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Il fattore C. La comunicazione del governo alla prova dei sei mesi #6

di Edoardo Novelli 

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Con l’intervista a Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi, si conclude lo studio di Edoardo Novelli sulla comunicazione del governo. Qui e qui le due prime parti analitiche; seguono l’intervista a Gianluca Luzi, a Giovanni Floris, e a Valerio Saffirio.

Onorevole Sircana, la comunicazione del governo, prima ancora della sua politica, sembra essere finita nell’occhio del ciclone.
Francamente mi sembra esagerato: la comunicazione che parla della comunicazione e che discute sulla comunicazione, che si autocomunica. È un paradosso. Recentemente il Corriere della Sera ha dedicato una pagina intera alla mia intervista al programma di Lucia Annunziata.
Non mi dica che in un momento come questo non se lo aspettava?
No, non me lo aspettavo minimamente. Anche perché mi sono sempre vissuto come un uomo di retrovia, non un uomo di prima linea. Mi sono domandato, ma che succede, quanto spazio meriterebbe davvero un tema come questo in una economia sana di comunicazione?
E che risposta si è dato?
Che questa comunicazione è figlia di una certa politica.
Cosa ha significato in termini di comunicazione passare dalla campagna elettorale al governo?
Il salto fra la campagna, che ha tutto un altro spirito, e il governo, io me l’aspettavo. Mi ero psicologicamente preparato, avevo fatto il mio training autogeno. Però è sempre molto traumatico. Io sono fermamente convinto che ci siano davvero due modi diversi di comunicare e che bisogna uscire immediatamente dalla campagna elettorale quando finisce. E bisogna paludarsi, investirsi di un atteggiamento diverso e usare un linguaggio diverso.
Francamente questo cambiamento, questo cambio di registro, non sempre è emerso così nettamente.
Secondo me, nel nostro piccolo, abbiamo tentato di farlo e lo abbiamo fatto. Uno dei fattori con cui ci scontriamo più spesso è la mancanza di tempo oltre che di risorse. Siamo pochi, siamo “sotto staffati”. Posso farle tutte le lamentazioni del caso, ma è inutile che le faccia il cahier de doléance.
Chi sono i responsabili della comunicazione del governo?
Tutto quello che riguarda la comunicazione esterna del Presidente fa capo a me, sia nei confronti della stampa sia per tutto quello che concerne i discorsi. Oltre a me ci sono diverse figure che hanno a che fare tutte con la comunicazione del governo. Giulio Santagata, il responsabile dell’attuazione del programma, ha la funzione di coniugare l’attività del governo con il pregresso, un ruolo che ha una grande importanza per quanto riguarda la comunicazione e che stiamo cercando di fissare e definire. Richi Levi, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, ha una funzione da un lato tecnica perché segue tutta l’attività sull’editoria e le sovvenzioni, ma ha anche in mano la leva della comunicazione verso il pubblico con le campagne pubblicitarie. Anche se è una leva totalmente prosciugata dal punto di vista finanziario e non so quante campagne potremo fare. Ci metto anche Vannino Chiti, che tutti i giorni mantiene le relazioni con i gruppi parlamentari, anche se di tipo tecnico-operativo. È anch’egli un portatore di comunicazione e di informazione. Quindi in azienda si direbbe che ci sono quattro riporti verso il Presidente del Consiglio che hanno tutti una funzione di comunicazione.
Tanti. Forse troppi. In altri paesi, penso agli Stati Uniti o all’Inghilterra, c’è l’abitudine di affidare tutta la comunicazione del governo a un’unica figura. Cosa ne pensa?
Quello che è veramente importante in una struttura come questa è che tutte queste funzioni si parlino. Sta a noi, non al capo, creare un circuito virtuoso in cui l’informazione circoli anche in orizzontale. Le persone che le ho citato sono quelle con cui io parlo di più durante una giornata.
Come vede la sua funzione e come ha organizzato la sua struttura?
Io sono entrato qua con delle idee, ovviamente l’aggressività dell’agenda me le ha fatte dimenticare molto rapidamente e in parte me le sono tenute per me. Ho cercato di creare essenzialmente dei circuiti virtuosi di comunicazione interna, basati molto sulle relazioni personali. Uno è il circuito di cui parlavamo prima, l’altro è quello tra me, i miei collaboratori e i vari portavoce, che è il primo modo di coordinare le presenze. Ad esempio ieri, prima di “Porta a Porta”, siamo perlomeno riusciti a far sì che i due esponenti del governo che partecipavano facessero un po’ di agenda della comunicazione. Poi ognuno ha parlato con la sua cifra, con il suo tono, nessuno qua chiede di sceneggiare tutto, non è nella nostra cifra. Però, nel momento in cui vai a parlare di un argomento delicato come i servizi segreti, un minimo di linea del governo, su cosa si dice e su chi la dice, va concordata.
