Acromatopsia
di Christian Raimo
A me fanno ridere certe canzoni sulla droga tipo perché lo fai oppure lilli perché si vede che c’è gente che non ha mai pensato nella vita che cos’è farsi, non ha l’idea minima di perché ti sale una botta e non capisce soprattutto che il problema non è il disagio, l’incomprensione, il problema sono i soldi. Se hai soldi puoi fare un certo tipo di vita. Se non hai i soldi, quel tipo di vita non la puoi fare. Le differenze tra le persone sono tutte qui. Ogni volta che mi ha acchiappato uno qualsiasi di volontari preti caritas villa maraini cercavano tutti di impostare il discorso non sulla dipendenza, non sul fatto che bisognava stare attenti alle infezioni, questo sì lo dicevano ma era soltanto l’aspetto superficiale, perché dal quinto minuto in poi cambiano tutti la voce e cercano la comunicazione psicologica, cercano di capire perché, vogliono sapere la storia, le motivazioni, il contesto sociale. E allora io gli dico che non c’è un perché profondo, il problema sono soltanto i soldi. Se io c’avessi dei soldi, non mi farei. Non mi fregherebbe niente di farmi, oppure mi farei ogni tanto, ma con della roba migliore, farei come quelli che vedo sotto casa mia, che arrivano con lo scooterone, in giacca e cravatta, alle otto meno un quarto, comprano la dose, si fanno dentro la macchina di questo che gliel’ha venduta, risalgono sullo scooterone, e vanno in ufficio, belli, efficienti, farei come loro, non mi sbatterei tutta la giornata a capire come rimediare i soldi. Se io c’avessi un cinquemila euro al mese, saprei gestirmela la mia vita, è così, è la verità. Mi cambierei la macchina. Mi aggiusterei casa. Ridarei i soldi a mio padre, così non dobbiamo sfancularci ogni volta che ci incontriamo. Anche lui dice che vuole impostare diversamente il rapporto. La verità è che rivuole i soldi che gli ho chiesto. Invece della comprensione, del metadone, dei programmi di disintossicazione, delle siringhe pulite, datemi i soldi, e io divento un modello sociale. Perfetto. Pago le tasse, faccio beneficenza, me ne vado pure a teatro, alle mostre, a sentirmi le conferenze sull’antica Roma. Non c’è tanto altro da dire, non esiste una spiegazione psicologica dietro il fatto di farsi. A me non mi è successo nessun trauma, non pativo nessun disagio. Che devo raccontare allo psicologo che mi vuole capire? Che quando ho cominciato a farmi un anno fa sto come sto adesso, esattamente come adesso, esattamente come cinque anni fa. Iscritto all’Accademia di Belle Arti, là a via di Ripetta, mi stavo laureando. Tutte le mattine mi alzavo, a Viterbo dove abito io e venivo a Roma, studiavo, ogni tanto davo qualche esame. In tutto questo qual era il mio unico problema? Stavo scannato. Mia madre mi passava cinque o dieci euro la mattina per la giornata. A pranzo mangiavo spesso pizza ripiena con la mortadella, una banana, un paio di caffé. Non vedevo l’ora di rimandare la tesi di laurea perché non avrei avuto neanche la routine di prendere il treno, arrivare in biblioteca, fare la pausa alle undici e prendermi il caffé. Mio padre quando aveva intuito che con la mia laurea non c’avrei fatto un cazzo, aveva chiesto a un suo amico qua di Viterbo se potevo lavorare al suo negozio di ferramenta. Voglio dire, non è che ci sono capitato, che qualcuno mi ha traviato, voglio dire che semplicemente l’ho scelto. L’eroina l’avevo provata un paio di volte durante l’Erasmus, a Lille. Mi era piaciuta, ed è una delle poche cose che mi è piaciuta nel corso degli ultimi tre anni. Uno dei pochi momenti della mia vita degli ultimi tre anni in cui ho provato piacere. Capire che cos’è che ci fa piacere, è essenziale. Quando hai perso questa bussola, per me sei arrivato a un limite di congelamento umano. Ed è questo che capita alle persone. Che non hanno più idea di cosa sia il piacere. Di cosa gli faccia piacere. Se ti fai, almeno, al minimo, provi piacere, ti ricordi cosa vuol dire provare piacere. Che per ognuno il piacere certo vuol dire una cosa diversa. C’è la maggior parte delle persone che dice che farsi nelle vene è una cosa sessuale, è come venire ma moltiplicato. Per me questo è vero, ma in parte, alle volte. Per me invece si collega al piacere che uno prova nella possibilità di trasformazione. Il non capire da dove vengono le tue percezioni, nella mobilità possibile. Per me farsi, semplicemente, vuol dire godere della luce che cambia forma, colore, che cambia consistenza, forza. Un’idea – ma questo è raro pure