DO YOU SPEAK ENGLISH?
di Alessandro Raveggi
Hanno quel non so che dell’umanità, e degli ispettori dell’autobus sulla cinquantina facilmente individuabili tra la folla, per un certo qual modo inappropriato e rigido di portare Fruits of the Loom sotto giubbetti da giovanotti e coppole da golfista a righe cremisi e verde. Ma manipolano la serratura argentea, che si incastona come un monile nello spesso portone verde scuro, come se operassero un innesto in una fragile pianta, una pianta odiosa che produce fiori minuscoli solo dopo una lunga dedizione. Sono dentro, abbastanza rapidamente da far trasparire un certo nervosismo, tanto che inciampano l’uno sull’altro. Nessuno però li ha visti, dalla strada, nonostante sia ancora ora di mercato. Bert manda a quel paese Gil, fa come per tirargli uno schiaffo. Chiudono la porta rimasta leggermente aperta. Bert accenna col mento a Gil verso la porta, che, muto, chiede spiegazioni shakerando le mani.
– Hai chiuso?
– Sì.
– Sicuro?
– Sì, t’ho detto di sì.
– Chiuso chiuso?
– Porca troia, Bert, non è la prima volta che mi trovo di fronte certi lavorettini… – e con le mani gesticola come fosse in una televendita di gioielli.
– Non hai capito. Hai chiuso quella cosa di cui stavamo parlando prima, fuori?
– Che?
– Nicla.
– Parli della storia con Nicla. Mm.
– Beh, che fai, ci devi pensare?
Gil assaggia la stuoia davanti alla porta di casa, una stuoia con su disegnati omini di neve natalizi, con la suola dei suoi consunti scarponcini scamosciati, si gratta il collo del piede destro col sinistro. Si guarda attorno. Sorride, e sorridendo, sprizza fuori il suo dente dorato che si è fatto impiantare per sembrare più sordido e malvagio, nonostante gli amici gli abbiamo consigliato più volte di rinunciarci. L’appartamento ha un suo certo gusto, anche se pare preparato apposta per un ciak cinematografico ed ha un’aria secca, di mandarino sintetico. Gil ondula la testa, pensandoci su.
– Non so come spiegartelo, Bert. Non ne abbiamo parlato spesso. Quelle notti, quelli notti in cui stiamo abbracciati, coi brividi, finestre semiaperte, sono fin troppo veloci. Che ne so… Io le accarezzo i fianchi molli, poi arrivo ai capelli, quella chioma rossa così accattivante, le prendo le ciocche in bocca per gingillarmela un po’, lei mi dice, con quella stessa vocetta con cui mi ha… ingabbiato, “voglio stare abbracciata, nient’altro. Per favore, stiamo abbracciati…”
Bert ridacchia sfottendo Gil, tirando su le folte sopracciglia ingrigite. Si inoltrano nell’androne della casa, passando le dita sugli eleganti mobili lucidati. Su questi, oltre a vari bouquet rinsecchiti, invitanti mazzi di chiavi, una scatola di cerini, un pacchetto di carte da gioco, e la foto di alcuni genitori abbracciati su un dondolo dallo stile pomposo, si trovano diversi manuali dai titoli incomprensibili, di un inglese tecnico, aziendale, manuali d’istruzione con orecchie alle pagine e segnalibri colorati.