Troverei sorprendente che una cosa del genere non venga fatta.
Per questo governo è abbastanza innovativo.
Ci sono persone che hanno il compito di visionare in anticipo i posti nei quali Prodi dovrà intervenire, occupandosi della loro organizzazione, e altre che preparano le cosiddette liste di sound bites, le dichiarazioni sui temi caldi della giornata?
Stiamo lavorando anche su cose del genere.
Berlusconi ha lasciato una eredità molto pesante in tema di comunicazione. Avete pensato se e come differenziarvi?
Uno dei mali con cui ho a che fare tutti i giorni è quello che io chiamo per semplificazione il berlusconismo di sinistra. C’è una parte del centro sinistra che ammira e apprezza il modo di comunicare di Berlusconi. Intendiamoci, io non lo condanno minimamente, l’ho analizzato e l’ho apprezzato, per quello che si deve apprezzare. Ma Berlusconi non va inseguito sul suo terreno. Primo perché sul suo terreno è il più bravo di tutti. Secondo, perché è il più dotato di tutti e a me mancano alcuni strumenti che lui ha. Terzo, perché ognuno deve adottare la cifra di comunicazione che gli si confà. Quindi, inseguirlo sul suo terreno è il modo per farsi del male. Però parte della nostra coalizione, e anche di alcuni elementi del nostro governo, hanno la tendenza a quel tipo di comunicazione overstatement.
Qual è allora la cifra della comunicazione del governo: il tono e lo stile con il quale intende comunicare e caratterizzarsi?
Uno dei principi di fondo per dei signori che, compatibilmente con una notevole carenza di mezzi, hanno appiccicato per l’Italia dei “sei per tre” con scritto “La serietà al governo”, è cercare di essere coerenti con quel messaggio. Il che vuol dire un ritorno a una comunicazione più istituzionale. Il Paese deve ritrovare il rispetto di alcuni valori etici e morali, fra cui una visione delle istituzioni più rispettabile. Ecco, questo ha molto a che fare con la comunicazione. Nel senso che c’è un grande lavoro da fare, forse più in levare che in battere, nel ridimensionare l’istituzione, facendola tornare ad essere una cosa seria di persone serie che lavorano, che non si esibiscono e non usano toni laceranti per farsi ascoltare.
Nell’attuale scena pubblica, con le caratteristiche e i tratti che ha assunto, la serietà non corre il rischio di essere scambiata per seriosità? Penso a quello che si dice riguardo a un vostro stile comunicativo poco attraente, incapace di tenere alta la soglia dell’attenzione, di marcare l’agenda.
È il rischio che corre l’impostazione che stiamo dando. Quando diventa retorica della serietà, e non serietà tout court, va smorzata. È una grossa sfida, perché non ha niente di sexy. È un messaggio difficile in un paese che è ormai orientato verso la cultura del successo, del celodurismo, del voler prevalere, dell’individualismo. È un messaggio fortemente in controtendenza.
Esistono degli attriti o delle incomprensioni fra Prodi e i giornalisti derivanti da aspetti caratteriali e umorali?
Una leggenda metropolitana, che gira da tempo, è quella di Prodi permaloso. Io la vedo così: Prodi è una persona di forte carattere, altrimenti non sarebbe diventato due volte primo ministro, una volta presidente della Commissione europea e non avrebbe fatto la carriera che ha fatto. Per fare carriera ci vuole un certo temperamento e Prodi è una persona di temperamento. Da lì a essere permalosi secondo me ce ne passa. Prodi è una persona diretta che se pensa che un giornalista abbia sbagliato o male interpretato, lo dice in modo molto diretto. Siccome questo atteggiamento viene da una persona di potere è vissuto quasi come una minaccia. Ma quando parla in modo diretto, così outspoken, Prodi non si porta dietro il senso del potere che rappresenta, in quel momento è un individuo che pensa, che esprime i suoi pensieri e non è paludato nella funzione.
Se i giornalisti che vi seguono si annoiano, non si divertono, hanno difficoltà logistiche e anche contenutistiche a raccontare Romano Prodi, è un problema loro o anche vostro?
È un problema anche nostro. Una delle cose che mi sento dire dai miei amici giornalisti e che mi accorano di più è: “dammi qualcosa”, “mi lasci a bocca asciutta”, “e io?”. Conosco le gerarchie dei giornali, conosco i direttori, conosco l’ansia del buco. Tutto questo mi è assolutamente chiaro. Però nel momento in cui mi si chiede “dammi qualcosa”, a me mi viene da piangere.

