Un po’ di autoreferenzialità
di Christian Raimo
[condivido qui l’intervento molto a braccio che ho fatto al piccolo convegno “La Tribu dei blog” un paio di mesi fa a Foggia. Al convegno hanno partecipato Giulio Mozzi, Michele Trecca, Ivano Bariani, Manila De Benedetto]
Provo a dire delle cose… A me viene in mente questa cosa qui. Negli ultimi anni, nel decennio berlusconiano, c’è stata evidentemente una sorta di diaspora, quasi sradicazione, evaporazione delle professionalità. Questo da una parte. Perché da un’altra c’è stato un fenomeno di disgregazione di quelle che sono state le palestre collettive. Provo a declinare un po’ meglio questo discorso. Nel senso che noi abbiamo assistito dalla parentesi tangentopoli in poi alla possibilità della politica di essere delegata a non professionisti. Questa cosa era palese in politica, è palese oggi in parecchi campi dell’attività italiana: si può fare gli industriali essendo soltanto degli arricchiti, si può fare comunicazione essendo persone disinvolte, si può in qualche modo improvvisare una professionalità. Il proliferare dei blog a che cosa è dovuto, oltre al fenomeno stupido, anche giusto, di cui diceva Ivano: non abbiamo i soldi per una rivista su carta, c’è il blog con una disponibilità a poco prezzo, facciamo il blog? Anche secondo me al bisogno di reti collettive, di crescita professionale, come diceva Manila, avere delle palestre, dei laboratori, dei gruppi di ricerca collettiva sulla scrittura, che in altre occasioni potevano essere le riviste, i giornali, i piccoli circoli letterari in provincia, o i giornali veri e propri, o appunto anche tutto quello che ruotava intorno alle grosse case editrici o i giornali… tutto questo appunto si è perduto. Tutti questi discorsi non sono assolutisti, si potrebbero fare anche mille controesempi, però secondo me si è perduta, notavo partendo dalla mia esperienza, si è perduta da un certo punto in avanti la credibilità rispetto a una serie di linguaggi. Che vuol dire? Che da un certo punto in avanti – io ho registrato questo fenomeno – la gente cominciava a leggere libri, i giornali, vedere la televisione, a sentire il mondo appunto, a leggere, a informarsi con gli strumenti che erano normalmente gli strumenti della comunicazione, della letteratura, della scrittura, dell’oralità… e non ci credeva. Sempre più spesso ho visto, e non per una forma di snobismo di bassa lega, che da una parte i giornali non sembravano più avere dei giornalisti capaci di rendere merito all’informazione. Che molto spesso i libri che le case editrici pubblicavano non erano capaci di intercettare quelli che potevano essere dei veri movimenti letterari, carsici, che stavano emergendo. Tutto questo secondo me è legato a un fenomeno in qualche modo di berlusconizzazione, di deprofessionalizzazione di un intero Paese. Allora hanno cominciato a esistere delle forme di resistenza dal basso, come se in qualche modo si avesse bisogno di rigrammatizzare il discorso a partire dalle sue strutture elementari. E il blog in fondo che cos’è se non una forma di diario scritto in pubblico? Ed ecco l’alro fenomeno di cui tenere conto. È vero, come diceva Ivano, che qui si parla di blog letterari, e non di blog pediatrici e di giardinieri, però è anche vero che al fenomeno del blog letterario è stata data un’importanza notevole, proprio perché a un certo punto evidentemente si è verificato manifestamente