Gil col suo dito incappa nel telefono, di quelli chiari e snelli, a toni, e attiva la segreteria. Bip. Dopo qualche secondo di meccanismi inceppati, testine sporche e l’avvolgimento del nastro, si sente quanto segue: Ehi, dove stai? È successo qualcosa oggi alla mia bambolina?… Suvvia, dì un po’ a Willy: what’s happened? Mi spieghi una cosa: perché non hai voluto consumare il tuo ultimo pasto, sul treno di ieri sera, di ritorno da Costanza? Quei broccoletti, eh? Quei broccoletti erano tanto acidi, eh? Lasciami pensare… Stop, stop, stop, ho capito. So come ti senti. È un mondaccio… là fuori. Ne parlavo giusto ieri col Dottor Adams. Dirai: Chi è il Dottor Adams? Come chi è il Dottor Adams? Quell’ometto ricciolo, faccia da irlandese, che è venuto a prendere un caffè un mesetto fa, a casa. È patetico, lo so. Vedi, lui crede che adesso gli arrida il successo. Pensa che un buon vestito firmato, dei bei denti puliti, il fiato che puzza di mentolo e ingenti disponibilità monetarie facciano il tutto. Sai, sono convinto che Adams abbia avuto molte spinte per la sua carriera. Prima o poi, queste “spinte” vorranno in cambio qualcosa. Non crederà che azioni disinteressate piovano dal cielo, eh?… Come? Hai tirato su? Hai farfugliato qualcosa?… Tesoro… qualcuno sull’altra linea. Richiamerò. Ma tu fatti trovare a casa… ti prego. Un bacio.
Termina la telefonata. Rumore meccanico e impacciato della segreteria.
– Bene – fa Gil – il padrone di casa è fuori per un lavoro assai remunerato. La mogliettina è a fare compere collo stipendio del marito, e riempie il suo carrello di voglie e schifezze.
Gil si mostra soddisfatto. Bert mostra il grugno.
– Gil, su, vai avanti. Va’ al sodo… – si lamenta Bert, mentre passa in rassegna la rubrica telefonica accanto al telefono, e un paio di biglietti da visita schizzano fuori.
– No, non siamo arrivati ad una conclusione. Chiuderò io il rapporto. Gente che parla addosso e, lo sai, il suo uomo è uno… con i controcazzi. Uno in alto, da come lei ne parla. Uno per questo genere di posti, c’è d’averne paura… Ehi, balordo quel cristallo…
Nell’altra stanza, nel salotto in penombra, in una credenza chiusa a vetri, campeggia un cristallo non raffinato, sulla cui superficie la luce che trapela dalle serrande provoca strani riflessi violacei.
– La sai la storia dei nazi e del cristallo, Bert?
Bert fa segno di no, con la testa, svogliato. Adesso non è interessato alla storia dei nazi, non vuole perdere tempo con una storia di nazi. Sta chinato sulle ginocchia, aperta un’anta del piccolo mobile in mogano del telefono, e scartabella vecchi elenchi del telefono ingialliti, buste con tabulati, archivi di fatture, alla ricerca indefinita di qualcosa, o forse più per gusto personale, per creare scompiglio nei documenti.
– Una storiella che girava da queste parti nel ’50 o nel ‘60, almeno credo. Si racconta che dei gerarchi nazisti ottennero un’ingente quantità di cristallo. Cristallo da sfoggiare alle feste da ballo, in cambio di dieci baldracche tutte rigorosamente col pedigree ebraico, le quali per un circa un mese si prostituirono nel retrobottega dell’artigiano, l’artigiano che aveva procurato ai gerarchi il quantitativo… e poi, ovviamente, furono bruciate… Pochi giorni dopo, si dice, quattro bavaresi tutti seriosi e azzimati andarono a fare violentemente toc toc sulla porta dell’artigiano, commissionandogli a forza un posacenere della forma di un piccolo laghetto… Con al centro… uno splendido cigno, in quel momento così aggraziato in cui spicca il volo, piegando il collo, così…
Gil mima il verso del cigno mentre spicca il volo, in punta di piedi.
– …E proprio su quel collo fecero incidere la scritta… Aiutami col tedesco…
– Non so un’acca di tedesco, gonzo…
– Qualcosa del tipo Amore… sì… Amore, io brucio per te, ma in tedesco. Balorda come frase, no?
– Balorda… ma banale. Manca di una certa… vertigine poetica. Ovvio… Ovvio che se spengi su di un cigno una sigaretta, quello spicca il volo. Ma se sei uno di una certa tacca, di un certo livello, un bel balordo, in una festa da ballo, mica ti si gira contro. Piuttosto ti dice Amore, fai pure. Mi bruciacchi il culo, ma fai pure… E spicca il volo! – Bert ridacchia.