Posso capirla, ma se la stampa ragiona con certi criteri bisogna pur farci i conti.
Certamente. Se vuole analizziamo alcune vicende recenti e gli insegnamenti che abbiamo tratto.
Partiamo dal viaggio in Cina. Qui i problemi di comunicazione e di organizzazione non sono mancati.
Il viaggio in Cina ci ha insegnato che l’agenda che noi facciamo deve essere anche l’agenda dei giornalisti. In queste occasioni non dobbiamo considerare i giornalisti una appendice che deve totalmente adattarsi alla nostra agenda o riempire i buchi del programma. Dobbiamo prestare attenzione anche ai loro orari, alle loro esigenze e non dobbiamo necessariamente avere la bulimia, l’ansia da presenza dei giornalisti a tutti i costi. Portarseli dietro per tubifici, cementifici, porti, e così via, è stato un esercizio sterile che, anzi, ha aumentato la correttissima fame del giornalista che andava a caccia di altro.
Quindi?
Quindi, se potessi rimpaginare quel viaggio, direi ai giornalisti: venite a Shanghai, ultima tappa del giro con la Confindustria, poi ci seguite a Pechino, dove invece parliamo di politica e, per finire, l’appendice negli Stati Uniti. Perché un altro dei fattori che va commisurato è anche quello dei limiti fisici di tutti noi, giornalisti, premier, collaboratori del premier.
L’incidente della dichiarazione di Prodi a New York sulla sicurezza del Papa nel suo viaggio in Turchia ha a che fare con quest’ultimo aspetto?
Un pezzo della risposta gliel’ho già data: un’agenda sbagliata, un massacrante giro del mondo, una domanda fatta mezz’ora prima del discorso all’assemblea generale dell’Onu, hanno portato a quel risultato. Resta però una bella case history di comunicazione. Testualmente Prodi dice: “ma cosa vuole che ne sappia io, è come se lei mi chiedesse se l’Onu oggi è sicura”, e aggiunge in modo un po’ confuso: “ci penseranno le guardie”. Non ha mai parlato di guardie svizzere, si riferiva alla polizia turca. Ormai, nella leggenda che si è generata, è diventato: “Prodi pensa che il Papa debba essere difeso dalle guardie svizzere”.
Fabio Martini su la Stampa la definì “la risposta di un uomo stanco”.
Fabio Martini ha capito la situazione.
Come giudica e cosa vi ha insegnato invece il caso Bersani?
Sul decreto Bersani, ad esempio, noi abbiamo avuto una comunicazione perfetta, perché era comunque un fattore di cambiamento e un portatore di positività.
Perfetta sia prima, sia dopo?
Dopo non è la comunicazione che ha sbagliato. È stata la gestione politica a essere debole, e siamo passati dall’attacco alla difesa. Quello che io ho già autodenunciato come un errore è stato invece la comunicazione sull’indulto.
Errore politico o di comunicazione?
L’indulto è il tipico provvedimento per il quale devo prima fare un mese di comunicazione, spiegare qual è la situazione delle carceri e, solo dopo, presentarmi con il provvedimento, dicendo che ovvia a tutti questi problemi. Non lo posso presentare così, one shot, dicendo l’ho fatto per questo, l’ho già fatto e te lo prendi. Però, a quello che mi dicono i tecnici, non c’era tempo e ce lo siamo dovuti prendere così com’era. Abbiamo cercato di gestirlo tutto ex post. È stata una lezione durissima.
Un caso di comunicazione dell’emergenza. Come il naufragio di una petroliera.
Sì, però la nave che perde il petrolio è davvero un incidente, l’indulto non è
stato un incidente.
Quali novità avete introdotto nella comunicazione di Palazzo Chigi?
