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mare / mare

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foto di Beniamino Servino   servino.JPG 

di Davide Vargas

è morto anche il mare
(Garcia Lorca)

26 dicembre 2006
Trentola – Ischitella – Baia Verde – Mondragone
ore 10 – 14
temp. 15°
 

Una nuvola di polvere sollevata dagli autotreni rimane sospesa nell’aria biancastra.
Quando ricade sulla malerba dei cigli, ricoperta da un telo di plastica nero appare immobile la lunga massa della discarica.
L’auto la costeggia e non finisce mai, sarà più di un chilometro, una striscia di pennarello tra la campagna e il cielo, spessore quattro metri, forse cinque, forse sei.
Dove batte il sole il colore della plastica si trasforma in antracite, le pieghe del telo si accendono di striature argento come onde del mare.
Viene in mente il mare di Fellini per il Casanova, mare in tempesta, acque minacciose, teloni di plastica smossi da ventilatori nascosti e frustati da luci artificiali. Per uomini in parrucca e barche di cartapesta, realtà falsa e tutto più vero.

Più avanti, proprio in fondo, all’altro capo, c’è il mare vero, quello che resta del mare: una verità contro una rappresentazione. Ma la verità del mare d’acqua e dei suoi abissi è stata ridotta a rappresentazione tragica e allora forse la rappresentazione di spazzatura e plastica è la verità.

La macchina prosegue nella polvere acre, incrocia autotreni giganteschi, il puzzo di nafta stringe alla gola, la massa nera della discarica è così vicina e nello stesso tempo così irraggiungibile.
La polvere, i miasmi, i camion uno dietro l’altro, tutto diventa insopportabile.
Le solite puttane nere aspettano e ammiccano, hanno maglie colorate e borsette a tracolla.
Qua e là alberi da frutta, nutriti dai suoli putrefatti dai liquami.
Una sensazione di pericolo innerva il luogo e si appiccica addosso come un mastice.
Nella luce di questo giorno limpido vengono in mente immagini notturne, distese oscure che si attraversano piegati o qualcosa del genere.
Non è questo quello che cerchiamo oggi.

Andiamo verso il mare.
La macchina avanza su una strada dritta tagliata da uno spartitraffico e costeggia un’inferriata alla ricerca di un varco.
Non c’è distrazione, e nessun varco per ora.
Una luce metallica si insedia sulle cose.
La memoria spinge per riportare in superficie immagini di automobili di altre epoche cariche di secchielli e bambini incollati ai vetri in gita verso lidi dai nomi augurali e il pensiero imbarazzato si aggira tra il presente.
Forse questa desolazione. Forse questi edifici tracotanti piantati ai lati della strada, sui bordi di sabbia, a ridosso delle pinete. Forse queste puttane nigeriane ferme sul ciglio. Forse questa violenza. Forse questo squallore. Forse tutte queste cose chiedono di essere raccontate, ma il pensiero nega, perché non è questo il punto, assolutamente no.

Andiamo avanti verso qualcosa di più immune.
Finalmente fuori dell’abitacolo, i piedi imboccano un taglio nella lunga striscia di pineta e sabbia nera, percorso incastrato tra recinzioni di lamiera e reti – e noi siamo al di qua o al di là?…quale è lo spazio inaccessibile? – , percorso impresso delle orme di uomini e cani, copertura di sottosuoli combustibili, percorso che si perde sotto una duna allungata come una barriera.
L’orlo di mare si mostra davanti e distante come un lembo di frontiera.

Andiamo avanti.
Andiamo tenacemente avanti, la macchina, le braccia, i pedali puntati verso il punto in cui la rappresentazione si rapprende – deve pur esserci -, e si fa accento, due punti e racconto della condizione, il particolare che svela le ragioni del narratore, l’indizio nascosto che smania per essere decifrato, il dito puntato, la parola che dice delle nostre strette interiori, la figura omologa di un bisogno imprecisato che si confonde dentro di noi.
Questo in fondo cerchiamo: di leggere l’informe dentro noi stessi. Un pezzettino, soltanto, quello che oggi, in questo frammento di giornata, vuole venire fuori.

Andiamo avanti agitati, ingombri di scorie di immagini vuote, con le domande aperte.
Il paesaggio di mare scorre a lungo inutile.
Il pensiero è stanco ed è questo il momento: la coda dell’occhio trattiene per un secondo di troppo l’immagine laterale.
La macchina si arresta. E’ il segnale, come quando uno soltanto riconosce in una macchia d’inchiostro o nella nuvola spumosa o nell’ombra compatta l’inequivocabile sagoma di una creatura vivente e si sorprende che nessun altro lo veda.
In un’aria immobile che risale agli inizi lontani, l’accumulo di immagini svapora e il cemento affiora dalle capsule dei cisti senza aromi, come avanguardia di un futuro perso.
E’ solo un muro di cemento, il colore della polvere e della sabbia, che corre basso, quasi a pelo di sabbia, come la cucitura di una ferita, e corre dritto verso il mare.
Muro che separa due opposti scenari, da un lato il taglio dell’acqua nella sabbia, dall’altro un’ombra scura che si modella sulla duna.
Muro che separa e basta.
Come fanno a volte le parole degli uomini.
Muro che si sbreccia. Opaco. Tagliente come una linea.
Muro che taglia e basta.
Tutto qua per la vista, ma è un rimbombo di schegge inafferrabili.
Muro che deraglia in punta e non osa finire nel mare.
Tuffarsi nel mare.

