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Venuto per uccidere

pigeon.jpgdi Valter Binaghi

La notte è una di quelle calde, che stancano il sangue nelle vene.
Si vorrebbe dormire ma non si può. E allora è buono tutto in tv.
B movies, repliche di Star Trek, televendite di pentole e gioielli egiziani.
Una donna si alza dalla seggiola sul balcone, nella casa di fianco.
Nemmeno ti eri accorto che c’era.
Lei di te si, ma non si è allarmata vedendoti, perchè ti conosce.
Prendeva il fresco, come si dice, ma qui fuori ci sono solo zanzare.
Così ora si è alzata e andrà a dormire.
Ha una vestaglia leggera, si vede tutto.

Nelle case vicine la gente è ancora sveglia, e anche in questa.
Un uomo si aggira furtivo nel giardino, spiando le voci nella camera, da sotto il davanzale. Sei tu, e questa è casa tua. Perchè non entri?
Intorno le cose, alberi e non solo, che conosci a memoria, dall’infanzia.
Il giardino, teatro dei tuoi giochi, l’universo raccolto dove imparasti a vivere.
Non puoi entrare all’improvviso: ti credono all’estero, rimarrebbero male.
Tua moglie e l’altro, là dentro.
Tu prendi tempo, sai che ce n’è.
Ti credono all’estero, l’amante di tua moglie dormirà qui.
Sei venuto per uccidere, in questa casa, dove ti nascondevi tra le gonne di tua madre e ti arrampicavi sul ciliegio per controllare le uova nel nido dei merli.
E improvvisamente ricordi che non sarebbe la prima volta.
C’è già un cadavere nel tuo giardino.
E’ sepolto lì, sotto il cespo d’ortensia.

Lo trovasti tu, e il nonno ti aiutò a ripulirgli la ferita.
Era un piccione gonfio e spennacchiato, ma a te pareva bello.
L’occhio stupido e grande, spalancato sull’incomprensibile dolore del mondo.
Ti diede l’emozione di un compito, o addirittura una missione.
L’avresti salvato, ne avresti fatto cosa tua e addestrato da piccione viaggiatore, per le grandi avventure che, compiuti nove anni, certamente ti attendevano.
Lo curasti, lo accudisti per giorni, imboccandolo ogni volta, e tremasti di gioia quando di nuovo lo vedesti reggersi da sè sulle zampe.
Ma era un fuoco di paglia: tornò a deperire.
Il nonno passava ogni tanto, guardava il piccione e poi te, e scuoteva la testa.
Un giorno ti disse: – Soffre inutilmente –
Ma tu non volevi darti per vinto. Come potevano le tue cure, la tua ragionevole speranza, il tuo amore, risultare inutili? L’avresti salvato, senza dubbio.
Moltiplicasti gli sforzi, bocconi prelibati, paglia pulita ogni giorno per giaciglio.
Giorno e notte pensavi a lui, e non riuscivi più a dormire.
Ma era un delirio il tuo, e lo capisti un pomeriggio, di ritorno da scuola, vedendo l’occhio enorme contro il cielo, e la ferita brulicante di vermi.
Mentre il tuo giocattolo ti fissava con la pupilla congelata del puro orrore animale, qualcosa ti cadde dal cuore. Avevi in braccio un essere remoto e perfino ripugnante, e ignoravi tutto di quel dolore chiuso in una mente afona.
E proprio tu eri il suo carnefice, con la tua ostinazione a tenerlo in vita.
Così fosti tu stesso a ucciderlo, con il coltello da campeggio.
Quelli a tre lame, col cavatappi e tutto.
Lo sgozzasti d’un colpo, come avevi visto fare dai pirati del cinema.
E fu un sollievo sapere che eri solo una vita, una vita tra le molte miriadi, forme estese o larvali di coscienza, ciascuna delle quali ha un conto aperto con Dio.
Un conto pesante a volte. Ma non eri tu quel Dio.
Potevi lasciarlo andare, il tuo piccione, dov’era giusto che andasse.
E il mondo intero anche, potevi lasciare andare, come le nubi che porteranno acqua altrove anche se non si fermano a bagnare il tuo campo.
Avevi il cuore a pezzi e piangevi senza rumore, ma proprio lì, nel giardino, uccidesti il tuo piccione. Lo facesti perchè non c’era nient’altro che tu potessi fare. E con quel taglio recidesti per sempre il filo della tua infanzia.

Il coltello che hai oggi è diverso: è un’arma vera. Sei venuto per uccidere.
Un coltello a serramanico, un palmo di lama, procurato per lei.
L’hai portata in questa casa, come in una reggia. Ma non le piacque, da subito.
Troppi ricordi qui dentro, e solo tuoi.

Così adesso il coltello resta nella tasca.
Mentre i due là dentro ridono e si amano, ti allontani in silenzio come sei venuto.
La notte è sempre calda, soffocante, il sangue nelle vene dei pochi dormienti lo immagini denso e dolciastro come il mosto, come la palude.
L’auto accucciata, come un cane addormentato. Anche tu dormirai, finalmente.
Lei si chiederà perchè non torni, tra qualche giorno. Poi capirà.
Brucerà le tue lettere, e darà in parrocchia i vestiti che le hai regalato.
Tranne quello rosso. Le piace tanto, perchè buttarlo?
Non potrai mai dimenticarla, come del resto il tuo piccione.
Ma la memoria è la terra dei morti, mentre la vita è ciò che non puoi immaginare.
Se rinunci a pretenderla, conoscerai la gioia.

[Pubblicato in Lama e Trama3, Editrice Zona, 2006]

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9 Commenti

  1. Quando sono arrivata al punto:

    “Un uomo si aggira furtivo nel giardino, spiando le voci nella camera, da sotto il davanzale. Sei tu, e questa è casa tua. Perchè non entri?”

    ho pensato alle volte che l’immaginario colpisce, con la sua impressionante imprevedibilità, la nostra vita ignara; a come può sconvolgerla, scuotendone i ricordi, a come può spalancarci di colpo una nuova soglia!
    Il finale è una sentenza, fa pensare…

    – La gioia –
    Se posso, cito le parole di una persona che l’ha descritta degnamente, e tu Valter, ti avvicini a questo senso…

    La gioia è una scintilla, nasce dalla grazia – Amore di dio – è luce interiore e silenziosa.

    e quindi non pretende, è già in noi, con tutta la sua umiltà.

    Grazie per questo racconto, che tanto da…

  2. Grazie a tutti

    @ precisino

    minchia, non ci avevo pensato!
    A lui, chiaro. Ma adesso si sente molto signore e le regala anche quella.

  3. Quando le campane del Duomo (qui in quel di Firenze) risuoneranno a festa, vorrà dire che al Joe Jannozzi è piaciuto un racconto !
    O no ?;o)

  4. @ BARBARA

    No, alcune cose mi sono piaciute. Delle poesie, di Antonella Pizzo. Ho anche portato i miei complimenti.
    Quindi le campane a festa dovresti già sentirle, cara Barbara. :-)

  5. Hai ragione, Joe..
    Ti erano piaciute le poesie, sorry.
    E’ che c’hai ‘sto modo di ‘opinionare’ senza appello, chè mi lascia un pò interdetta..
    Bye Bye

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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