Il signor figlio

625.jpg  di Severino Colombo  

Alessandro Zaccuri, Il signor figlio, Mondadori, 2007, 336 pag.

«Meglio è tacere una Storia, che narrarla ingombrata di fole». Il precetto del conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, vorrebbe essere il sigillo su un vaso di Pandora che ha le sembianze di uno scatolone pieno di libri trovato in soffitta. Vorrebbe essere la parola «fine» che chiude per sempre una faccenda di eredità che non riguarda, però, titoli o monete piuttosto gloria e sapere. Ma ormai è tardi, tutto è gia accaduto («accade ancora e accadrà»). Il romanzo è compiuto e questa è solo la frase che chiude il volume, non la storia bensì i ringraziamenti dell’ autore. Del resto il titolo – Il signor figlio – parla chiaro: in questa storia che racconta di figli e di padri (e di figli divenuti a loro volta padri) sono i primi a lasciare il segno; ai secondi tocca di provare a mettere insieme i pezzi, cercare brandelli di verità tra le righe di missive scritte ad arte o tra i fili d’ erba di uno sterminato campo di battaglia.

L’ autore, Alessandro Zaccuri giornalista di «Avvenire» e conduttore televisivo, scrive da figlio; incrocia fatti storici e finzione insinuandosi abilmente nelle pieghe dei documenti e costruendo una trama solida e avvincente sull’ infido terreno della verosimiglianza. La vicenda parte da un assunto falso, una fola, annunciato sulla copertina del libro: «Leopardi non è morto. Vive a Londra. È il conte Rossi». È il 14 giugno 1837, a Napoli imperversa il colera, Leopardi è molto malato ma gli mancano le forze per abbandonare le umane spoglie. Così sul letto di morte resta solo la sua identità mentre quel corpo maledetto, continua a respirare altrove. Pochi giorni dopo Leopardi è a Londra dove, da esule, consuma questo supplemento di vita portando avanti un progetto folle e ambizioso: un’ opera che sia «macchina e pensiero nello stesso tempo, ingranaggio e intuizione», una liturgia laica – «ignota al mondo e proprio per questo necessaria» – di cui lui sarà l’ unico officiante.

La struttura narrativa del romanzo è complessa, ma si dimostra salda e senza cedimenti, grazie in particolare a una prosa armoniosa, duttile, quasi elastica che segue ovunque l’ autore, si affaccia sui miti dell’ antichità e si cala nelle viscere della madre terra. E va anche oltre perché è questa scrittura «fertile» – forse più che l’ effettiva esigenza della trama – a generare dalla storia principale, per analogia e per assonanza, altre storie di altri figli (lo scrittore Rudyard Kipling, il compositore Olivier Messiaen) e dei loro padri.

[pubblicato su Il Corriere della sera, il 4.3.2007]

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6 Commenti

  1. Uno di quei libri che… non leggerò mai, poco ma sicuro.

    Dalla quarta di copertina – che è poi più bella e completa e chiara della recensione qui postata, a dimostrazione del fatto che… ognuno tragga da sé le sue conclusioni.

    “Un padre e un figlio. Uniti dalla scrittura, divisi dall’arte. Perché il genio non rispetta l’ordine tra le generazioni e un figlio può eccellere in regioni destinate a rimanere sconosciute al padre, non lasciando scelta tra il conflitto e la sottomissione. A meno che in questo contrasto tutto maschile non intervenga lo sguardo visionario di una madre capace di arrendersi al mistero di cui ogni figlio è portatore.
    Ne sa qualcosa l’uomo che, nella Londra di metà Ottocento, si presenta come il conte Rossi. In Italia, molti anni prima, è stato un poeta in continuo duello con il padre. Adesso è soltanto un erudito bizzarro e solitario, dedito alla costruzione di un’Opera enigmatica e indefinibile.
    Ma chi è davvero il conte Rossi? Quale segreto custodisce? Lo scoprirà, suo malgrado, un pittore alle prime armi, finito quasi per caso nella soffitta in cui l’italiano vive rintanato. E da quel momento la storia di Monaldo e Giacomo Leopardi confluirà in quella di Rudyard Kipling e di suo padre John, in attesa dello scioglimento al quale presiede – fuori dal tempo e dallo spazio – Cécile, la madre poetessa del compositore Olivier Messiaen. Una rete di analogie, questa, che si trasforma nella trama de Il signor figlio, trascinante narrazione romanzesca nella quale ogni illazione è puntigliosamente verificata sulla verosimiglianza suggerita dai documenti. Le fogne della Londra vittoriana e i campi di battaglia della Prima guerra mondiale, il disegno titanico dello Zibaldone e i manoscritti perduti dello Zend-Avesta, la biblioteca di Recanati e i campi di prigionia nazisti, il culto della dea Cibele e la meditazione agostiniana sulla Trinità delineano il paesaggio di un libro appassionato e incalzante, nel quale la rivalità suscitata dall’arte è in realtà la metafora di un conflitto che ogni figlio – e ogni padre – conosce bene per averlo sentito, più lieve o più feroce, nei propri sentimenti in formazione, nella propria carne.”

  2. A livello linguistico è un libro scritto ottimamamente e Zaccuri conferma di essere un intellettuale solido.

  3. interessante la storia di questi intrecci
    che si mischiano al passato,
    che sanno di cultura….
    pur focalizzando
    un sentimento che
    è difficile da raccontare….

    salutone a Gianni.

  4. ‘Uno di quei libri che… non leggerò mai, poco ma sicuro’.

    ecco la ragione principale, forse l’unica, per cui mi procurerò questo libro a tutti i costi.

    così, a naso, chi sa mai perché, sono convinto che si tratti di un gran libro.

    poco ma sicuro.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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