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Oh, Frantisek!

Di Damiano Zerneri

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(pratica di campionamento e remix su brani/momenti tratti
dai primi due capitoli di Der Prozeß di Franz Kafka)

Certo non ci si poteva credere. Come fai a pensare che c’è gente che va in giro bardata dentro certe tenute attillate che stanno nel mezzo tra la giubba da pesca e la guaina/guttaperca dell’incursore acquatico. Senza distintivo, questi due attillati mi mangiano la colazione. Li mando a fare in culo per niente affabile e loro neanche una piega. Mostratemi le credenziali, gli dico. Loro mi mettono davanti al naso un foglio imperial-regio con sopra l’ologramma dell’Inquirenza. Allora a malincuore mi tocca di rispondere, prego, accomodatevi. Sto con le brache del sonno, ma accomodatevi. Non glielo dovevo comunicare che mi chiamo Jozef K.?

Lo sappiamo come ti chiami, rispondono: sei in serio sospetto di fraudolenza e pertanto ti poniamo sotto arresto; seguiranno ulteriori mandati di comparizione. A me? -che figura davanti alla padrona di casa… brutta vecchiaccia maledetta, che ovviamente viene su dal piano di sotto a vedere quel che succede-. Cosa avrei fatto, di grazia? Ma loro alzano le mani facendo no no con la testa -quello che mi depriva della colazione anche col cucchiaio piantato in bocca- non te lo possiamo dire: tu devi comparire. Ora stabilita, luogo pattuito, ti si farà sapere. Intanto vai di là a parlare con l’Ispettore. Incasso senza darmene per inteso. Ma cosa avrà pensato, nel sentire questo trapestìo, la gentile signorina B., la quale abita giusto nell’alloggio accanto?

L’uomo che almanaccava in codesto modo tra sé, da fuori lo davi sui trent’anni, mentre camminava frettoloso, con la schiena dritta e la camicia fuori i pantaloni, un pomeriggio nel Graben. Chiunque lo conoscesse bene poteva chiamarlo senza offesa uomo di poca inurbanità. Anzi era benigno, non micragnoso, retto, con solo qualche pratica un poco imbarazzante nella vita privata. Ma diciamolo, a chi non piace qualche volta assumere uno zuccherino magico? Eccone uno, eccone un altro; alzate pure la mano senza timidezze. Ad ogni modo quest’uomo sui trent’anni che camminava per strada almanaccando, s’era visto arrivare due personaggi, sorta di palombari ma agili e dinamitardi, per-casa-la-mattina, quando ancora stava dormendo. Gli avevano intimato la convocazione per un reato ma non si capiva quale. Sarà stato per la modica quantità? Ma no, impossibile, essendo egli, che si chiamava appunto Jozef K., sprovvisto al momento, dentro al suo domicilio, di qualsivoglia dispositivo e relativo specifico. E allora perché? Ricapitolava, camminava. Uno degli emissari, poi, gli aveva succiato la colazione. Se l’era preparata da solo, sotto forma di latte e bastoncelli di fibra cereale, nella petit chambre de bonne che aveva funzione di cucina economica.

****

All’interrogatorio Jozef K. aveva da andarci la domenica successiva, di mattina. Doveva, glielo avevano detto per telefono, presentarsi al luogo convenuto, che lo trovavi abbastanza lontano, in un sobborgo del cinto (erniario) più esterno alla città. Fortunatamente per lui, ignorava che in luoghi siffatti, sotto l’ungulato potenziale inquisitorio dei legulei, anche i ladri più ladri per salvarsi dalla punizione (non scrutabile di per sé con gli strumenti consueti) alla fine prendevano ad inneggiare in piena voce al Piccolo Caporale.

Quando, nell’ufficio, alla banca, ove riceveva clienti di riguardo per conto del ben noto Istituto di Credito, Jozef K. riagganciò il ricevitore, non s’accorse di avere alle spalle il vicedirettore.
‘Tutto bene?’ gli chiese questo.
Ma il fresco inquisito stava con lo stiffelius inzaccherato di realtà e non capiva bene quanto gli veniva detto. Con la testa da un’altra parte, non metteva bene insieme le parole, se non per cartigli che in un attimo diventavano fiamma e sparivano. Ciononostante percepì l’invito del vicedirettore a una gita in barca a vela per quella domenica entrante. Come detto, ahilui, dovette però declinare la gentile offerta, la quale sarebbe stata ottimo viatico per un ingresso ufficiale nelle alte sfere dell’Istituto quale giovane promessa e procuratore indomito.