quando ti fai – di purezza. Il piacere della purezza. Non so se qualcuno di voi ha mai visto il bianco puro. Mettiamo che uno di voi dica Madonna, quest’oggetto, questo pezzetto di carta è bianco puro. Poi però magari uno ci mette della neve vicino al pezzetto di carta, e questo pezzetto di carta appare grigio. Allora uno può dire che magari in laboratorio potrei produrre un tipo di bianco puro, un bianco che è simile al bianco della neve. O forse addirittura un bianco che supera in purezza quello della neve. C’è una oggettività in questa percezione? Oppure ognuno percepisce il bianco, la purezza del bianco in un modo diverso? La bellezza di farsi per me è questo, le domande che ti fai sulla luce, sui colori, sulla purezza. Poter non pensare a nient’altro. Concentrarsi su questo. Tutto quello che hai studiato tra le pitture, l’estetica, le mille filosofie mortali acquista un senso, un risvolto pratico. Non mi volete dare dei soldi per drogarmi? Datemeli come fosse una borsa di studio sulla percezione dei colori. Non è che me li sputtano e basta. Giuro che mi applico. Lo faccio già adesso, quando sto a ruota, quando devo fare il bambino di sei anni che si prende il metadone: l’unica cosa che non mi fa impazzire è andarmene alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea a Valle Giulia. Lì un po’ mi passa la ruota. Lì, respiro. Col fatto dell’iscrizione all’Accademia posso entrare gratis. Posso stare lì le ore. Prendere il treno da Viterbo. Scendere a Montemario e col 913 arrivare a Valle Giulia. Mi calmo, lì dentro. Mi fisso sui quadri, sulle sculture, e mi placo, sto bene. I rossiccio dei cappelli dei garibaldini in un quadro di Guttuso, i dipinti di Boccioni, il modo in cui usa i colori primari. E la parola primario anche qui acquista il suo senso. Primario è perché è essenziale. Se ti mancano il colori primari, se non puoi accedere, se non puoi recepirli, è come se ti mancano le vitamine, puoi resistere un po’, farne a meno, ma ti debiliti, e a lungo andare ti viene lo scorbuto. Il quadro con il colletto verde di Gaffi. Quella parodia di viola che è il viola delle ninfee di Monet. È così instabile quel colore, così come il verdino del lago, sono colori così dati male, così pieni di venature e malessere. Oppure alle volte guardo gli occhi di una faccia, tra i neorealisti italiani, Le tentazioni di Sant’Antonio, e dico: Ecco vorrei vedere quella cosa lì, vorrei vedere quello che vedono loro. Il mondo con quei colori lì. Non solo lo spazio del quadro in cui si trovano, che è quello che posso vedere anch’io, ma tutto. Percepire il mondo fatto della consistenza della luce di Fattori. Forse era un’Italia vivibile quella. Forse non era come questa di oggi in cui, a parte le menate psicologiche, ognuno pensa ai cazzi suoi. Forse allora uno insisteva a chiederti come stai, te lo chiedeva gratis, non c’era un assistente sociale che viene pagato per cercare di farti stare meglio. Ma non è così. Il mondo non è così. Così buono. Altrimenti, sono convinto, che Klein non avrebbe dipinto e dipinto tutte quelle tele di blu, non avrebbe cercato quel blu. Quando mi metto davanti alla sua tela, al suo Blu numero non so quanto, tutto interamente blu, primario, super-primario, provo odio, provo la rabbia nei confronti di uno che si è salvato, che ha capito quanto faceva schifo il mondo, e invece di farsi, invece di sputare in faccia alle persone, si è chiuso nel suo castello arroccato composto di solo blu. Quelle di Klein non sono dipinti da guardare. Sono tele che ti giudicano. Sono il mondo come non è. Sono il mondo di chi ha i soldi, e può inventarsi per un po’ un mondo a suo e consumo. Hanno fatto bene, dico, a mettere nella stessa sala il dipinto di Klein e il Grande Rosso di Burri. Perché tutta la mancanza di salvezza, tutta la mancanza di pietà, tutta l’impotenza che si scatena guardando il blu prepotente di Klein, evapora, scema, si sublima, se uno si mette davanti al Grande Rosso di Burri. Puoi morirci lì davanti. È uno dei pochi posti al mondo in cui non hai bisogno di farti per tirare avanti le giornate. Uno dei pochi posti al mondo in cui alla fine non te ne frega niente neanche se c’hai soldi o non c’hai i soldi. Anzi, a un certo punto, mentre stai lì, con lo sguardo fisso sul buco della tela, su questa quantità enorme di colore che però ha un buco in mezzo grosso come una voragine, non ti importa neanche niente dei soldi, del fatto che il mondo è marcio, e che le persone non piangono più.
