L’altare della specie, e altre
di Maria Grazia Calandrone
L’ALTARE DELLA SPECIE
Era facile amarla ma era destinata
ad andarsene frettolosamente e insieme ad aderire
a certi preparativi che gli indizi rivelano
meticolosi. Di pomeriggio si prendeva cura del giardino
in silenzio. Non capivamo quello che pensasse, era
tranquilla. Oppure
trafficava su un notes. Tutte le notti – rivestitosi
l’ultimo cliente – comprava un dolce per la colazione della madre.
Nell’acqua viaggiano i rifiuti e vengono
trattenuti a intervalli regolari dalla grata sepolta
nel buio e nel silenzio che si formano molti metri sotto
l’aspetto superficialmente aereo dell’acqua
che dipende dall’attardarsi del sole alla sommità come una lacca
democratica, un getto straripante di ottimismo
anche nelle orticaie disossate dall’urto delle fabbriche.
Si chiama strada del canapificio e porta
in una mescolanza di fanghiglia e zolla
resistente all’imprimersi del cascame animale alla centrale
idroelettrica – è un sentimento interrotto, una deriva dei continenti e dei relativi disastri sommersi
nell’isola del corpo che finisce
alla porta del grande casamento: c’è soltanto un custode e controlla
l’andirivieni tra le due parti d’acqua e fiamma serpentina o forse trasmigrazione.
La trovammo in uno strano abbandono
come se tutti scissi i legamenti:
quasi niente dell’acqua del canale
nessun cattivo pensiero
nessuna ironia
non una goccia d’acqua nei polmoni, neppure
diatomee – il corpo sostenuto da una luce critica
oltre il proprio abbandono – pulsava al sole come in preda a un’estasi.
25 ottobre 2004
NON AVRAI CHE LA VITA
Le scarpe non vennero ritrovate.
Ma la luce batteva coitale sul corpo della ragazza
cristallizzato nella testimonianza.
Tra gli occhi e il ventre
tracce di lavatoio – un percorso a ritroso per stabilire gli alibi.
Il portone risultò chiuso con molte mandate.
Ardeva come un’ostia nella materia
lacrimale del tardo pomeriggio – con il capo impigliato tra gli arbusti
e la pervicace ripetizione dei giri. Per cause sconosciute
non ha potuto compiere i suoi anni
qualsiasi funzione avessero singolarmente ma un immobile
addio alla bellezza del mondo
riscaldava la fibra che resiste
grido di gioia del corpo senza dolore.
FALSIFICAZIONE DELLA MORTE TRA GLI ANGELI TREMENDI
I
A sinistra (sedendo con le spalle al monumento) come l’elitra di una immensa cicala
lo strofinìo innocente e inflessibile del mare
sulla terra, una commozione maschile. Allontanandosi dal mare la sabbia risulta
inversamente proporzionale allo spessore dell’acqua che facendo la bava s’inclina
al radente spericolato vento
che tocca le tempie
dell’agnello umano, fatto uno
coi suddetti acquitrini
fomati dalle piogge e dalla recalcitrante marea
che altalenando
orbita intorno alle baracche.
Non abbiamo voglia
di ambientarci in questo sole, nella sua pena quieta, contemplativa
di altre crescite
religiose e plebee, la bocca piena dell’ipersensibile
crepa verbale, un sentimento che incoraggia alla costipazione dei resti sotto i sassi o a questo
bianco limitarci a essere
europei
a faccia in giù, immondizia sul litorale romano ma evocativa
del fondamento di Roma nel dio africano e nelle disgustate civili madonne caravaggesche.
Né della rosa né del suo colore africano sapeva l’insonnia di tutte le ossa e la bellezza
del corpo cacciatore di qualcuno
che forse ebbe cura
della tua pena e per questo
non usò le parole dei tuoi anni cattivi
né l’odore basale del suo corpo
per colpirti – con l’odio e l’amore di un figlio infinito (sempre
rinnegato, sempre
ricreato), il figlio per il quale si rifabbrica il mondo.
II – L’ESTASI E L’IMMANENZA
I tuoi pensieri erano un sonno asiatico, foreste
dove salvezza e disperazione
hanno l’odore della madre, il regno
e il fermento
malinconico e irremovibile delle colline
alla schiusa del tramonto
che asseconda il proprio ingoiamento da parte di lei
(la terra) sotto la costellazione del corpo vestito di blu liquefacente nella dolente delizia.
