Ebrei americani dissidenti e politica israeliana
Il passato continua ad accadere
di Massimo Parizzi
(Apparso in “L’indice”, XXIII, 12, dicembre 2006, p. 34)
Una recente raccolta di “conversazioni con ebrei critici verso Israele” curata da Seth Farber inizia così: “Ebrei critici verso Israele? Per l’americano medio suonerà come un ossimoro. L’istinto di molti americani ebrei è di tacciare gli ebrei che criticano Israele di ‘traditori’ in mezzo a loro, ‘ebrei che si odiano’, che si vergognano della loro ebraicità, addirittura di ebrei antisemiti” (caso di “uso improprio dell’antisemitismo e abuso della storia”, come recita il sottotitolo di un polemico studio di Norman Finkelstein).
Lo scontro interno al mondo ebraico americano è violento, e contribuisce a far parlare Marc Ellis, teologo ebreo, di “guerra civile ebraica”, titolo di un suo saggio pubblicato in un’antologia di “risposte ebree-americane progressiste al conflitto israelo-palestinese” a cura di Tony Kushner e Alisa Solomon (saggio tradotto in “Qui – appunti dal presente”, 12, ottobre 2005). “Guerra civile” è, certo, un’espressione smodata per definire uno scontro fra, da un lato, una stragrande maggioranza di ebrei che con Israele si identificano e, dall’altro, un’esigua minoranza di “dissidenti” (in America quasi inesistenti fino alla prima invasione del Libano, 1982, come quasi inesistente era il sionismo fino agli anni Trenta). Non lo è, però, in riferimento alla “rottura nella storia ebraica” prodotta da “il sionismo e lo Stato di Israele” (Rabkin). “Benché molti vedano nella guerra civile ebraica uno scontro politico”, lo scontro, per Ellis, è “sulla memoria ebraica e ciò a cui essa chiama gli ebrei nel presente”: “La memoria è del passato, ma il suo recupero avviene sempre nel presente. Entrambi puntano a un futuro in cui la giustizia, prima negata, sarà abbracciata. Tale modello ha inizio nell’Esodo, in cui Dio, ricordando l’ingiustizia e la promessa dell’Alleanza, forgiò un futuro di giustizia ancorato nel ricordo. […] La distruzione della vita palestinese a opera di ebrei è ora una parte della storia ebraica che anch’essa va ricordata” (Out of the Ashes).
Il tema della memoria nel suo legame con la giustizia e il rapporto ebrei-palestinesi ricorre anche nella raccolta di Kushner e Solomon, dove sono ricordate le parole dello storico dell’ebraismo Yosef Hayim Yerushalmi: “L’antonimo di dimenticare non è ricordare, bensì giustizia”. Ma si legga soprattutto, nello stesso libro, il bel saggio di Jonathan Boyarin, antropologo, sulle “rovine palestinesi in un paesaggio israeliano”: “Il doppio carattere delle rovine […] è colto nel titolo prosaico di un’enciclopedia di villaggi palestinesi distrutti: Tutto ciò che rimane. Queste pietre, capiamo dapprima, sono le uniche cose che restano; questo è tutto ciò che rimane. E tuttavia la stessa possibilità di un’enciclopedia implica una pienezza: tutto ciò rimane… nella memoria”, e “ogni vera riconciliazione fra ebrei israeliani e arabi palestinesi dovrà fare spazio alle differenti modalità delle perdite e commemorazioni che sono al cuore delle rispettive identità”. Fino ad allora “il passato [della “espropriazione palestinese”] che non è ancora dominato non è finito. Continua ad accadere”.
Ecco un (apparente) paradosso: la storia degli ultimi sessant’anni in Israele-Palestina non si configura come Storia. È, piuttosto, un continuo e ripetuto presente. Un movimento in cerchio o a spirale, cioè, rispetto alla direttrice passato-futuro, un movimento fermo. Una impasse della Storia. Ed è un altro paradosso, perché “uno degli obiettivi del sionismo” fu di “riportare gli ebrei nella storia” (Rabkin). Ora, è tra i critici più radicali del sionismo e di Israele com’è oggi che tale compito ritrova la sua urgenza per “procedere oltre l’attuale impasse” tramite “una comprensione più profonda dei dilemmi cui gli ebrei come popolo si trovano di fronte” (Ellis in Kushner-Solomon). Che passato ha lo Stato di Israele? E che futuro può avere?