un deficit di rappresentazione, nel senso che – parlo sempre per generalizzazioni, però spero di essere chiaro – che se da una parte appunto c’era un surplus di rappresentazione (cioè soltanto a Roma ci sono 8 giornali freepress, per dire), se da una parte c’era un eccesso di informazione, di scrittura, di rappresentazione, tutto questo eccesso non riusciva a cogliere vari aspetti, c’era un deficit, nonostante il surplus. Cos’era questo deficit? Che cos’è questa faccia oscura che rimane a margine di questo surplus, per cui appunto per esempio i blog, Nazione Indiana, Vibrisse, i vari blog sorti, non avevano, non hanno tuttora una mera valenza letteraria? Questi blog rivendicano quella capacità di autorappresentazione che poi è la letteratura, perché la letteratura è un modo di rivolgersi al mondo senza escludere nessuna delle sue parti. Quindi ovviamente anche un blog letterario si ascrive fortemente anche una funzione politica, intellettuale. E dunque, da un mero punto di vista editoriale, logistico, il fatto che Roberto Saviano fosse uscito da una serie di collaborazioni con Nazione Indiana, per me – a parte l’amicizia per Roberto – non è un motivo di orgoglio, nel senso che mi sembra brutto un Paese in cui solo nel momento in cui c’è un successo editoriale marchiato poi da un successo mediatico legato poi a un caso personale – Roberto Saviano può esercitare quella che è la sua professione, cioè la professione per cui Roberto Saviano si è preparato per 30 anni, cioè il giornalista, lo scrittore, il reporter. Anzi, non l’ha potuta mai esercitare, perché per 30 anni, per 27, fino a quando è uscito Gomorra tutto quello che ha scritto gravitava tra collaborazioni mal pagate, non pagate, blog. Tutti nell’editoria riconoscevano il valore di Roberto Saviano, non ne ho conosciuto uno che dicesse no, Roberto Saviano è uno così così. C’era un riconoscimento unanime del valore di Roberto Saviano. Se avesse potuto scrivere per L’Espresso – come oggi scrive per L’Espresso – se avesse potuto scrivere per Repubblica, per Il Corriere, e non per le pagine locali del Corriere del Mezzogiorno, avrebbe potuto mangiare del suo lavoro, mentre lui non mangiava del suo lavoro. Nel momento in cui Gomorra è uscito, a pochi mesi dall’uscita, ecco che viene messo sotto scorta, per cui adesso non può più fare il giornalista ovviamente, perché appunto è sotto scorta. E le cose che scrive ora sull’Espresso, sono delle elaborazioni, il più possibile approfondite teoricamente, del materiale raccolto e documentato un anno fa, per cui in qualche modo lo scoop oggi del Corriere Magazine, o dell’Espresso che mettono Roberto in prima pagina e quindi il caso Napoli in prima pagina, è un’opera di inattualità, nel senso che non ha nessuna forza di scoop o giornalistica, sono cose registrate, documentate un anno fa, quando Roberto poteva fare il suo lavoro. Oggi ha tre persone che gli fanno la scorta, non può andare in giro a infiltrarsi, a fare il suo lavoro normalmente, quindi questa cosa qui per me non vale come un punto di orgoglio.
In questo momento quindi vedo certo un buon segno in controtendenza. Rispetto alle forme di dispersione di questi aggregati culturali, rispetto alle forme di deprofessionalizzazione, di difficoltà a trovare delle palestre culturali, una delle prime cose che faccio è: mi autorappresento, mi rappresento io e due tre miei amici. Ma questo non basta.