Documentiamo, molti anni
dopo, l’avvenuto macero
dei suoi temi di ginnasiale
in cambio dei punti offerti dal Comune
per una bicicletta. Così,
per farlo severamente sorridere.
La mattina era grande, elementare. La sassaiola,
il mantice, il ritorno del mare in fase di decollo
spingeva il sole tra le vesti ancora indossate. La scena
aveva tutta l’aria dell’arrivo
solitario e stremato di un campione, e il testimone
disse senti come brucia la faccia mia, come bruciava anemica e nebulosa e nera
su quella del fratello
del partigiano Guido Pasolini, sulla scriminatura dritta
dei suoi capelli da calciatore. In fondo
si tratta di piccoli movimenti
di terra, sbancamenti, maschi che dicono parole d’amore
puberale e violento tra i moschini dell’uva. Resta
questo calore, questa giustizia antartica, trascritta in piena luce da un amanuense
della passione, dalla sua tragica meravigliosa
dissoluzione in scheletro con tutta l’anima
a un passo dalla madre.
18 luglio 2003
Maria Grazia Calandrone è nata a Milano nel 1964 e vive a Roma.
Ha pubblicato il libro-premio Pietra di paragone (Tracce, 1998), La scimmia randagia (Crocetti, 2003 – premio Pasolini opera prima, cinquina premio Dessì) e Come per mezzo di una briglia ardente (Atelier, 2005 – terna premio Valeri), la silloge Illustrazioni in 7 poeti del Premio Montale 1993 (Scheiwiller, 1994) e altri testi in numerose antologie di premi e su riviste quali Poesia, Nuovi Argomenti, Le Fram, Gradiva. Compare in antologie pubblicate in Argentina (La realidad en la palabra) e in Venezuela (Caminos del Agua), in Fuori dal cielo (Empiria, 2006), in Almanacco dello Specchio 2006 (Mondadori, 2006) e in Nono quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2007). Ha composto una riscrittura in versi del Riccardo II di Shakespeare messa in scena nel Festival delle Gravine 2006 da Roberto Corradino ed è stata fra le interpreti del Desiderio preso per la coda di Picasso per Radio 3. E’ di prossima pubblicazione il volume La macchina responsabile (Crocetti, 2007).
Una lettura de L’altare della specie è disponibile sul PoDcast di PoEcast: http://www.poecast.it/podcast/ .
senza parole
“Dicevamo che era libera e nessuno era sincero
non l’avremmo corteggiata mai nel palazzo del mistero
nel palazzo del ministero.
E dove mandi i tuoi pensieri adesso trovi Nancy a fermarli
molti hanno usato il suo corpo molti hanno pettinato i suoi capelli.
E nel vuoto della notte quando hai freddo e sei perduto
È ancora Nancy che ti dice – Amore sono contenta che sei venuto”
Sono contenta che sei venuto”
bellissima
la funambola
Maria Grazia
queste tue poesie si infilzano come chiodi nella carne, i nodi cedono,
è commovente,
è come guardare e
VEDERE
al di là di una barriera.
Questi tuoi meravigliosi versi,
lasciano un segno profondo:
La trovammo in uno strano abbandono
come se tutti scissi i legamenti:
quasi niente dell’acqua del canale
nessun cattivo pensiero
nessuna ironia
non una goccia d’acqua nei polmoni, neppure
diatomee – il corpo sostenuto da una luce critica
oltre il proprio abbandono – pulsava al sole come in preda a un’estasi
“come l’elitra di una immensa cicala”.
però le cicale non hanno elitre, ma solo ali.
è solo un parere pro veritate, nient’altro.
se è per quello non sono neanche immense – non possiamo controllare gli effetti delle mutazioni genetiche!! grazie – grazie per l’affettuosa lezione di entomologia, per l’azzeccatissima citazione, per il vedere del quale parla carla
si cerca di parlare del mondo per nominarne l’ultrasuono, no?