Nessuno? Così sembra pensare oltre la metà dei suoi cittadini. “Un sondaggio riferitomi da un israeliano: più del 50% degli israeliani non pensano che Israele esisterà fra 50 anni ” scrive Ellis nel suo diario da Israele il 21 marzo scorso (in “Qui – appunti dal presente”, 14, giugno 2006). Che gli israeliani vivano una profonda crisi non stupisce. “A partire dallo scoppio della seconda Intifada [2000], la società israeliana è entrata in una crisi di disperazione. La potenza militare di Israele non sembra portare la pace e la sicurezza” (Rabkin). Ma, se lo Stato di Israele non permette di immaginare un futuro che non sia una “trappola sanguinaria” (Rabkin), ha un passato? Sì e no. No perché il suo passato è un progetto, cioè inscindibile dal suo futuro, così che l’azzerarsi di questo è come se azzerasse quello. Il progetto sionista è e, insieme, ha costruito il passato israeliano. “Costruito” in più sensi, fra cui “dato espressione” (all’ebraicità laica nata in Europa dall’Emancipazione voluta da Napoleone), “interpretato” (leggendo “tutta la storia degli ebrei” come diretta “verso la fondazione dello Stato di Israele”, Rabkin), fino a “artefatto”: tacitando voci che, dal suo interno, dicevano possibile un futuro diverso. Ad alcune di esse si richiamano, in nome di un altro passato e un altro futuro, sia Ellis sia Kushner e Solomon: sono, in particolare, quelle di “Judah Magnes, primo rettore dell’Università ebraica [di Gerusalemme], Martin Buber, il grande studioso biblico e teologo, e Hannah Arendt”; in loro “il dissenso ebraico contemporaneo trova la sua tradizione e il suo radicamento” (Ellis).
Il primo capitolo di Wrestling with Zion fa precedere a loro testi una prefazione dal titolo eloquente: “Quello che abbiamo sempre saputo”. Che cosa “abbiamo sempre saputo”? Che “a meno che l’intera meta del sionismo non cambi, non ci sarà mai pace” (Magnes, 1929). Che “se [i sionisti] continuano a ignorare i popoli mediterranei e si curano solo delle grandi potenze lontane, appariranno loro meri strumenti. […] Gli ebrei che conoscono la propria storia devono essere consapevoli che un tale stato di cose porterà inevitabilmente a una nuova ondata di odio per l’ebreo, l’antisemitismo di domani” (Arendt, 1945). Magnes, Buber e Arendt “erano contrari a uno stato ebraico in Palestina” e a favore di una “federazione di ebrei e arabi” (Ellis).
A differenza di molti antisionisti “in nome della Torah” di cui parla il libro di Rabkin (Au nom de la Torah è il titolo della sua edizione originale, canadese), che, vedendo nel ritorno in massa degli ebrei in Palestina “un’usurpazione della prerogativa divina”, pregano per “la scomparsa dello Stato di Israele”, Ellis, che rifiuta la definizione di antisionista, reagisce al sondaggio citato sopra annotando nel suo diario: “La realtà o la speranza che Israele possa scomparire non va accarezzata. Che cambi, certo. Che si trasformi, sì. […] La scomparsa di Israele, no”. Piuttosto, scrive in Out of the Ashes, occorre perseguire, a partire da e dentro la storia israelo-palestinese, “una nuova identità e un nuovo futuro, […] un destino politico comune. Qui la cittadinanza – il riconoscimento di uno spazio all’interno di una cultura sociale e politica democratica non legato ad alcuna identità etnica o religiosa – è cruciale. […] La cittadinanza disciplina le rivendicazioni politiche, culturali e religiose e crea un luogo neutrale in cui ad avere la priorità è il perseguimento della vita normale. […] Essa comprime le storie di ingiustizia e l’autolegittimazione che cresce nel loro seno affinché sia possibile dare inizio a una nuova storia”, a un futuro “né ebraico né palestinese nel modo in cui questi popoli sono conosciuti oggi”. Il pensiero di Ellis è “ossessionato” dal futuro. Al suo centro è il “profetico” con la sua tensione etica, “il nostro grande dono al mondo”: “Questo concetto di oltre […] non è semplicemente né innanzi tutto trascendente. […] Esso rappresenta la possibilità della svolta, di un nuovo inizio nel mezzo della vita”.