spina.JPG foto di Luigi Spina spina.JPG

 

 

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25 Commenti

  1. Bellissimo, e non ho parole da aggiungere.
    Grazie a Davide (che non conosco) per averlo scritto.
    Grazie a Gianni, per averlo postato.
    Ciao
    Giò

  2. Mentre leggo cerco il mare, anche se le parole di Lorca già mi dicono che non lo troverò, ma seguo lo stesso l’autore nella ricerca, poi arrivano le parole “Muro che separa e basta. Come fanno a volte le parole degli uomini” e l’amarezza di tutto il racconto, l’amarezza mia e di chi scrive graffiando si arresta sul bordo, su quel muro di confine che spunta le unghia fermando il graffio, ché la stupidità, l’arroganza, l’insulto che si fa alla natura è irrimediabile. E poi l’autore chiude con quel tuffarsi nel mare, che è annegare ma anche purificare. Bellissimo questo racconto. Lucia

  3. “Andiamo avanti agitati, ingombri di scorie di immagini vuote, con le domande aperte.”
    Così è la vita oggi, in questo tempo arido di piogge, rappresentazione cinica di ciò che inesorabile divora, il nostro mare, per mano nostra….

  4. In quella striscia di terra descritta nel pezzo una famiglia di costruttori, i più importanti della Campania, che Saviano conosce bene, sta riversando decine di miglia di metri cubi di cemento e la Regione li sta pure sovvenzionando. Il quella striscia di terra esiste un campo da golf a 18 buche e la stessa famiglia, che si occupa anche di grandi alberghi e turismo, ha costruito hotel di lusso per ospitare appassionati golfisti provenienti da tutto il mondo. In quella striscia di terra sorgerà uno dei porti turistici più grandi del sud Italia, al posto delle torri abbattute dalla Regione Campania. A pochi chilometri da quella striscia di terra, zona San Marco, sta sorgendo il centro direzionale ed è da poco stato inaugurato un faraonico complesso alberghiero ( una hall di 3500 mq ) della catena americana Crown Plaza, presenti politici e istituzioni, tutta la cupola campana. Nel centro direzionale andranno a occupare locali in fitto gli uffici della Regione e della provincia nonchè tutte le eltre funzioni pubbliche. A pochi chilometri da quella striscia di terra sorgerà l’aereoporto di Grazzanise costruito da un consorzio di imprese capeggiato sempre dalla stessa famiglia che ha edificato, in zona, la cittadella Nato.
    Una sola famiglia, un solo cognome, sempre lo stesso. E non si chiamano nè Schiavone nè Bidognetti.

  5. caldo saluto? carla bariffi… prima tashtego, ora biondillo. che faccio, volto la testa e vado via, accendendo una marlboro 100 e guardando fisso l’orizzonte vuoto che mi attende? (non dica sì, la scongiuro; piuttosto, il silenzio).

  6. o meglio….può essere anche vuoto ma a me non piace vederlo vuoto!

    Tornando a mare/mare….
    non si possono raccogliere firme?
    è una vergogna!

  7. beh, carla bariffi: il mio lo è. e sa che le dico? mi accendo un’altra marlboro 100 e affronto quel vuoto. sì, carla bariffi, senza di lei. all’orizzonte solo nullifici fumiganti uno via l’altro, fabbriche di niente. e il mio futuro tarato sul nulla della fine.

  8. bhè lascia un senso di nausea e disgusto della vita reale, ma si coglie la ricerca di qualcosa di pulito di un sogo che sembra tanto lontanoo….. il mare, l’abisso,…… l’infinito!

  9. racconto visivo ancor più che letterario; bella sensazione di osservare e pensare attraverso lo sguardo che percorre il paesaggio da un finestrino di macchina; sensazione che le parole scritte traducano quello sguardo. E solo dopo vengono i pensieri.

  10. … è il vuoto di una città senza gente. di una terra senza uomini. mi giro intorno, ci sono delle tracce. quindi ci devono essere. ma non li trovo. come il sito archeologico dell’homo aeserniensis. lì sono riusciti a datare a 750.000 mila anni fa la presenza dell’uomo. hanno trovato di tutto, utensili, avanzi di fuoco fossile, quasi l’odore…ma nulla, nemmeno un ossicino dell’homo.
    e qui è lo stesso. ti accorgi che l’uomo è passato, ma non lo vedi. e ti senti solo. mi sento solo.