Non siamo stati a vedere che cosa facessero prima. Da subito abbiamo istituito la pratica che ogni Consiglio dei ministri, anche quello più routinario, ha in appendice una conferenza stampa gestita dal sottosegretario Enrico Letta il quale, in quanto sottosegretario coordinatore e verbalizzatore, non può mai mancare. In questa conferenza stampa si racconta, se volete in modo un po’ da verbale di polizia, il Consiglio dei ministri, dando conto anche di tutta una serie di provvedimenti marginali, quali piccole nomine o piccole cose. Questo è stato il format che abbiamo scelto, e lo mettiamo anche online sul sito del governo. L’altra cosa che abbiamo adottato, sempre nella cifra della serietà al governo, è che dopo un incontro si debba prima di tutto raccontare quello che è successo. Quindi, quasi sempre, le conferenze stampa sono organizzate con un Prodi che racconta anche a lungo, forse ai limiti della noia, che cosa è successo mezz’ora prima. Non so quanto tutto questo sia innovativo, non mi interessa, anche se credo che in parte lo sia. Comunque corrisponde alla nostra cifra di comunicazione.
Conferenze stampa poco strutturate, dichiarazioni alle televisioni rilasciate in mezzo alla gente, basso livello di cerimonialità. È una strategia di spontaneità o una contingenza subita?
Stiamo lavorandoci, eliminando molte delle cose alle quali ha accennato e andando verso una strutturazione forte della comunicazione. Qualche tempo fa ad esempio a Villa Doria-Pamphili c’è stato un linguaggio che secondo me hafunzionato molto bene.
Si riferisce alla conferenza stampa dopo la riunione del centrosinistra e al podio all’americana usato da Prodi, tanto citato dai giornali?
Sì, noi avevamo concordato che alla fine avrebbe parlato solo Prodi. Però, secondo un vezzo molto diffuso, i politici hanno cominciato a uscire alla spicciolata, ad avvicinarsi ai giornalisti e rilasciare dichiarazioni. Nei telegiornali c’erano tutti i politici che parlavano con il grappolo di giornalisti, come lo chiamo io, e un Presidente che invece parlava in quel contesto.
Come è nato quel podio?
In verità è nato da una necessità contingente. Quella location è un posto straordinario, di una bellezza e di una suggestione notevole, ma il meno strutturato al mondo per lavorare. Noi avevamo già fatto lì un paio di eventi e verificato che il trattamento dei giornalisti era particolarmente difficile. Se non li fai entrare, intasano via Aurelia, se li fai entrare, non sai dove metterli perché dentro non c’è proprio spazio fisico. Abbiamo così deciso che l’unico posto dove fare una conferenza stampa era fuori e lo abbiamo attrezzato in modo che ci fosse la possibilità per Prodi di parlare, di fare, di raccontare.
Qual è l’immagine, quello che gli uomini di pubblicità e marketing chiamano il posizionamento, di Romano Prodi Presidente che volete far passare?
Io sono favorevole a uno status diverso rispetto alla fase della campagna elettorale. Al di là dell’amicizia, se sono qua è perché considero Prodi un grande talento ma, per scelta e anche per un certo rigore cattolico, la sua cifra personale non esibisce questo talento più di tanto. È meraviglioso l’atto di censura fatto dallo stesso Prodi nei confronti di qualsiasi parola diciamo fuori da un lessico comune, di qualsiasi metafora troppo azzardata, di qualsiasi citazione troppo colta, pur essendo persona che potrebbe citare Dante a memoria. La cosa più sorprendente che può capitare a chi per lavoro viaggia con lui è il rispetto di cui gode in giro per il mondo. All’incontro con Bush, a San Pietroburgo, mi aspettavo un atteggiamento dall’alto verso il basso e invece ho trovato il presidente degli Stati Uniti e Condolezza Rice molto rispettosi di Prodi come interlocutore e come ex presidente della Commissione europea. Questo si sta dimostrando un asset molto forte. Penso che la valorizzazione di questo aspetto di Prodi sia il nostro percorso, piano piano dovremo arrivare a rendere quell’immagine più familiare e più naturale anche agli italiani.
Perché Prodi va così poco in televisione?