Molto bello.
“Anzi, a un certo punto, mentre stai lì, con lo sguardo fisso sul buco della tela, su questa quantità enorme di colore che però ha un buco in mezzo grosso come una voragine, non ti importa neanche niente dei soldi, del fatto che il mondo è marcio, e che le persone non piangono più”
Con lo sguardo fisso sul buco della tela, sul buco del mondo, sul buco della tua vita che affonda nel buco del culo, che cazzo gliene frega dei soldi a uno così, chiamiamolo con le mani bucate e con gli occhi bucati che tutto quello che entra gli esce dall’altra parte e non riesce a trattenere, chiamiamolo uno così sfondato di vita e di merda che per non scoppiare ha bisogno pure di sforare ogni tanto, aprirsi una succursale di stasi(mi) minimi e immorali, una banca del mene- sbatto anch’io per una volta, tanto per una volta, mentre s’allunga la lista della spesa dei perduti, qualcuno che ce la fa, magari dopo 10, 12, 13 anni ti dice che ci sono voluti 73 giorni prima di svegliarsi senza dolori al mattino, un mattino in cui si domandava perché avesse cominciato -perché era stanco- e perché avesse deciso di smettere?- perché era ancora più stanco- ecco, la chiave o il buco di tutta la storia non sono i soldi, il lavoro, la tela di Klein o di Burri, è solo quest’essere stanco, che il mondo non perdona, togliendoti dal culo tutte le panchine, lasciando solo le sedie dei bar con cronometro a pagamento, è il tempo che ti sei fottuto che ti fanno scontare con una dose di quell’altra galera dai minuti altrattanto contati, dai ritmi serrati, altrettanto scanditi…la beffa più grande è proprio cominciare questa altra corsa, questo facciamo a chi arriva prima a fermare il tempo, giusto il tempo di ricominciare a fare di nuovo a chi arriva prima a fermare il tempo, e poi finisce che il tempo s’è fermato.
Scusa Raimo, questo personaggio lo trovo un po’ “ideologico”.
E’ la tossicomania come piacerebbe che fosse al sociologo o all’esteta.
Invece ci si fa per placare una sete che non si estingue.
Non per vedere colori puri, non per essere “speciali”.
Solo per essere normali: placare un’ansia che t’impedisce di vivere.
Per il tossico quello è l’unico modo, o così sente, così crede.
Per questo non c’è metadone che tenga.
L’unica cura, è la cura dell’anima.
Se si arriva a farsi senza un motivo particolare (il male di vivere ?) è ben peggio, secondo me.
Spero che accada raramente, perchè venirne fuori sarà anche più difficile, immagino.
Comunque, un bel racconto, così intenso da sembrare autobiografico, ma invece no, eh ??:o).
Complimenti.
Molto bello anche il commento di X.
Scritto bene. Conosco ,poi, tanti manager che guadagnano 10000 euro al mese e si “fanno di brutto”. Il perchè? Così tengono lo stress , riescono a controllare il proprio misero potere e soprattutto a gestire le risorse umane, mi fanno pena, poveretti! Il senso di essere Dio con una dose! Marco
Ma qual’è il problema della nostra civilità con la droga? Perché mai bisognerebbe censurare chi si droga? Perché ‘si fa del male’? E allora, si interviene quando altri mali ci assalgono più o meno quotidianamente? per non parlare di quelli legalmente distribuiti e ufficiliazzati.