Ellis è un uomo religioso, in cui risuonano motivi dell’antisionismo “in nome della Torah” come la visione dello Stato di Israele quale nuovo “vitello d’oro” e della diaspora quale “missione” nel mondo, una missione che si fa in lui, tuttavia, ecumenica e universalistica: il suo invito è a che “ebrei, cristiani e musulmani di coscienza” confluiscano insieme a non credenti in una nuova “diaspora che onori la particolarità al servizio dell’universale” (in Farber). Nel suo pensiero il religioso si apre allo storico e al politico e viceversa, e la “presenza palestinese” è vista come inscindibile dall’ebraismo e dal mondo ebraico, oltre che sul piano geopolitico, su quello teologico: “abbracciarla” è la condizione perché la tradizione ebraica abbia “un futuro degno di essere lasciato in eredità ai nostri figli” (Out of the Ashes). Ma mentre gli argomenti teologici degli antisionisti “in nome della Torah” restano “largamente immutati dal loro primo uso polemico alla fine del XIX secolo” e si spiegano “in parte con il rifiuto […] della modernità” (Rabkin), la teologia di Ellis lo avvicina agli ebrei laici, agnostici o atei che parlano dai libri di Kushner-Solomon e Farber, come Finkelstein e Noam Chomsky, dal cui intervento Farber cita a esergo in copertina le parole: “La tradizione profetica è oggi vivissima. Solo, la chiamiamo dissidenza”. O come i figli di famiglie ebree liberal giunti alla solidarietà attiva con i palestinesi anche perché educati a credere “nei diritti civili” da genitori che, tuttavia, “non estendevano il loro concetto di giustizia sociale fino a includere i palestinesi” (Farber).
Oggi che persino l’obiettivo di “due popoli, due stati” sembra un’utopia e ogni speranza affidata a muri e tregue, la distanza di queste voci dal presente non potrebbe apparire più grande. Anche per questo, forse, Kushner e Solomon hanno voluto riportare fra i “documenti storici” che aprono la loro raccolta un saggio del 1954 di Isaac Deutscher che così termina: “Gli ebrei sono ancora troppo a fondo inebriati dallo stato-nazione da poco acquisito, e gli arabi troppo invasi da un rancore senza limiti per guardare molto avanti. Ogni organizzazione sovranazionale, come una federazione mediorientale, è per entrambi pura Zukunftsmusik. Ma a volte è soltanto la musica del futuro che vale la pena di ascoltare”.
massimoparizzi@alice.it
Massimo Parizzi, traduttore, dirige la rivista “Qui – appunti dal presente”
I libri
Marc Ellis, Out of the Ashes. The Search for Jewish Identity in the Twenty-First Century, pp. 198, $ 22.50, Pluto Press, Sterling, Virginia, 2002
Seth Farber (ed.), Radicals, Rabbis and Peacemakers. Conversations with Jewish Critics of Israel, pp. 252, $ 19.95, Common Courage, Monroe, Maine, 2005
Norman Finkelstein, Beyond Chutzpah. On the Misuse of Anti-Semitism and the Abuse of History, pp. 332, £ 16.99, Verso, London, 2005
Tony Kushner e Alisa Solomon (eds.), Wrestling with Zion. Progressive Jewish-American Responses to the Israeli-Palestinian Conflict, pp. 378, $ 12.95, Grove, New York, 2003
Yakov Rabkin, Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo (ed. orig. 2004), trad. dal francese di Sara Ottaviani, pp. 286, € 19.50, Ombre corte, Verona, 2005
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(Sul tema della politica israeliana vedi anche: Un dogma culturale, di Andrea Inglese)
molto buono. mi permetto di crosspostarlo sul mio sito.
diego
Mi permetto di crosspostare anche al mio ultimo tomo, “The Wicked Son”.
Non sono un dissidente.
Non preoccuparti amore, pure lo vedrai tradotto il tuo Mamet e osannato in un’apposita piagniucolosa puntata di Otto e Mezzo.
Tranquillo, abbi fede.
[nel frattempo studia]
Per adesso mi sono fatto autopromozione.
Senza alcun bisogno del ciccione.
Dal ciccione vedremo anche, venerdì, fare promozione alla visione oscurantista e antiscientifica del neocreazionismo… per la serie: che bello essere colonizzati dalla peggior pseudocultura americana…
e se si aggiunge che le analisi serie su ebrei e Israele, come quella del post, portano a conclusioni assolutamente irrealizzabili, non trovate che è disperante tutto questo?