È una scelta maturata negli anni. Siamo convinti che la tv sia innanzitutto priva di contenitori in cui la politica si spiega. Nelle trasmissioni presenti in questo momento si fa solo a gara a chi ci sa stare meglio in tv, viene premiato l’uomo dalla battuta forte, il good performer, quello bello. Addirittura la televisione ha creato dei politici, politici di seconda fascia, perché hanno il dono della battuta, della simpatia. Tutto questo con la serietà al governo ha poco a che fare. Quello che manca è una televisione, un po’ più noiosa se vogliamo, ma dove uno possa spiegarsi.
Il Presidente del Consiglio non ha l’autorevolezza per contrattare con i media forme di accesso a lui congeniali?
Io lamento l’assenza di un format di questo genere ma, essendo allo stesso tempo una persona seria e onesta, penso che chi produce televisione debba farlo non secondo i miei indirizzi. Molti colleghi mi stanno dicendo: “devi mandare Prodi a fare il caminetto alla Rai”. Ho ancora nelle orecchie le polemiche di quando lo faceva Berlusconi. Non chiederò mai di farmi una trasmissione sartoriale, su misura. La Rai per me è un’azienda, che fa il suo mestiere, se lo fa male mi permetto di criticarla, ma io non oriento la Rai.
Talvolta l’impressione è che vi sia una sorta di prevenzione nei confronti della comunicazione, vista come una forma di manipolazione messa in atto da ciarlatani o da pericolosi persuasori occulti. È possibile che in un governo dove vi sono gli eredi della cultura marxista e cattolica sia ancora presente una forma di prevenzione culturale nei confronti della comunicazione?
Evidentemente è possibile, anche se io non sono d’accordo con questo punto di vista. Il nostro è un Paese in realtà ancora profondamente immaturo nel suo rapporto con la comunicazione perché o abbiamo il grande comunicatore, che forse è solo comunicazione, o abbiamo un rapporto ancora diffidente oppure strumentale con la comunicazione. Attenzione però, questo non succede solo nel governo ma anche nelle aziende. Io per anni mi sono sentito dire dai miei amministratori delegati: “perché ha fatto fare quel titolo al Sole 24 Ore?”. Io non faccio fare i titoli, caro Presidente, io fornisco notizie. Se la notizia è che abbiamo un problema, l’articolo dirà che abbiamo un problema. La parte che posso fare io è spiegare perché esiste il problema, come intendiamo risolverlo e via dicendo, ma non mi chieda di non far fare il titolo sul problema se la notizia è il problema.
Qual è lo slogan, la frase, che riassume lo spirito e l’indirizzo di questo governo?
Oltre a “la serietà al governo”?
La serietà al governo non è un contenuto, è una forma.
Dopo quello che abbiamo visto e passato è anche un contenuto.
In campagna elettorale ha funzionato, ma può funzionare anche come mission del governo?
Quale missione è più forte di risanare le finanze di un paese, di renderlo di nuovo competitivo, di lavorare, mi scusi la retorica, per garantire un futuro ai nostri figli?
Posso dirle che sono tre mission, non una? È nota l’importanza della comunicazione preventiva, che fa da cornice generale all’azione di governo.
È molto facile trovare uno slogan, trovare qualcosa di sexy da dire, se si vive in un paradigma in cui l’adulto è altrove e il popolo è bambino. I discorsi tra adulti sono molto meno divertenti che i discorsi tra adulti e bambini. La cosiddetta mission del ‘96 “dobbiamo entrare nell’Euro”, lasciando intendere che se non lo facevamo c’era qualcuno molto cattivo a Bruxelles che ci picchiava e sgridava, era tutta giocata sul paradigma adulto-bambino. Bene, ciò che unifica le tre mission, come dice lei, è entrare nel paradigma adulto-adulto: ora siamo noi che ci dobbiamo autoregolare, autogiudicare, autocertificare. La mission vera è: “Cari italiani, diventiamo adulti”.
Come comunicatore mi dà l’impressione di essere in mezzo a due fuochi. Da un lato la personalità, il carattere e la cifra del Presidente del Consiglio, che peraltro lei condivide, dall’altra parte il mondo dell’informazione e la moderna scena pubblica con le sue aspettative.
La vera sfida è cercare di far cambiare le aspettative.