****

Quando arrivò il giorno dell’interrogatorio, Jozef K. aveva già deciso di presentarsi per le nove antimeridiane, anche se a dire il vero non gli era stata comunicato un’ora precisa per la comparizione. Alle nove, si disse, nei giorni feriali le cancellerie cominciano ad agitare le membra, per cui mi par giusto se io mi presento agli inizi. Ma il risveglio di prima mattina già era stata una cosa di quelle che non fanno bene alla buona complessione. Dalla serata del sabato era rincasato molto tardi, per cui levandosi dal letto s’era sentito tutti gli ossi in pezzi da dover meditare amaro la storia di quel contadino che cavarono dalle coperte direttamente col forcone. Di quanto accaduto non aveva che ricordi tutti privi di un’orecchia in alto, così che gli riusciva difficile porre i fatti in una sequenza logica. Ma che folate la notte nelle acque reflue nel fiume! Presso le murate avevano allestito una pedana rialzata con a fianco torri di diffusori. E poi il banco del mixer e i giradischi e imberbi disc jockey con capelli d’idra raccolti in enormi calotte di lanugine colorata. La bandiera gialla, verde e rossa con vicino la faccia in policromo di Haile Selassie. Rivolgimento di forze nell’odore tattile di zucchero e benzina: il procuratore di banca e futuro dirigente Jozef K. s’era gettato nel gorgo d’onda con la moltitudine convenuta al fiume e dentro i liquidi marosi della musica giamaicana.

‘E stavo di molto bene’ come era uso dire l’amico Schmar. Le acque rodolfine della Vltava rilucevano nella nottata calda. Fu quando col passare delle ore, mentre l’onda della musica e dello star bene andavano ritraendo, che a causa di un diverbio qualsiasi si accese una discussione violenta presso il banco del venditore di poponi che aveva messo tenda sugli argini, appresso all’adunanza. Il venditore, all’aspetto un calmucco, o un asiatico ma dell’Asia minore, minacciò delle persone con il coltello con cui smezzava la frutta. Al propagarsi dell’animazione Jozef K. corse subito via, sebbene non ve ne fosse soverchio il bisogno. Percorse precipitosamente la circonvallazione di città vecchia, per alcuni tratti correndo, senza che nella mente l’abbandonasse il riff di un vecchio pezzo di Barrington Levy che avevano messo un paio di volte durante la serata. Con dispetto, una volta a casa, dovette confessarsi che non era riuscito a non farsi influenzare dal procedimento che ormai aveva preso le mosse contro di lui. Era corso lontano perché se per caso l’avessero identificato in corrispondenza della rissa, questo avrebbe potuto aggravare la sua posizione.
‘Quale posizione… santo dio, quale?’ proruppe nel silenzio della stanza.

****

Andare intorno al cinto erniario della città più esterna significava inoltrarsi… sì inoltrarsi in una terminazione boschiva del territorio metropolitano nel quale direttamente e intorno a spiazzi di ghiaia fuoriuscivano casamenti di solida fabbrica, oltre che sana dignitate. Case costruite dalle cooperative del dopolavoro ferroviario, con l’anno di termine lavori martellato nell’architrave; case con chiare nella facciata le finestre col vetro a smeriglio che mettevano alle scale. Insomma abitazioni di gente della classe lavoratrice, ai cui muri posteriori stavano, come insidianti, forse non armonici, bandoni di conifere. Jozef K., che fin lì aveva camminato con speditezza senza prendere il tram ed era stato visto da un suo subalterno (per la sorpresa di scorgerlo fuori dalla carta nautica il brav’uomo si era sporto visibilmente fuori la terrazza di un caffè con mescita), respirò l’odor di resina e si convinse che la natura stava morsicando la città a partire dalle propaggini. Dietro i casamenti, in lingue d’erba fitte di festuche e rese strette dall’incombere dell’abetaia, si susseguivano file di biancheria stesa ad asciugare sui fili. Mettevano allegria a vedersi, per quanto nella mattina l’aria fosse ferma e il cielo grigio. La gente si parlava dalle finestre; uomini in maniche di camicia tenevano in sicurezza i bambini piccoli al davanzale. Non era certo il quartiere ove paventare il lancio alla vigliacca di un tomahawk da qualche finestra segreta.

Jozef K. arrivò alla casa di condominio dove si trovava l’ufficio delle udienze. Per quanto non s’aspettasse assembramenti o animazione di sorta fuori dalla cancellata o in strada, lo stesso fu sorpreso dal fatto che non vi fosse nessuno in giro. L’unica presenza fragrante era presso la guardiola, dove un tale che poteva essere il portinaio -anche se era vestito in grembiale e berretto come gli autisti delle vetture di piazza- leggeva il giornale da seduto sopra una cassa. Attraverso il cancello Jozef K. vide un’aiuola esagonale al centro di un ampio cortile, con belle piante sconosciute in un contornare di mattonelle verso le vie d’accesso ai vari corpi dell’edificio. Fece per chiedere un’informazione al tale seduto sulla cassa, ma quello lo prevenne non appena lo vide protendersi nel busto in procinto di domandare. Poggiò il giornale sulle gambe quel poco loquace custode, e fece segno a palme aperte di come non fosse in grado di erogare alcunché.