  11. DAVIDE VARGAS
    scrive bene, molto
    determina cortocircuiti
    tra immagini e sensazioni
    posso aggiungere
    mie vecchie parole……..
    TERRE LONTANE
    Camminare il tempo
    verso la terra
    dell’abbandono…
    città a ferragosto
    chi non ha mai bevuto
    questa torrida estate
    di carta?!
    Turista immaginario
    nella provincia
    dell’impero
    passioni allo specchio
    polveri d’amore
    un look senza respiro
    oggetti del desiderio
    il Re senza pane
    l’altra metà dell’oro
    rime della luna
    non avrete mica perso
    il filo?
    viaggio al centro,
    quando finisce il progresso,
    dell’ignoto

  12. C’è un senso del sacro che sopravvive, che sembra annidarsi in forme divenute ormai puramente interiori.
    Ci si chiede: quanto a lungo le “forme interiori” possano sopravvivere senza ancorarsi a forme vere, alle cose, al mare… senza dissiparsi…
    Scrivere appare essenziale.
    Scrivere mi sembra, per lo scrivente, un modo per sollecitare un’angoscia sollecita…. in sè stessi e negli altri…
    un’angoscia, direi, progettuale.

  13. Bello quanto doloroso.
    Più che un racconto è un tracciato di realtà, un percorso tortuoso e corrosivo, da crampi allo stomaco.
    Sento viva l’atmosfera del territorio attraverso questa scrittura, le distanze, i limiti, la separazione…tutto è netto e definito, ma paradossalmente i confini sono labili e disegnano tante realtà.
    Realtà difficili come questa terra, terra di confine, che assume molteplici discordanti forme.
    dove siamo, siamo stati, saremo, mentre tutto ciò accadeva e ancora accade?

    “ e noi siamo al di qua o al di là?”

    Un percorso di immagini e sensazione che senti sulla pelle, sotto la pelle, per chi come me vive questa realtà.
    È tutto qui? È solo questo che possiamo offrire?

    “Andiamo verso il mare.”
    “Andiamo avanti verso qualcosa di più immune.”
    “Andiamo avanti.”

    Mi viene in mente Kerouac
    “c’è sempre qualcosa di più, un po’ più in là…non finisce mai.”

    …Come la discarica.

  14. Davide Vargas ha scritto “un” racconto.
    Io l’ho letto e poi ho avuto freddo al petto.
    Quel freddo secco che viene dentro quando torni in un luogo d’infanzia che non ti va di vedere.
    E poi ricordi troppe cose; tutte brutte. Non puoi farci nulla, perchè la mente così funziona: finge di dimenticare.
    Poi, anni dopo, presenta il conto…e tutto è chiaro agli occhi.
    Chiaro come quelle foto in bianco e nero dove la dualità cromatica afferra ogni dettaglio.
    Oggi rileggerò a lungo a questo racconto; forse m’incazzerò ancor di piu’.
    Poi dopo l’incazzatura sarò meno triste. Perchè se è vero che la scrittura non può incidere sulla realtà è ancor più vero che la scrittura può fotografare la realtà. Una realtà che NESSUNO di noi può sentire lontana.
    Grazie di cuore a Davide per aver “Fotografato” con la sua scrittura(FOLGORANTE…unica parola che vedo idonea) un pezzo di realtà.

    Mario S

    fol|go|ràn|te
    p.pres., agg.
    3 agg. CO fig., che si manifesta improvvisamente e con forza, suscitando grande impressione: amore f., idea f. | che colpisce profondamente, che desta stupore: una bellezza f.

  15. grazie.
    Per me che faccio un altro lavoro (architetto) sono riscontri importanti che rendono plausibile questa mia passione per la lettura e la scrittura.
    Grazie anche a un paio di amici che riconosco.

  16. Questa terra è la nostra Terra. La riconosco dalla tua scrittura. Densa della sua stessa materia, informe, magmatica, policroma, alterata, inquietata dalla mano ruvida dei nostri uomini. Uomini poco delicati, come siamo purtroppo abituati a riconoscerli. Pausa. Lo scrittore vero è profezia o anticipazione. E’ sua la capacità di tradurre ciò che per tutti è solo intuito primordiale. Solo amebica prefigurazione nella mente, senza averne il dono della esplicitazione. Tu qui, invece, sei scrittore. Pausa. Oggi al telefono mi dicevi dell’altrettanto piacere di godere e di far godere dello spazio della propria architettura. Piacere estremo come la scrittura. Ma Scrittura e Architettura sono inscindibile atto, dìa-logos, essendo l’una pensiero dell’altra e l’altra materia lieve dell’una. Architetto_scrittore. Scrittore_architetto. Pausa. Raffaele

  17. @bruno esposito

    Ciao, a parte il nome (notissimo) della famiglia, puoi dirmi sul web dove prendo info su questo centro direzionale, uffici della Regione, ecc.ecc.? Se non avessi letto il tuo post, non ne saprei nulla, e abito nella zona. Detto questo, una battuta amara: le costruzioni si fanno fare a chi dimostra di saper costruire, e chi meglio di loro sa farlo? :-)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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