Quando hanno messo su Nazione Indiana lo hanno fatto dicendo: noi non abbiamo spazio, c’erano appunto persone come Giulio Mozzi, Dario Voltolini, Tiziano Scarpa, Carla Benedetti, che era gente che insegnava all’università, che aveva vari libri alle spalle, persone che dicevano noi che dovremmo avere uno spazio pubblico d’esercizio, spazio pubblico non ce l’abbiamo, non perché siamo snob, radicali, perché appunto a noi – tanti, che abbiamo una serie di interessi diversificati, che abbiamo l’interesse che ciò che facciamo sia il più possibile pubblico, utile, coltiviamo un interesse culturale di servizio – tutto questo non è consentito. Per cui appunto creiamo da noi uno spazio di riserva, che appunto è Nazione Indiana. Questo spazio di riserva ha acquistato poi una sua credibilità, perché la professionalità che uno mette in quella cosa lì è una professionalità che ha acquisito, per cui non è che uno fa un blog così e dice ok, non curo la parte editoriale, la parte paratestuale, non curo tutta una serie di cose che fanno parte del lavoro culturale e quindi anche del lavoro editoriale per la rete. Non è un lavoro de-culturalizzato, de-editorializzato. Perché l’autorappresentazione non basta. Per me “La tribù dei blog” o “La notte dei blogger”, per dire, può essere una magnifica fotografia di ciò che succede in Italia, ma anche un sintomo che le persone oggi in Italia sono sole. Sono sole. E appunto il lavoro di fotografia della blogosfera documenta anche la solitudine diffusa delle persone, l’autorappresentazione di persone sole. Consideriamo anche questo. E quello che deve avvenire e sta avvenendo per fortuna è il processo di uscita da questo arcipelago di solitudini. Oggi mi sembra che ci sia un minimo di controtendenza e non so se perché la risacca berlusconiana ha dato i suoi piccoli ultimi flutti, o perché appunto a un certo punto è avvenuto un percorso di maturazione, per cui ciò che fa Ivano Bariani, ciò che fa Manila Di Benedetto, la stessa operazione di Vibrisse libri, o di Untitled, esprimono in qualche modo in questo passaggio di maturità, un passaggio che secondo me non è solo tecnico, ovviamente, ma è un passaggio culturale nel senso di mettere insieme quelle forze che erano disgregate. Questa cosa per me ha un grosso valore sociale, e ha trasversalmente un grosso valore politico. Perché se c’è stato un deserto di discorso negli ultimi dieci anni dal basso, è deserto di discorso politico. Molto spesso il blog letterario, il blog in rete, la discussione in rete, le forme di discorso dal basso compensavano molto questa mancanza. Quando sono cominciati a uscire libri come quella di Michela Murgia, i libri di Aldo Nove, libri che raccontavano in una forma di presa diretta, che poi sia un blog, sia un diario come la nuova collana di Aldo Nove, che poi sia Untitled, che siano altre cose che però hanno delle affinità con un tipo di scrittura in presa diretta, tutto questo andava a compensare un deficit enorme, un deserto di quello che è il discorso politico, o comunque di un legame tra discorso politico, discorso letterario, discorso sociale.
Racconto un episodio virtuoso, brevemente. A Roma c’è un centro sociale che si chiama Acrobax, che ogni anno organizza una tre giorni sul lavoro precario, da 4-5 anni. A un certo punto le persone che gravitano intorno ad Acrobax – una rete di universitari precari, altre forme di attività – volevano organizzare qualcosa, non si sapeva bene cosa, con i vari scrittori che avevano scritto libri sulla precarietà negli ultimi 2-3 anni. E hanno organizzato quest’incontro. Ce ne sono stati vari incontri preparatori. L’episodio virtuoso è questo: c’è stato un incontro nei giorni di questa manifestazione che si chiama Incontrotempo, un incontro un po’ allargato, con un centinaio di persone: tante, per essere un venerdì a Roma, in periferia, in un centro sociale, tante persone preparate, motivate, e la composizione era varia, medio-alta, professionalmente parlando: operatori culturali, scrittori, gente che lavora nell’editoria, gente che lavora nel giornalismo, persone che a vario titolo hanno a che fare con l’università. E la cosa di cui mi sono meravigliato è che a un certo punto dopo vari di questi incontri all’interno di Acrobax, è venuta fuori una convergenza, che nessuno diceva all’inizio in maniera così chiara: da una parte gli scrittori, gente che lavora nell’editoria ecc. hanno avuto in questi anni evidentemente una fame di attività, di prassi, di riscontro che il lavoro che facevano avesse una qualche risultanza sociale, politica, nello spazio pubblico, volevano uscire da un recinto stretto da repubblica delle lettere, da giardino infantile delle lettere, e dall’altra parte c’erano molte altre persone che facevano attività politica, sociale, che appunto, non solo centri sociali, ma gli insegnanti, gli operatori sociali, i librai Feltrinelli, che avevano altrettanta fame di rappresentazione, e appunto di qualcosa, qualcuno, un posto, un dove poter far sì che questa cosa avvenisse, questa attività avesse voce. C’erano queste convergenze, e la gente se l’è detto. Io faccio lo scrittore e mi sono rotto le palle di stare a casa mia e scrivere sul mio blogetto, anch’io faccio l’operatore sociale, culturale, penso che il mondo dovrebbe essere diverso – per dirlo alla buona – e però non ho una forza tale a comunicare il mio lavoro ad altre persone. Cominciamo a parlarci da qui.