Nel cortile, Jozef K. decise allora di entrare nella prima scala alla sua destra. Dentro, come fuori, non c’era nessuno. I ballatoi erano ampi, con diverse porte; il corrimano saliva tortile per alcuni piani. Non c’era alternativa, avrebbe dovuto bussare ad un interno e chiedere. Pensò che sarebbe stato meglio far finta di essersi sperduto nell’atto di cercare un certo falegname Lanz, così che mentre la brava gente sarebbe stata intenta a rispondergli, lui avrebbe potuto gettare un’occhiata nelle stanze per vedere se si trattava della sede degli interrogatori e delle istanze. Bussò dunque ad una porta che davanti aveva uno zerbino a forma di gatto. Gli aprì una ragazza sulla falsariga della giovane balia. Era rossa in viso, accaldata, con in cima alla testa uno di quei cappellini di carta del reparto confezionamento alimentari.
‘E’ qua il laboratorio del falegname Lanz?’ domandò zeta allungando il collo come un uccello a guardar dentro.
La giovane non rispose, spalancò solamente la porta a mostrare una grande sala attraversata da volute di vapore dove altre ragazze, anch’esse con la bustina in capo, stiravano di fino coi ferri triangolari oppure appianavano alla grezza grossi teli sotto presse a fumo. C’era una stiratrice-bambina seduta su uno sgabello che dava il ritmo alle compagne cantando come il tamburo sulla galea:

‘La bella lavanderina, che lava i fazzoletti
per i poveretti della città.
Fai un salto, fanne un altro
fai la giravolta, falla un’altra volta…’

La fine del canto venne portato via dal clangore dei secchi mentre qualcuno versava la potassa nel lavaggio. Jozef K. rimase abbacinato dalla stireria come il giovane santo Francesco dalla gargotta di tintura dove lavoravano immersi nel colore gli schiavi di suo padre.
‘Mi perdoni, credo di essermi sbagl…’ disse.
La ragazza sempre senza dire nulla lo prese per il braccio e lo portò verso le scale.
Indicò in alto e disse: ‘al terzo piano non è come qui, c’è un corridoio. Camminalo tutto e in fondo trovi un tavolo con dietro seduto un uomo. E’ vicino all’ultima porta’.
Poi lasciò il braccio e si avviò a tornare nello stanzone della stireria.
‘Grazie!’ le gridò dietro Jozef K.

L’uomo effettivamente era là, in fondo al corridoio del terzo piano. In quell’andito il visitatore avrebbe potuto pensare che l’intero caseggiato avesse la forma di una stella. L’aria imbuiava nella terminazione e per avere visibilità bisognava tenere accese le lucerne condominiali infisse al muro. L’uomo non faceva nulla, né si svagava. In assenza di convocati all’indagine stava composto con i gomiti sul tavolo, dove era posato un registro simile a quelli di scuola. Inevitabilmente aveva ampi favoriti e la scriminatura gugliemina. L’uniforme era simile a quella del padre del povero Gregor Samsa, che faceva l’usciere in azzurro e alamari alla banca dove lavorava Jozef K. Quella postura e quell’assetto di guardiano rincuoravano, lasciavano immaginare un approdo infine all’ordine, dentro la convoluta vicenda di mandati di (s)comparizione, autorizzazioni a procedere e, soprattutto, introiezioni di colpe forse primigenie. L’uomo in uniforme guardava inoltre con uno sguardo lacustre di fiducia che avrebbe rassicurato per la non-punibilità anche un massacratore di impuberi. Ma era uno di quegli sguardi che cambia d’improvviso come le nubi in cielo. Jozef K. tuttavia si avvicinò con un sorriso.