C’è qualcuno che ha una visione così disincantata e depurata del reale da discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato? Per empatia, perché avendo visto da vicino, per casi personali – familiari – di amici – cosa accade a chi ‘cade’, vorremmo che non si replicasse lo stesso disagio in altri che osserviamo da vicino.
E non capisco quale sia l’aspetto estetico citato da Binaghi. La droga non è anche un fattore di piacere? davvero c’è chi può dire che non lo sia.
C’è un controcanto troppo negativo? E allora? Banalmente, ma chi se ne frega, e il lavoro 1000euri al mese con sbattimenti di cranio assoluti?
Raimo caro, caro sul serio a questo punto,
dovresti scrivere sempre così…
ma a parte questo, che è sempre certamente al meno possibile – scrivere, dico – occorre ricordare, essere fedeli…
ma sto delirando,
(per Burri, non per una dose)
Paola
C’è ancora gente che si fa di eroina? Burri poi al massimo ricorda la cartina bruciata di una canna!
Klein non ti giudica: cancella l’uomo in quanto simulacro.
mi fa ricordare, bene bene (anche se non ci sono tutti i legami che potrebbero apparire a primo impato), una canzone che anche in questi giorni sto riascontalo del Finardi giovane: Scimmia
b!
Nunzio Festa
il racconto è ben scritto, ma inutile negare che comunichi, intenzionalmente o meno, una sorta di visione positiva degli stupefacenti, che io ritengo deformante, scotomizzata. io a 20 anni li ho provati tutti (almeno quelli che giravano allora) ma dopo altri 20 anni e più mi rendo conto, per amor del vero, che la ns. generazione ne ha sottovalutato le conseguenze (dell’lsd in particolare). ho visto troppe menti sconquassate, troppe psichi perdute, ma non nell’estasi bensì in un angoscioso buio interiore, e troppi amici morti per non pensarlo. il problema è statistico. certo, faceva parte del rischio, ma quanto calcolato?
ora è pure peggio, le droghe psichedeliche e ierofaniche sono sostituite da quelle della performance e dei soldi, la cocaina e le pasticche.
bello e, in qualche modo, sincero.
Il racconto è ben scritto ma con l’eroina secondo me c’entra poco. Trainspotting centrava meglio la questione. Uno si fa perché una volta provato e la cosa gli piace e lo fa star bene continua continua continua e continua. La scimmia nel cervello nasce la prima volta che ti buchi. Da quel momento in poi ti sale sulla schiena e non ne se ne vuole più andare. L’eroina ti toglie il dolore, ogni forma di dolore perfino fisico. Tutti abbiamo un dolore fosse solo quello oscuro del vivere. Tolto il dolore non sei felice ma ti senti a posto. Il tuo corpo si fa caldo accogliente e piacevole come sotto le coperte quando fuori nevica e fa un freddo cane. La tua anima è leggera e trasparente. Al tuo cervello non frega nulla dei colori, dell’estasi, delle paure, dell’ansia, finalmente sta in pace con se stesso e con il mondo.
Queste sono le uniche ragioni perché uno diventa un tossico tutto il resto è letteratura. Quindi se mai ci provi il problema non si pone. Datemi retta io lo so.
pepe
Ellepi, te lo dico io: il mio problema con la droga è la merda che ci mettono/non ci mettono dentro, per cui non so i tuoi, ma l’appello dei miei amici sta diventando un bollettino di guerra e il mestiere del tossico diventa sempre di più quello di chi da grande vorrebbe farsi un buco in testa e vediamo quanto ci mette a trovare la vena! Per il resto nessun problema, anzi.
piaciuto completamente
Bello, però avrei preferito fosse autobiografico, sarebbe stato più trasparente.
Un gran pezzo questo. Bravissimo
Bravo Raimo, quello che scrivi su Burri e Klein è splendido – fa pensare all’arte che libera, almeno il proprio sentire, mentre fuori resta il surrogato della vita.
Forse la tossicomania è un po’ un pretesto…
Del bellissimo commento di Gabriele Pepe condivido ogni parola e virgola al riguardo – anche se lo posso dire solo da “spettatrice”.
racconto bellissimo, quello della droga come dice ophelia è un pretesto, un finale fortissimo.
[…] di scadenza scrissi la presentazione che mi avevano chiesto. Ne venne fuori un racconto intitolato Acromatopsia di quattro pagine in cui uno studente dell’Accademia delle Belle Arti, in perenne bolletta, […]