– Le voci che correvano… dicevano che persino Hitler in persona avesse spento qualche sigaretta in questo capolavoro d’artigianato…
Gil segue Bert che gli fa cenno di passare nell’altra stanza, in salotto, un salotto perfetto, due lampade ai lati, tubolari, che emanano un biancore gradevole appena vengono accese. Bert si sistema comodamente sul divano, un confortevole divano verde acqua, non consunto dalle unghie feline di certi appartamenti della media borghesia, un divano a due posti, perfetto come levigato da pietra pomice. Davanti al divano, sotto un tavolinetto in vetro che ospita un plotone di liquori pregiati, è disteso un tappeto persiano dove Bert si pulisce senza riguardi le sue ginniche sporche da una cacca pestata sul marciapiede fuori, borbottando “…’sto stronzo di cane, ma guarda te, ‘sto infame luridissimo…”
– Magari è una balla… – dice Bert alzando le braccia, per poi concentrarsi su di un piccolo bicchierino sul cui fondo è depositato il residuo di qualche liquore passato. Tenta di tirare giù il contenuto, ma non ci riesce. Infila la sua grossa lingua di bue a stento nel bicchierino, per lambire il fondo gelatinoso.
– Tutti ne parlavano nel ’50 e mica tutti si erano bevuti il cervello.
– É una balla la storia di Hitler. Hitler non fumava – fa Bert, dopo aver rinunciato all’impresa colla lingua, commentando fra sé e sé “ma che è disegnata ‘sta cosa?” al riguardo del fondo scuro e immobile.
– Lo sai forse per certo? – risponde Gil, guardandolo presuntuoso negli occhi.
– Si dicevano tante cose su Hitler. Persino che fosse un sadomasochista esperto o un maniaco della pedicure. Ma nessuno che dicesse che Hitler aveva il vizio del fumo!
– Okay. Bene… – risponde mogio Gil, facendo spallucce.
Suona il telefono. Si girano verso il ripetitore. Scatta la segreteria. Lasciano un messaggio, è la voce leggermente squillante, ma sicura di sé, del marito della signora: Ripensavo alla tua osservazione di ieri, tesoro… Hai ragione. È parecchio che Daddy non lo si vede bene… Da quando è morta Mommy, Daddy si è comprato una bella barca e una colf, una colf a quattro stelle e se ne sta tutto il giorno in giro… E… E… volevo dirti, riguardo ai tuoi dubbi… Certo! Ma certo che Daddy ama l’Argentina. Una terra viva, piena di brio e attrazioni, ogni giorno una festa. E poi la gente, calorosa! Pensa che i vicini se lo sono preso in simpatia e ogni giorno portano a Daddy una crostata fumante e altre specialità del luogo. Beh, me lo ha confidato in tutta segretezza, non dirgli niente…
Attimo di silenzio, si sente il fruscio del nastro che registra. Poi riprende: Sì, è proprio… fuori di dubbio, fuori di dubbio che ami l’Argentina. Viste poi le sue noie con la legge, non poteva permettersi di arrovellarsi il fegato nel Vecchio Continente… Non più. Lo sai, svolgere la professione di medico chirurgo come la svolgeva lui… e solo lui!…. è spesso… controproducente. Realizzare esperimenti innovativi in nome del sacrosanto progresso non è sempre indicato. La ricerca, si sa, vive sulle alzate di genio dei ricercatori. Anche se poi… divieni inviso alla… comunità. E così ti dicono che i tuoi test sarebbero immorali o addirittura razziali… La tua organizzazione sta lì a tutelarti, certo… ma più di tanto non può, quando decine di altre organizzazioni, fondazioni, nazioni intere si muovono contro di te, contestando i tuoi risultati, puntandoti il dito contro. Non ti resta allora che prendere baracca e burattini, ritirarti altrove, passando il tuo tempo al circolo per gli anziani a giocare a dama, ad aspettare che il carro funebre faccia benzina e poi passi a prenderti suonando il clacson. É una cosa sconvolgente lasciarsi andare alla vecchiaia, non trovi? Come dire: scivolare giù nel fondo… Ma Daddy questo non lo fa. Daddy se ne sta tutto il giorno in giro… colla sua pellaccia chiara, – beh un po’ maculata dal sole, sai, quegli scompensi di melanina di Daddy… – e la scriminatura perfetta in testa. E se non ci fosse lui, per Tommy…
Di nuovo una pausa. Il fruscio del nastro che registra sembra più insistente. Poi riprende: Hm. Dicevo: Adams. Il Dottor Adams, detto fra noi, amore, è come un criceto in gabbia che gira a cinque dollari. Fatica, fatica, ma sono altri che hanno in pugno i suoi bigliettoni verdi e se lo possono comprare e scambiare… Hm. A proposito, vuoi sbellicarti? Ho una VHS fresca fresca dell’ultimo briefing, dove, davanti agli altri, esalto le doti di quell’Adams. Veramente da sbellicarsi… L’ho lasciata… Bert si alza e riattacca il telefono di scatto.