‘Permetta. E’ qua dove il Giudice Istruttore pratica gli interrogatori?’ chiese.
L’addetto lo guardò dritto in viso. ‘Che strana maniera di parlare che ha lei’ rispose piano.
Jozef K. rimase confuso. ‘Be’ sa, io sarei stato convocato. O almeno m’hanno detto di venire qui stamattina…’.
‘Mi favorirebbe gentilmente i suoi documenti?’.
‘Oh sì sì. Ecco…’.
Jozef K. si mise a frugare concitato nelle tasche ma la prima cosa che gli venne per le mani fu la tessera di ciclista. La scartò subito, giacché gli parve una maniera ben misera di qualificarsi davanti ad uno degli estuari dell’Istituzione. Finalmente trovò l’atto di nascita. L’uomo gallonato lo prese e, infilati gli occhiali, si diede a leggere con attenzione.
‘Non la conosciamo’ si limitò a dire posato il foglio, terminata la lettura.
‘Prego?’ chise Jozef K. ancor più confuso.
‘Dico che il suo nome non è qui nel registro’ vi batté sopra una mano ‘dico anche che l’Istituzione non la conosce. Certo, non posso anche dire se lei è colpevole o no, dal momento che sto al gradino più basso della pianta organica e mi occupo soltanto d’introdurre gli interrogati presso il consesso’. Qui l’uomo indicò la porta chiusa.
‘Quindi io…’.
‘Vada con Dio, se vuol sentire la mia’.
‘Dunque non sono colpevole?’.
‘Le ripeto: non certo come l’acqua che scorre nell’acquaio, ma di sicuro come uno che non è nel libro mastro dell’Istituzione’.
Allora c’era stato un increscioso ed anche incredibile disguido!
‘Proprio così, un disguido increscioso’ confermò l’uomo dell’Istituzione irradiando bonario.
A quelle parole Jozef K. provò, come sempre accade, chissà come mai, un misto di sollievo e delusione.

Stava lì in piedi come alla veglia d’armi, quando all’improvviso alla sua sinistra si spalancò una porta dissimulata nel muro e ne sbucò un uomo. Addetto e non-colpevole si volsero nello stesso momento. Jozef K. prima di vedere bene l’uomo, incongruamente guardò da dove era uscito, e vide un rientro di parete profondo circa un metro nel quale si tenevano gli spazzoloni e le scope e gli strofinacci e la cera d’api per lustrare i pavimenti del piano.
L’uomo, alto, crapa pelata, giacca di fustagno, inveì subito ad alta voce. ‘Non può, non deve, anzi, non è mai finita così. Ma dove siamo eh, dove siamo? Chi vi ha dato l’autorità per fare una cosa del genere?’.
Poi si volse verso Jozef K. col dito puntato. ‘Parlo anche con te. Anche te hai la colpa’ disse.
‘Io?’ rispose questi sempre più frastornato.
‘No qua voi non vi rendete conto. Qua siete tutti colpevoli; qua la storia non può finire a ‘sto modo. Quest’uomo deve entrare là dentro e andare al cospetto del giudice. C’è ancora un mucchio di strada di carta da fare. Voi qua state spaccando la letteratura!’ e nel dir questo l’uomo alto con la crapa pelata picchiò una gran botta sul tavolo, costringendo l’addetto a stringere a sé i bordi del registro.
La porta chiusa della sala degli interrogatori pareva ora una soglia negromantica.
Con Jozef K. pietrificato, fu l’usciere gallonato a parlare.
‘Ora basta’ disse con la risolutezza di chi è abituato a mettere a tacere scandali ‘se non finisce all’istante questa ignobile gazzarra… se non ve ne andate subito tutti e due mi vedrò costretto a chiamare i bastonatori’.
D’improvviso gli comparve una campanella tra le mani. La sollevò come mostrando che nell’occorrenza l’avrebbe agitata a richiamo. L’uomo con la crapa pelata produsse allora di rimbalzo un gestaccio per mandarli tutti quanti a quel paese e s’incamminò a lunghe falcate per il corridoio.
Dopo l’ennesimo istante di smarrimento Jozef K. gli corse dietro. Presolo per una manica, lo fece voltare.
‘Scusi ma lei chi è per venirsene fuori a questo modo?’ domandò.
‘Io sono zeta’ rispose l’altro di malagrazia scuotendo il braccio per liberarsi e subito ripartire per la sua strada.

Scesero le scale l’uno dietro l’altro, con il crapa pelata che procedendo spedito distanziava l’inseguitore. Giunto al primo piano lo si vide ridarsi al ballatoio, aprire una porta, entrare in una stanza e lesto chiudersi dentro. Jozef K. rimase per un momento incerto se provare ad entrare o meno. Poi si decise e spalancò. Davanti a lui, rinserrato allo stretto in un altro ripostiglio di servizio, tra altri spazzoloni e strofinacci, c’era un rintanato zeta, che subito dardeggiò di ferocia dallo sguardo.
‘Vattene coglione, lasciami in pace! Non hai ancora capito cos’hai fatto?’ gridò afferrando la maniglia e richiudendo la porta su di sé con un gran colpo allo stipite.

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3 Commenti

  1. E se il protagonista del processo di Kafka fosse Raskolnikov? Rodja, alzati da quel maledetto divano: c’è tutto un mondo da rimontare! Sarà Blob…

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