affronto la giornata arricchita dalle vostre parole
un abbraccio
maria grazia
@maria grazia
(al di là del valore dei tuoi versi, sul quale non mi pronuncio)
sapevo che avresti pensato quello che dalla tua risposta si vede che pensi: ecco il solito pedante che non ha capito che nell’enfasi metaforizzante della poesia tutto è permesso e mi rompe le palle con questa cosa delle elitre e gli risponderò prendendolo garbatamente per il culo dicendogli massì massì lo so bene, se è per questo nemmeno le scicale sono immenze, era una petafora, se non capite niente di poesia astenetevi perfavore, eccetera, concludendo con una frase molto poetica e anche un po’ intimidatoria del tipo: “si cerca di parlare del mondo per nominarne l’ultrasuono, no?”
dico “del tipo” intendendo il tipo di proposizioni che non significano nulla ma che suonano “profonde”, il tipo di frasi che compongono volentieri l’immensa massa del kitsch che gravita attorno alla poesia e non solo.
(adesso lo so che tutti i vibratili poeti di NI si risentono e mi insultano, ma vabbè)
ho scritto “petafora” invece di “metafora”, senza intenzione alcuna.
chiedo scusa.
tashtego
sarebbe invece giusto che tu ti pronunciassi sul valore dei miei versi perché presumo di quelli si debba parlare
ti assicuro comunque che le ricerche storiche e scientifiche che accompagnano la mia scrittura sono molto accurate
dunque non ti ho affatto preso in giro
la mia ultima frase era rivolta a carla che dice di percepire un altrove e non contiene alcun tono intimidatorio, bensì la gioia della condivisione di una esperienza per me laicissima e profondissima e continuativa che evidentemente tu non provi ma non per ciò dovresti dire che è robina da rivista femminile
non so chi sei, non so se scrivi certo però non penso che la poesia sia un genere “per intenditori” dunque accolgo ogni tua curiosità purché non mossa da un gratuito spirito polemico
ps) in genere io non uso parolace nemmeno nei pensieri è un’educazione che ho tratto per me stessa dal dover educare un bambino dunque ritieniti al sicuro dall’essere insultato dalla sottoscritta!
maria grazia
sei al sicuro Tash….
fidati!
scusa tash se mi prendo la confidenza :)
ma tè sei proprio un rompipalle per natura o lo divenisti? :)
che ti fece la vita? che ti fece? :))))
mi permetto inoltre di pensare che le parolacce siano contemplatissime nell’educazione di un bambino, che mica siamo fatti de fero nè :)))
la “poesia” non è per addetti ai lavori perchè la vita non è prerogativa di pochi, ahimè, ahinoi,ahivoi.
sempre baci e sempre poetici, altrimenti, che baci sarebbero?
la funambola
@maria & carla
mi sento perfettamente al sicuro.
“ti assicuro comunque che le ricerche storiche e scientifiche che accompagnano la mia scrittura sono molto accurate”.
in questa frase c’è della palese ironia.
l’esattezza è tutto, ma in fondo sono affari tuoi .
forgheddabbaudidda.
@la fu
tu che frequenti le mie modeste compilazioni scrittorie, dovresti già sapere di cosa parlo.
però in due parole voglio palesarti (inutilmente e senza riferirmi alle poesia qui sopra) una sensazione che ho da qualche tempo: le scritture che leggo, qui e altrove, quasi tutte, sembrano frutto di un processo trasformativo da fiction a fiction senza passare per la “realtà”.
è così anche per la poesia che procede da poesia a poesia senza risciaquarsi nel “reale” e tentare davvero di dirlo.
c’è come una smania di farsi subito poesia, anzi di essere immediatamente riconosciuta come tale, col suo bravo mood di accompagnamento.
c’è come una specie di: mi si nota di più se scrivo una sequenza di parole assonanti, se scrivo roba prosastica alta, se faccio sonetti neoscespiriani, o cos’altro?
il tutto produce nel lettore una sensazione di non-utilità, di rimescolamento, di delusione per il non detto che si potrebbe dire, per la mancanza, in queste cose scritte, dei nostri giorni, così difficili e terminali.
ehi tash, terminale sarai tu :))
Per il resto mi rubi le parole di bocca, me le rubi spesso devo dire.
La sensazione di non utilità permea la mia vita.
Il “dire” aver qualcosa da dire passa solo attraversa la consapevolezza della necessità.
Ti posto una cosa che scrissi.
Un foglio bianco e una possibilità, una possibilità di inchiodare una verità.
Prenderla finalmente e trattenerla con delle parole.
Le parole sono trappole ma possono essere la trappola della verità.