Si lanciano, tirandosi a fatica su coi reni, come bimbi esagitati alla ricerca della VHS tra gli scaffali, vicino al diamante, tra le costole dei libri, scostando e facendo franare anche una fila di matriosche di vario genere e fattura. Gil si ferma a raccattare all’impazzata le matriosche, a infilarne una dentro l’altra, senza troppa cura nella matrice di provenienza. Bert trova la VHS su di un vassoio di porcellana riempito con caramelle al miele, sul secondo scomparto del basso tavolino di vetro dei liquori. La infilano nel videoregistratore. Si tratta a tutti gli effetti di una riunione. L’immagine è a bassa definizione, proveniente da una telecamera che pare nascosta dietro le spalle dei presenti attorno al tavolo, ma si muove a scatti zoommando sugli stessi, esaltandone i difetti, le orecchie a sventola, la cravatta mal acconciata, il mangiarsi le unghie, come sotto controllo di una regia. Nella registrazione, in cui spiccano, nel contrasto esasperato della bassa definizione, camicie chiare e gelatina per capelli, vestiti di gessato e le tende crespe della stanza, una serie di impiegati prendono appunti su dei fogli di carta intestata, mentre un uomo sui trentacinque anni, faccia oblunga e capelli tirati indietro, sta in piedi a capotavola, parlando e indicando di volta in volta alle sue spalle delle diapositive, dei grafici, mai inquadrati. E l’uomo dice: Veniamo alle regole. Credo che siano poche… Sì, le regole sono poche e essenziali… Gil e Bert, seppur l’audio frigga, riconosco la voce… Molto importante seguirle con zelo. Primo: i vetri dell’ufficio sempre puliti così che possa entrare la luce perfetta. Secondo: i vetri dell’ufficio sempre chiusi così che non entri aria cattiva. Terzo: il disordine uccide il business. L’ordine è il pensiero. Il disordine il soprappensiero…
Suona nuovamente il telefono. Lo lasciano suonare, dalla segreteria la voce precedente, la stessa dell’uomo nel video, fa di sottofondo “Mi hai riattaccato? Hai buttato giù? Perché hai buttato giù al tuo William? Ehi, su… rispondi… va così… vedi adesso quando torno… alle otto sono lì, e vedi!”. E, intanto, prosegue la VHS, con Gil e Bert che guardano uno seduto accanto all’altro colle mani sulle cosce, attenti come studenti da primo banco… Quarto: Se una donna fa la donna, battila. Se una donna fa l’uomo, accoglila… perché non sarà che una nullità da sfruttare. Settimo: i cessi… non devono odorare di cesso. Ottavo: se qualcuno o qualcosa contrasterà l’impresa, verrà… stri… stritolato… per così dire… da una quantità immane di cavilli burocratici a nostro favore… Capito tutto? Una decina di teste annuiscono. Il loro leader sorride felice. Spenge con un telecomando la proiezione dei grafici. Vi adoro. I grafici hanno mostrato che l’impresa sta costruendo un cammino proficuo verso un trionfo scontato e questo grazie agli accorgimenti del consulente Adams. Consulente Adams, si alzi. Uno del gruppo, coi riccioli rossi, allampanato, si alza in piedi, con una cartellina sottobraccio. Applausi per il consulente Adams. Gli altri rimasti a sedere applaudono con forza, tanto che l’audio della VHS satura fastidiosamente, Adams li invita a smetterla, con