemento a “Testuale. Critica della poesia contemporanea”, n° 31-32, 2001-2002.
8) Tra i pochi lavori esistenti, cito almeno Godwin Okebaram Uwah, Pirandellism and Samuel Beckett’s plays, Potomac, Scripta Humanistica, 1989. Segnalo anche il breve ma denso paragrafo, intitolato Pirandello, Beckett. «La maschera nuda» e la «mise en abîme» dell’«io», in Andrea Tagliapietra, La virtù crudele. Filosofia e storia della sincerità, Torino, Einaudi, 2003, pp. 435-446.
9) Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore [1921], Milano, Mondadori, 1980, p. 52. D’ora in poi SP.
10) Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila [1926], Milano, Rizzoli, 1993, p. 77.
11) Considero qui Les Confessions di Rousseau come un paradigma narrativo che ha influenzato, oltre alla produzione autobiografica in senso stretto, la forma romanzo in quanto tale, dal romanzo di formazione ottocentesco al romanzo psicologico del primo novecento. Su questo tema vedi anche Andrea Inglese, L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Cassino, Edizioni del Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, 2003.
12) Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche [1953], edizione italiana a cura di Mario Trinchero, Torino, Einaudi, 1967, p. 118.
13) Marcel Proust, À la recherché du temps perdu, vol. IV, Le Temps retrouvé [1927], Paris, Gallimard, 1989, p. 474.
14) Samuel Beckett, Proust, London, Chatto & Windus, 1931, p. 46.
Samuel Beckett spoglia la figura di ogni illusione affettiva. Chi crede che il senso risieda nel contenuto delle emozioni forse lo piega a facili suggestioni.
Ciao alessandro,
è si
– il senso –
questo senso bastardo che ci frega
quando meno ce lo aspettiamo!
Buona serata
ora chiudo che qua sta arrivando un gran temporale
temporale d’aprile!
Buona serata, Carla.
I temporali d’aprile vanno contemplati in religioso silenzio…
usare il rasoio di wittgenstein del linguaggio privato in letteratura è una delle cose migliori che si possano fare, bravo andrea.
Il discorso di Ludwig Wittgenstein
è ingenuamente inserito in una dimensione escatologica del tempo: più che indicarci la dimensione storica vorrebbe indicarci la retta via.
[…] (La prima parte è qui.) […]