Le parole per dire ci hanno spesso tradito, ci hanno spesso abbandonato, ci hanno spesso mortificato, ci si sono rivoltate contro.
Parole per tradirci, per confonderci, per nasconderci, parole paurose.
Ma ci sono parole che a volte fanno il miracolo, afferrano l’inafferrabile.
E sono le stesse che usiamo per non dire nulla o per nasconderci in esse.
E sono lì, tutte lì ad aspettare di essere viste.
…non è la “ rivelazione” che attende ma i nostri occhi non ancora pronti…
“Noi, che stimiamo lontano quello che si può avere anche se in mezzo si stende il tramonto
e stimiamo vicino ciò che standoci al fianco è più lontano del sole”.
Scrivere non può che essere questo.
Quello che ho virgolettato.
Altrimenti, è parlare, usare parole per rispondere ad urgenze, le urgenze della vita.
Dovremmo pretendere di Scrivere, tutti dovremmo allenarci a farlo.
Dovremmo pretendere di leggere tentativi di “onestà”.
E la nostra biblioteca resterebbe meravigliosamente semivuota.
con tanto spazio per il nostro “dire”, e l’incredibile possibiltà di Scriverci, ogni tanto, nel mentre ci parliamo.
e anche
Bisognerebbe parlare solo di quello che si sa, bisognerebbe astenersi su tutto quello che non si sa.
Ecco, calerebbe un silenzio benefico, salutare, un silenzio sano, un silenzio dapprima assai imbarazzante, poi un silenzio pieno, e da quel silenzio forse si potrebbe ricominciare a comunicare.
Cosa so io?
Cosa posso raccontare?
Cosa posso dire?
E cosa mi preme dire?
E di cosa mi servo per dire?
Ma cosa serve sapere?
Ma a cosa serve dire?
E poi, quel poco che so a chi serve?
Pasolini mi pare che dicesse che la morte non sta nel non poter comunicare, ma nel non essere più compresi.
E quando non sei più compreso significa che ti spieghi male? che non trovi le parole per farti capire?o che il tuo sentire non trova più corrispondenza in nessuno?
Si sta modificando qualcosa in me.
Sto in compagnia, rido, faccio le battute, intervengo, ascolto e osservo:
osservo gli sguardi, i gesti, le labbra, e mi sembra tutto finto.
E tutto parla di noi, di noi che non diciamo niente di quel poco che sappiamo ma ci arrabattiamo a dire tutto quello che non sappiamo.
E quello che non sappiamo lo spieghiamo , lo difendiamo, lo argomentiamo, lo enfatizziamo, lo difendiamo…..
E non sono più curiosa. che non vuol dire che mi annoio, no, non è noia, è stanchezza.
Ma l’altra sera Samba ha detto una cosa che mi ha stupita.
Giocavamo a carte, a briscola chiamata che è un bel gioco intelligente e infatti io sono arrivata a totalizzare meno 12 e reclamavo un altro giro per arrivare a meno 13, così, perché pensavo all’ultima cena .
Ma samba mi ha detto che in quel convivio c’erano solo 12 persone perché gesù era in tutti gli apostoli, anche in giuda, e che mi tenessi insomma il mio vergognoso ma simbolico meno 12
E questa osservazione, chissà perchè mi ha illuminata e mi ha rimesso in pace con quella serata.
Poi però ripensandoci a casa, prima di addormentarmi, ho convenuto con me stessa che all’ultima cena ci fosse solo un invitato, che ci fosse soltanto Lui insomma, perché 13 meno 12 fa uno.
un bacio vanitoso, sì, che brutta bestia la vanità!
la funambola
dottor tashtego carissimo, le consiglio una breve quanto ritemprante vacanza. passeggiate, cibi sani, nessuna lettura. e per favore segua la vecchia cura farmacologica: cadeverilene malmostato 0,50 mg al dia.
@funambola
grazie per aver postato la cosa che scrivesti, dove però faccio fatica ad assimilare la parte della briscola, dell’ultima cena e dei dodici apostoli con gesù dentro.
sarà perché sono ateo?