modestia. Nell’esprimerle i nostri riconoscimenti, Signor Adams, vorrei riassumere ai presenti in breve il suo curriculum, così che possa essere da esempio per quanti ancora non si trovano nella retta via o per alcuni ottusi che non ne abbiamo capito appieno il senso… Il leader controlla dei fogli sul tavolo davanti alla sua postazione vuota. Lei esce da Harvard passando per la porta di un prestigioso college londinese dove le hanno insegnato che calcoli, disciplina e una buona costituzione sono quanto di più si possa prediligere in un essere umano. Ad Harvard, i suoi studi proseguono proficuamente. E sì che di difficoltà ne deve avere passate, eh. Nonostante tutto, alle prime angherie cittadine nei confronti di questo giovane figlio di… mi permetta il termine… di con–ta–di–ni, quest’uomo è riuscito a rispondere e a metterlo in quel posto a chi in precedenza voleva fotterlo, non è vero forse signor Adams? Adams fa segno che più o meno le cose stanno così. Bene. L’uomo tira su dal tavolo un bicchiere di liquido bianco e tira giù una sorsata. Poi fa un respiro e riattacca… Dicevo, il signor Adams qua… e punta il dito con insistenza su Adams… a quindici anni potevate trovarlo, ad esempio, con una canottiera tutta patacche, ai bordi di un fiumiciattolo, novello Tom Sawyer, con la sua cannetta di bambù, in cerca di lucci e una striscia di moccolo che cade dal naso o… Per esempio, a inseguire lucertole fino al granaio adiacente la casuccia in legno dei suoi… Mi permetta queste invenzioni, Dottor Adams… Mica si starà offendendo? Adams fa come se non ci fossero problemi (ha una mano sullo schienale della sua sedia, come se si sentisse a disagio e avesse la smania di rimettersi a sedere). O, peggio, potevate trovarlo a piangere come una bambina sul suo letto trapuntato del college… perché un suo compagno di studi gli ha magari riempito le lenzuola di escrementi animali di varia e dubbia provenienza. Oggi, vestito di Gucci… con un diavolo di sesto senso formidabile, simile ad un… come dire… come si chiamano… un rabdomante, sì, un rabdomante in cerca di possibili prede nel grigiore quotidiano che ci precede ogni giorno, per le strade… Oggi quei compagni così divertenti e spiritosi, quei saltimbanchi che si permettevano di denigrarlo semplicemente per la sua provenienza campagnola… oggi, sono sicuro, sputano sangue misto a birra nel lavandino di un pub con l’insegna rossa ad intermittenza… in attesa del prossimo buco. Si nota una certa indisposizione di alcuni astanti, per questa chiusa, si muovono sulle sedie come avessero le pulci. …Mentre… Dio santissimo, il Signor Adams corre, corre, corre verso il successo come un predestinato. Un predestinato risorto dalle prevaricazioni come ogni buon predestinato! L’uomo sulla quarantina allarga le braccia. La telecamera nascosta zoomma su di lui come ad esaltarne i connotati, affilati, con una bocca quasi da donna, due orecchie piccolissime. Finisce la registrazione, schermo blu per alcuni istanti
– Continua.
– Credo sia finita, no?
– Continua tu, balordo! – fa Bert con insistenza girandosi verso Gil, che ha gli occhi grandi e grigi che lo contraddistinguono velati come da pianto per lo sforzo della visione.