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3 Commenti

  1. “Il Paese deve ritrovare il rispetto di alcuni valori etici e morali, fra cui una visione delle istituzioni più rispettabile. Ecco, questo ha molto a che fare con la comunicazione”.
    Se domani non passa la politica estera dell’Italia ‘andiamo tutti a casa’.
    Davvero serio, davvero rispettoso, davvero istituzionale.

  2. Ma Sircana se le ricorda le facce tristi e i sorrisi tirati che si aggiravano sul palco di Piazza Santi Apostoli a Roma l’11 aprile 2006? Il governo Prodi ha vissuto una parabola elettorale da dimenticare, arrivando al voto dopo aver perso una bella fetta del portafoglio di consensi accumulato durante le Primarie e nella successiva campagna elettorale contro Berlusconi.

    E non basta cavarsela dicendo che il Cavaliere si è dimostrato un bravo comunicatore. Lo sapevamo. Le cose sono peggiorate dopo la vittoria (di Pirro). Nell’ottobre del 2006, Sircana ammetteva candidamente che “la comunicazione del governo ha le sue carenze”. Oggi se qualcuno glielo ricorda storce il muso piccato, prendendosela con i soliti giornalisti che non sanno che pesci prendere. Attenzione a non beccarseli in faccia, sogliole e merluzzi. Gli sbagli in questi ultimi mesi sono aumentati, fino alla ingloriosa sconfitta del 21 febbraio 2007, perché di questo si parla, una sconfitta, anche se mascherata da crisi di governo e rinascita di un Travicello che si regge sulla pazienza di un presidente della repubblica sempre più impaziente di fare il proprio dovere.