Semplicemente belle e intense.
sarà perchè io sono meno vanitosa di lei indi per cui mi dichiaro semplicemte agnostica…sarà che sono fondalmente buona, sarà quel che sarà, io la per dono per la sua incapacità di afferrare o assimilare un gioco semplice eppur complesso quale è la briscola chiamata, con tutti i suoi significati reconditi e il due che prima o poi ti spiazza come un giuda sempre in agguato, ma con il quale ci devi fare i conti, sarà che lei mi è molto simpatico, sarà che la matematica non è un opinione ma chi l’ha detto, sarà che è bello lasciarsi andare a suggestioni senza voler per forza classificarle, sarà che è confortante sentirsi accolti senza dover dimostrare, sarà…può essere che io la baci senza consoscerla? :))))
serenità a lei
la funambola
mai baciare chi non si conosce, soprattutto mai farlo in pubblico.
è una delle prime cose che mi ha insegnato la tata.
mi interessa il processo mentale che può aver generato la formula: ateismo=vanità.
non lo so spiegare :)
no dai, ce la so, ce la so, è che non ho voglia di far lavorare il mio unico neurone che oggi è sabato e lui è già in festa.
però dovrebbe essere semplice e centofanti potrebbe soddisfare questa sua legittima curiosità, meglio di me.:)
a me mi ha illuminata una formica, pensi un po’, una piccola formica che trasportava un carico sei volte più grande di lei e se ne andava sicura, sicura per la sua strada, se ne andava ostinatamente verso un posto che lei sapeva, che lei doveva conoscere benissimo visto l’ostinazione che metteva nel superare gli ostacoli che io, sadicamente, frapponevo al suo “andare”;
incurante e temeraria sembrava “conoscesse” perfettamente quello che doveva fare e aveva fretta di farlo.
ogni cosa su cui posso lo sguardo in verità, mi mette davanti ad una perfezione quasi feroce che disarma la tentazione di negare una “cosa” talmente evidente, seppur “impalpabile” seppur “invedibile” sepur “indicibile” …
“non sono mai riuscita a capire come coloro che un giorno intuiscono l’orologeria universale possano negare l’orologio nella cui esistenza ha creduto persino Voltaire” (pessoa nè, mica io)
dichiararsi, sentirsi “agnostici” ha a che fare con l’umiltà, e gli assoluti, sia in negativo che in positivo, non si sposano con essa.
credere o non credere sono entrambe/i? atti di fede, non le pare.
l’uno poggia sul bisogno e su una presunta “superiorità” rispetto a chi non è stato baciato dalla fede, e in quanto tale cela una vanità, come dire, più subdola.
l’altro su una forma di vanità più orgogliosa che se non è mediata dalla compassione è sterile perchè disperante.
rimanere nel dubbio, nella possibilità ci fa molto più umani, io credo.
signor tash, io non ho avuto tate e anche la mia mamma era un po’ impegnata per cui mi perdoni se la bacio spudoratamente in pubblico :)
la funambola
eh si, mi trovo in accordo (spesso… è preoccupante?) con tashtego.
sovente leggo qui, ed altrove, versi che di primo acchito sembrano “belli” e poi mi accorgo di non ricordarne neppure uno: qualcosa non torna, anche se probabilmente è colpa della mia scarsa dimestichezza con le cose letterarie.
capisco che come “critica” sia alquanto debole, ma nei posti pubblici capitano ovviamente tipi di ogni risma, legittimati a lasciar note al pari dei frequentatori con pedigrè, e capisco anche che il parlare a tutti sia cosa impervia.
nel mio “povero” blog il sottotitolo mi pare sia “acqua su aria”, cioè niente: come spesso, vivendo e facendo, accade.
‘notte
mario
Ho studiato professore, senta un po’ qua.
“…ugualmente tragico è il caso del poeta. Chiuso nel recinto della propria lingua, scrive per i suoi amici, per dieci venti persone al massimo. Il suo desiderio di essere letto non è meno imperioso di quello del romanziere improvvisato. Se non altro ha su di lui il vantaggio di poter piazzare i suoi versi sulle piccole riviste dell’emigrazione che si pubblicano a prezzo di sacrifici e rinunce quasi indecenti….Sono tanto bravi come poeti, quanto cattivi come prosatori e ciò per motivi abbastanza semplici. Esaminate la produzione letteraria di un qualsiasi piccolo popolo che non ha la puerilità di forgiarsi un passato( che genio!): la grande quantità di poesia è la sua caratteristica stupefacente.