– Hm. Okay. Io la lascio perché…perché non è più interessante come una volta. Ho perso quel senso di… sfida, che vedevo in lei. Lei era come la donna in fuga trascurata dal marito che si consola nella piena clandestinità dal giovane incontrato al bar…
Bert mostra perplessità: Gil non è quello che si possa dire un “giovane”, con quella pancia grinzosa da pensionato che fuoriesce dalla Fruits of the Loom slabbrata e la faccia da mastino, nella quale la forza di gravità pare provocare un andamento uniforme verso il basso delle rughe.
– …Uh, uh… Niente polvere. Basilare. Nelle giornate di pioggia puoi fare anche bella figura con la polvere sugli scaffali. Ma quando fuori è soleggiato, è problematico nascondere la polvere, dentro. Quando la stanza è inondata dalla luce la polvere brilla e viene fuori insidiosa. Sulle coppe vinte ai tornei di tennis, sulle porcellane cinesi comprate di seconda mano, sulle copie di Monet e Pisarro, viene fuori come una… terribile peste… Qua invece, ecco, fanno un buon lavoro. Ogni colore vive limpido in questa stanza. Nota come sono messe le poltrone, poi. Né troppo vicine al tavolino perché un ospite importante ci batta gli stinchi, né troppo lontane perché un vecchio collega anchilosato si spezzi la schiena, prendendosi il suo bicchierino di Cointreau…
Bert si disinteressa, si alza, percorre il cammino a ritroso con passi felpati e prosegue dall’ingresso verso delle scale. Suppone che la porta alla sua destra sia quella di cucina, quella alla sua sinistra del bagno. Indica il ragionamento con le dita. Le scale porteranno nei dormitori… Come lui li chiama, squallidamente, i dormitori. Quasi in senso dispregiativo, non stimando affatto la monogamia, il matrimonio, la domesticità, il tepore di un focolare, neppure quello di un riscaldamento centralizzato. Gil, rimasto solo, si alza e torna nell’ingresso. Vede la massa tozza di Bert che sale faticosamente le scale come un grosso elefante che sta lentamente morendo, con la riga del culo che si intravede dai pantaloni di lino calanti e il largo collo taurino imperlato di sudore.
– Quando si perde il senso di una relazione con una donna è meglio concludere! – vocia dall’ingresso Gil rivolto a Bert, che ormai ha voltato l’angolo delle scale e ha quasi raggiunto il primo piano – …per evitare strascichi, è meglio concludere… no?
Non ottiene risposta, né assenso. Sente solo i passi scricchiolanti di Bert al piano di sopra, una porta che si apre. Bert si morde il labbro, e alza gli occhi al cielo, stufatosi delle chiacchiere di Gil. Con cautela si muove sino a una stanza da letto, dai coloro accesi, con un copriletto floreale e un ventilatore che muove a bassissima velocità le sue pale. Il sudore in viso gli si ghiaccia per l’impercettibile ricircolo d’aria. Una piccola abat–jour accesa sul comodino immerge la stanza di un colore giallastro.
– E comunque… – continua a gridare Gil dal piano di sotto – …Mi sono stufato di abbracciarla… nelle notti, di dover compensare tutta la sua mancanza d’affetto. Sai, in effetti, il cinquanta percento delle volte in cui parla… non l’ascolto nemmeno. Attacca con i suoi discorsi sulla solidarietà…
Bert è sullo stipite della porta della stanza da letto. Ma si gira di scatto, corre di sotto affannato, la testa incassata nelle grosse spalle, dà uno scapaccione violento a Gil, che se l’è visto arrivare come un bufalo imbestialito giù per le scale.
– Vuoi abbassare la voce? Che pensi, che siamo al club degli alcolisti anonimi? Che devi raccontare le tue storie sentimentali fallite a tutti? – gli sputa in faccia afono Bert, mostrandogli il pugno.