    Nel senso comune, Romano Prodi è rimasto inchiodato prima alle ‘giravolte fiscali’ sulla finanziaria, poi alle ‘vacanze’ nella Reggia di Caserta, e infine alla bolla, anzi alla balla, della base Usa di Vicenza. Ma la legge finanziaria conteneva i due euro in meno della ricarica omnitel (le ‘liberalizzazioni’ del ministro Bersani). Il seminario del governo non fu organizzato nella Reggia di Caserta, bensì presso la locale Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, che è patrimonio dello Stato – come dire, un weekend a costo zero per il contribuente. E la base americana è stata concessa senza troppi ‘se’ e troppi ‘ma’ al governo degli Stati Uniti, rispettando gli accordi con gli Alleati.

    Eppure, alla fine di gennaio, l’editorialista Angelo Panebianco si sentiva obbligato a scrivere che “la politica estera si conferma il terreno più infido per la stabilità del governo”, anticipando di un mese la caduta di Prodi. Tutti i parlamentari hanno riconosciuto il valore delle proposte politiche del ministro degli esteri D’Alema, e la loro sostanziale discontinuità con l’atlantismo spicciolo del governo Berlusconi, ma il governo è caduto proprio in politica estera. L’Italia si è ritirata dall’Iraq, si è impegnata in Libano, ha ritrovato la sua ‘storica equidistanza’ tra israeliani e palestinesi (almeno così dicono), cercando di affrontare la ingarbugliata matassa mediorientale senza dividere il mondo in buoni e cattivi. Per l’Afghanistan, D’Alema aveva proposto una Conferenza di Pace, non di bombardare Tora-Bora. Niente da fare. L’immagine appiccicata sulla grisaglia di Prodi è rimasta la solita, ammuffita divisa dell’antiamericano, l’italiano machiavellico pronto a farti lo sgambetto.

    Un errore si può perdonare, ma quando uno tira l’altro significa che non sei riuscito a comunicare un progetto politico. Quali sono le proposte concrete, qual è il tuo disegno per il futuro. La rinascita dopo lo scivolone di febbraio non ha spostato di una virgola questo deficit nell’assetto comunicativo del governo Prodi. Mancava e manca il “sentimento sotterraneo” che lega un premier al suo Paese. La serietà non basta se non conquisti il cuore e lo stomaco, l’emotività di un ‘popolo’. Così l’opinione pubblica si è dileguata, i sondaggi sono calati in freezer, giornali e televisioni hanno abbandonato il premier al suo destino. Il governo è rimasto sempre più solo, asserragliato nel Palazzo, aspettando il giorno del giudizio.

    Non è sufficiente vincere le elezioni, l’immagine di un leader si costruisce nel tempo. Su questo Sircana ha ragione. Ma l’immagine di Prodi è durata poco e niente. Mi direte, prendi il sindaco di Roma, Veltroni, che sta provando da tempo a costruire un ‘immaginario’ tutto suo, un contenitore (abbastanza confuso) di immagini che frulla Platone e Kennedy, Chaplin e Robert Redford, l’America democratica e l’Africa dimenticata. Ebbene, anche nel caso di Walter non basta essere cool, girare l’Italia in tournee con le lezioni di politica in dvd edite da Luca Sossella Radical Chic Editore. L’‘impianto grafico’ e gli effetti speciali possono reggere finché si tratta di vincere le Primarie, se va bene le elezioni, ma alla lunga l’‘immagine’ fagocita i contenuti, la ‘forma’ si sostituisce alle idee.

    Sircana registra con superficialità che il marketing politico di sinistra, negli ultimi anni, sembra animato dagli stessi moduli espressivi, carismatici, populisti, tanto criticati durante il berlusconismo. Ma non s’interroga sul nuovo candidato destinato a succedere a Prodi, che non c’è, oppure è ancora invisibile, e per adesso rimane disperso nel brusio di voci, figure e volti dell’attuale maggioranza-minoranza.

  3. Prodi, andando via dal set con Mentana: “A me piace l’incontro a tu per tu. Non i talk show dispersivi in cui si è tanti sul palco ma ognuno si sente solo nello sforzo di sovrastare la voce degli altri”. Quindi meglio uno studio tutto mio in attesa della larga intesa. Quasi quasi viene da rimpiangere Vespa.

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