Grazie, come Lettore e Bloggarolo.
Vabbe’, dopo aver letto tutto questo lunghissimo piangersi addosso, dov’è il pezzo? la notizia?
Pezzo confusionario: si capisce un bel niente.
Ah: “Ed ecco l’alro fenomeno…” – errore di battitura?
tempo fa ho postato un pezzo riguardante il mio lavoro di operatore sociale. raccontavo un episodio in cui una ragazza affidava a me il racconto di una parte della sua vita, infelice.
verso la fine, scrivevo, mi chiedevo cosa me ne facevo di quel peso, di quel dolore. e concludevo che la mia personale forma di svuotamento dell’angoscia, era scriverne.
è evidente che non può essere solo quello. che professionalmente ho altri strumenti. tuttavia, scrivendone, asserivo che scrivere, aldilà del livello quantitativo – in pochi mi leggono – è comunque un mezzo comunicativo che consente di uscire dall’isolamento: consente appunto una forma di comunicazione qualitativamente importante.
per cui, concordo sul fatto della frammentazione e del bisogno di comunicare, relazionare. il blog è uno dei mezzi possibili, che preludono all’incontro.
E “l’incontro è sacro” diceva Piero Ciampi…
d’accordo con prakash dorigo. se siamo qui è per comunicare perchè ne abbiamo bisogno. e allora ben venga. raimo s’interroga e ci interroga. ci fà interrogare. non ha risposte certe, questo è importante. se poi scappa un errore di battitura… iannozzi, e si rilassi un po’. fuori non è primavera, ma insomma, è pieno di buone bettole, in questa nostra movimentata penisola. esca dalla rete e vada “in vita”.
oh gisy scerman, che bella sorpresa! la saluto cordialmente.
Sempre uguale: si rilassi, e ci beva su, come al suo solito. Un bel cicchetto e le passa tutto, vedrà.
sarebbe stato bello se a foggia o in qualche illuminato paesino di provincia del nord, ad un incontro di blogettari come questo, un po’ massoneria, un po’ consorteria, raimo o chi per lui fosse intervenuto per squadernare un tema scomodo. vanno bene le tirate sul bisogno di comunicare, fiducia e sfiducia nell’efficacia dello scrivere, ammiccamenti e strette di mano, incontri-briefing per i prossimi progetti, scrittore e operatore sociale (nuova forma postmoderna e romana e veltroniana dello scrittore-intellettuale). va bene amici, abbiamo fatto i blog che abbiamo fatto, scriviamo, siamo visibili, narcisismo e un po’ di pagnotta assicurati, fans e recensioni incrociate, generosità di un impegno volontario, magari parliamo anche male del’ sistema’, come fossimo davvero in una riserva, come fosse solo colpa di questo berlusconismo, passepartout che spiegherebbe tutto, ma il vero problema da cui partire è chiedermi, chiedervi qual è il nostro rapporto effettivo con i ‘poteri’, con il concetto di ‘potere’ e le ramificazioni del potere editoriale, culturale, politico. anzitutto spietata autocritica intellettuale, prima di tutto rigorosa verifica del proprio habitus, per saldare coscienza di classe, ‘etica’ e sociale con un progetto, un disegno politico e culturale di respiro. ecco una notizia (che non c’è mai).
Pezzo molto interessante. Riesce a far coagulare in poche battute un discorso molto ampio che sempre più tutti noi avvertiamo. Mi pare che dalla metà degli anni Novanta (quindi da molto prima che proliferassero i blog) le cose più interessante sulle rete siano state quelle che riuscivano ad articolare un discorso politico, che avevano “fame di rappresentazione”. Sì, è verissimo. Ricordo le prime riviste, le più stimolanti sono state quelle che hanno permesso un incontro di esperienze e una proposta editoriale: per quanto riguarda la preistoria penso a Fabula, Bookcafe. E oggi le punte che riescono ad aggregare e a elaborare un discorso sono NI, Vibrisse, Carmilla, Wuming, La poesia e lo spirito, Il primo amore, Lipperatura.