Gil è di ghiaccio, si sistema la coppola… Suona nuovamente il telefono, il rumore fastidioso nelle orecchie di Bert, che si avventa sull’apparecchio e riattacca di botto. Poi Bert torna al piano di sopra con la stessa lentezza, dopo aver maledetto Gil, che lo segue a distanza, come impensierito da un possibile prossimo schiaffo. Risuona il telefono, quello che si presume essere l’uomo del video registra un nuovo messaggio in segreteria: Ma io dico, sei lì con qualcuno? Cristo, chi ti credi di essere, puttanella,? Adesso lo vedi, cosa ti faccio, quando torno, lo vedi! Tirerò fuori i miei soliti tric–e–trac e vedrai… Dall’altro capo sbattono poi il telefono con violenza. Si spegne la segreteria in un bip inquietante e profondo. Bert e Gil sono sulla porta, sul copriletto floreale stanno delle riviste avvizzite. Un armadio color avana è aperto, si intravedono dei vestiti, delle giacche, alcune vestaglie brillanti, da donna, due scarpiere. Gil si stende sul letto, prima palpandolo poi accomodandosi, cogli occhi segue il volteggiare delle pale, sbuffa e tira il fiato, scostando le riviste. Bert si piazza davanti all’armadio, tira giù dalle grucce delle giacche, le seleziona come valutandone la fattura, alcune se le sistema piegate sul braccio. Gil sfoglia una rivista con alcune donne di altri tempi che strizzano gli occhi appesantiti dal rimmel e fanno intravedere dei capezzoli interessanti dai loro vestiti semitrasparenti. Gil nota come il modello di posa preferito sia quello a gambe strette, mani sulle ginocchia, leggermente di profilo rispetto all’obbiettivo, che le rende, allo stesso tempo, disponibili e impenetrabili, enigmatiche e sbarazzine. Continuando a sfogliare incappa in un set rasatura e igiene personale tutta al maschile, con un ricorrente colore marrone spento che caratterizza l’oggettistica, dal rasoio elettrico agli asciugamani, deturpati oltretutto da un logo prepotentemente incassato in ogni affare, simile ad una ataut. Poggia al suo fianco la rivista, con una torsione del busto si allunga verso il comodino, lo apre, all’interno trova alcuni romanzi gialli e una scatola di profilattici. Bert intanto si è sbottonato i pantaloni, sta in mutande, tanto che Gil lo guarda di sbieco, accorgendosi di quella tozza presenza, le gambe pelose e le cosce flaccide e abbondanti da calciatore in pensione. Bert sta scegliendo dei pantaloni da uomo dall’armadio.
– Dicevo… – riprende Gil – lei attacca coi suoi discorsoni balordi sulle popolazioni indigene devastate dal fiume straripante dell’occidente… sull’emancipazione… e io mi limito a bofonchiare qualcosa di conveniente alle sue domande retoriche…
– Tutto qua? – fa Bert, abbottonandosi a fatica l’ultimo paio di pantaloni gessati che ha tirato fuori, tirando il fiato per la pancia e scuotendo la testa, paonazza per la fatica, colle vene che si ingrossano sulla calvizie centrale e i due ciuffetti bianchi di capelli ai lati, che sembrano gonfiarsi.
– Una volta, una di queste notti, si è drizzata su col busto, mi ha preso le mani, ha iniziato una sparata micidiale sui diritti umani, le nefandezze del neoliberismo, sui pasti precotti… Sbraitava come una di quelle femministe che vedi ancheggiare ai cortei, nella sola ricerca di maschi e idee oziose per starsene tutto il giorno in panciolle… parlando delle condizioni delle donne in Afghanistan, del commercio delle vittime umane tra i potenti del mondo, degli enormi guadagni dei fabbricatori di kalashnikov e bombe sofisticate all’ultimo grido, che non sarebbero altro poi – secondo lei – che opulenti padroni di prodotti alimentari con la fissa dell’import-export. La cosa più esagerata che ha detto è quella de “il sotterraneo legame tra istituti di credito e fabbricatori di morte”…
– Guarda qui…
Bert ha aperto la scarpiera, per terminare il completo… Tra alcune scatole Tod’s spiccano altre, grigie, sigillate, un po’ ammaccate agli angoli, senza marca, piene, certo non di scarpe, ma come imbottite. Bert si perita con una sua unghia particolarmente lunga nell’eludere i sigilli. Sul retro delle scatole nota dei nomi, su etichette: KOZYI (2003), BARBIE (2002), RAUCH (1999) KVATERNIK (2001), RAUFF (2003), STANGL (1988), VON ALVENSLEBEN (2006), scritti a inchiostro. Una scatola adesso è aperta. Della polvere biancastra riempie completamente l’interno della scatola. Bert ci ficca un dito, con cui tira su un po’ di materiale, e lo lecca. Lo assapora colla lingua sul palato. Un sapore neutro, un po’ salato.