Per svilupparsi la prosa richiede un certo rigore, uno stato sociale differenziato e una tradizione: è premeditata, costruita; la poesia “sgorga”, è diretta, oppure totalmente artificiale; appannaggio dei trogloditi (ed io qui non ci sto perchè sono compassionevole, ma tant’è, io sono una donna e sono avvantaggiata: io partorisco, io faccio il miracolo) e dei raffinati, non fiorisce che ai margini della civiltà, la precede oppure la segue.
Mentre la prosa esige un genio maturo e una lingua cristallizzata, la poesia è perfettamente compatibile con un genio primitivo e una lingua informe.
Creare una letteratura significa creare una prosa.
Non è naturale allora che tanti non dispongano di nessun altro modo d’espressione eccetto la poesia?
Anche quelli non particolarmente dotati, nel loro sradicamento, attingono all’automatismo della loro eccezione quel sovrappiù di talento che non avrebbero mai trovato in un’esistenza normale (sublime, ammetto, questo passaggio)…….e poi la fa un po’ lunga e interessantissima è che mi fanno mali i ditini…. e riprendo da qui “…un pericolo minaccia il poeta sradicato: quello di adattarsi alla propria sorte, di non soffrirne più, di COMPIACERSENE.( splendido!)
Nessuno può salvare la freschezza delle proprie pene (subliminissimo); le pene si consumano.
Così avviene per il mal di patria, per ogni nostalgia.
I rimpianti perdono lo smalto, essi pure avvizziscono e, al pari dell’elegia, diventano presto desueti.
Che cosa allora di più normale che stabilirsi nell’esilio, Città del Nulla, patria alla rovescia?
Più si compiace, più il poeta dilapida la materia delle sue emozioni, le risorse della sua avventura, così come il suo sogno di gloria ( che è quello/a che gli fa lo sgambetto chè la vanità non ha mai, mai pagato)………e altre sublimi considerazioni che sono comunque meno sublimi delle seghe mentali, quando sono sublimi, le seghe, né.
Poi però,
io che sono semplice mi chiedo: macchemmefregaammmè se una poesia è alta, una è bassa, una è mediocre, una falsa, una è poesiocola. Chemmeffegaammmmmèèèè.
Dietro una poesia, dietro un raccontare, dietro uno scrivere, dietro ognuno di noi , insomma, c’è un uomo, una donna con tutte le sue piccole e grandi miserie, le stesse in cui navigo anch’io, navighiamo tutti a vista, e il parlare e lo scrivere non sono altro che tentativi per comunicare,per comunicare la nostra paura, la paura del nulla, la paura di non lasciare nulla di noi
(come se dovessimo lasciare qualcosa: a chi? A chiii? Quello che dobbiamo lasciare, lo dobbiamo lasciare adesso, subito, qui, ora, a chi ci sta a un tiro di sguardo cazzo, mica ad futuro, eterno,
Non sappiamo pensare e stare in un presente, l’unica certezza, anche se fragilissima e in continua dissolvenza, non “ci stiamo dentro” in tutti e due i sensi.
Tentativi di essere,tentativi di esistere, la nostra vita viaggia per tentativi.
Mettiamocelo nel capoccione :)
Alcuni saranno tentativi più nobili, altri meno nobili ma chi sono io per “giudicare”?
Posso solo compiacermi allorquando mi specchio e “con divido” quelle parole , quelle parole che mi fanno sentire meno sola, che mi fanno sentire un’appartenenza, mi fanno sentire di appartenere a qualcosa che allora esiste, se qualcuno, è riuscito a comunicarmi questa “fiducia”.
Posso solo, se sono fortunata, sentire un piacere, una “delizia” , un calore, due braccia materne che mi avvolgono, sì mi avvolgono ed io sento che quella è “casa” ( come lei, emili, per me, nessuno mai)
E quando questo non succede, pazienza, ma apprezzo lo sforzo se “intuisco” che dietro quelle parole c’è “onestà” e “indulgo” sul resto.
Quando non succede né l’una, né l’altra cosa, tiro avanti o aspetto se mi pare che l’aspettare ne valga la “pena”.:))
Signor tash, io gli ho attaccato una bella pezza nè, ma lei sia indulgente con me, non mi tratti male che io son delicata come un fiore :)))
ma, per la proprietà transitiva, se F ama M e M ama T, F ama T?
Così, per non sentirmi in colpa che la matematica qui non è un’opinione
cordiali saluti
la funambola