Sitting targets, non mi pare che Christian volesse darci risposte assolute, il suo articolo mi pare piuttosto un atto notarile, necessario nella dispersione dei discorsi su questo tema.
Non capisco l’esigenza da matematici di risolvere l’equazione. Spero che passi del tempo dalla formulazione all’elaborazione di un problema, e dall’elaborazione ad una possibile opinione o soluzione. Io in tasca ho solo spicci e non so rispondere a comando, nè in fretta. In realtà diffido dalle facili risposte, diffido da chi le vuole senza prima mettersi un poco in gioco, diffido da chi le pretende, come se di “passare una vita a delegare” ne facesse un vanto. Non mi piace star tutta la vita a dibattere, ma la matematica applicata, quella no, per piacere, a liceo andavo malissimo.
il problema è che il blog in sè – se è un effetto a latere, diciamo così, della berlusconizzazione/deprofessionalizzazione del paese – per conto suo non professionalizza un fico secco. e non è fatto per quello, in realtà: semmai può essere utile a testare certe attitudini (come gruppo per esempio, ma anche da sè a sè). un blog sano non deve avere esiti, deve rimanere un blog e punto. altrimenti si sfocia nel inannozzismo, e dio ce ne scampi.
@la rocca.
e io mica ho detto il contrario. sottoscrivo fedelmente e, mi voglio rovinare, notarilmente quanto tu dici sull’intervento di raimo.
@ La Rocca
Come a dire che ogni scarrafone è bello a mamma sua.
Citi blog che alla fin dei conti sono solo “uno”, che promuovono la stessa idea di fondo, solo con piccole differenze, ma che però non fanno per niente la differenza dei contenuti espressi. Che si autocitano fino all’inverosimile, giusto per una pluralità di opinioni. Che è evidente che non c’è perché non ce l’hanno.
Raimo———–> braccia rubate all’agricoltura (e all’industria)
Buono quasi quanto le lezioni veltroniane.
@Giuseppe. “Sono solo uno” potrebbe anche essere un merito, nella deriva del web… Anche perché non è un “farsi uno” dettato da imposizioni esterne, di comodo, di convenienza, mi pare. Si fanno discorso, aggregazione. Certo, si può anche pensare che il discorso che esprimono non sia valido. Io penso il contrario. E se non esistono altri discorsi non si può scaricare su di loro la responsabilità di uno stato di cose. Però mi pare che comunque il farsi “uno” non sia un limite.
Uno sarebbe buono se fosse di aggregazione ed estensione. Ma a me pare che siano “uno” nel senso che “uno linka l’altro” e “l’altro linka uno” e così, una catena morbosa, per quanto mi riguarda, per poi arrivare a leggere un articolo qui su N.I. per esempio. Cioè: vado su Lipperatura, che mi rimanda a Carmilla, che poi mi rimanda qui, ma il pezzo era apparso anche su Vibrisse ma tagliato perché poi il rimando era su Carmilla. Che noia. Altro che pluralità! La stessa cosa linkata da dieci parti, sempre la stessa, sino alla paranoia. Personalmente quando vedo diecimila link, dico, bene: contenuto uguale a ZERO. Non mi prendo neanche il disturbo di essere rimbalzato come una pallina da tennis da un sito a un altro ad un altro… ecc. ecc. Ecchecavolo! Un link di richiamo, ma dieci in un post, o dieci per arrivare su di un sito, per la miseria. Ecco: pluralità uguale a ZERO.
Io non vedo tanti link da Carmilla a N.I. e nemmeno viceversa. Non mi sembra nemmeno che IPA e Wu Ming dicano le stesse cose, anzi, anzi. Lipperatura e IPA, poi, non si cacano nemmeno di striscio (In realtà IPA non linka e non caca mai nessuno). L’unica cosa che tutti questi blog e siti hanno in comune è che non linkano e non cacano Iannozzi. Il quale forse proprio per questo rosica (ma non risica, però prova a fare il Risiko).
e vai con l’autoreferenzialità