– Non mi dire… Coca? – fa Gil, che si è alzato dal letto, strappando di mano una scatola a Bert, ancora intento a testare il contenuto. Gil agguanta queste scatole grigie con le etichette e le mette sul letto, per aprirle una ad una.
– No. Non pare… E questo… – osserva una delle etichette sul fondo esterno delle scatole.. – questo Barbie… non era uno di quei… – risponde, mentre i pantaloni sbottonati gli stanno calando giù dalle anche. Gil, avuto il dissenso, smette di aprire le scatole colle unghie.
– Sarà una scatola di bambole della bambina… dei due di questa casa… no? – risponde Gil, dopo pochi attimi in cui a rimuginato il nome “Barbie”.
Dal piano di sotto sbatte la porta d’ingresso. I due si irrigidiscono, aggrottano la bocca, allarmati. Bert, tirandosi su i pantaloni e ficcando alla rinfusa i vestiti sottratti all’armadio, fa cenno a Gil di nascondersi sotto il letto. Si acquattano sotto, il letto è rasente al suolo tanto che rimangono incastrati uno accanto all’altro, colla faccia compressa sulle doghe che sanno di nocciolo lucidato. Respirano a stento. Da sotto guardano verso la porta. Passi lenti sulle scale. La figura che sale si ferma sul terz’ultimo scalino, alla vista della stanza da letto accesa col ventilatore a pale azionato. Bert e Gil intravedono la faccia. Una faccia bianca, con un muso vecchio da tartaruga, un giubbotto di pelle nera abbottonato fino al collo come un motociclista, tutto fibbie e cerniere. Ha un sacchetto di plastica rosa penzoloni dalla mano destra, forse all’interno un pollo ancora vivo, che si agita, muovendo gli arti. Un pollo spennato, forse. La figura strizza gli occhi per vedere bene. Emette degli strani vagiti, a bocca serrata. La faccia bianca è ticchiolata da alcune macchie. La figura si fa avanti, non è più visibile dai due, terrorizzati, ansimanti. Nemmeno il sacchetto rosa è più visibile. Solo dal polpaccio in giù, dei consumati sandali chiusi marroni che camminano attorno al letto, agitati. Il vecchio tartaruga pare mormora qualcosa. Sta togliendo le scatole da sopra il letto, lo si sente, apre l’armadio. Emette ancora strani vagiti, suoni striduli.
All’improvviso, accanto ai sandali marroni, fermi davanti all’armadio, piombano, dall’alto, due piccoli piedini, due piccole scarpe da tennis da bebè. Si muovono a stento attorno al letto, Bert e Gil che seguono le scarpine frenetiche da una parte e dall’altra, i sandali marroni ancora fermi. Si chiude lentamente l’anta dell’armadio. I piedini si fermano. Scompaiono.
L’essere, un nuovo essere, come nato da mitosi col vecchio, l’essere dalle scarpine da tennis,
sta adesso zompando sul letto, su e giù. Rimbalza sopra la pancia di Gil, anzi sopra le parti basse di Gil, schiacciate dalle doghe. Gil si lamenta, trattenendosi. Si ruotano i sandali marroni, si fanno da parte, una vecchia mano nodosa bianca come di un cadavere scosta il copriletto e la testa di tartaruga fa capolino. Incontra la faccia di Bert, che, in una situazione del genere, cogli arti immobilizzati, incastrato là sotto, non può che sfoderare una faccia esageratamente aggressiva. La vecchia tartaruga, gli occhi azzurri chiarissimi, un po’ velati, fa un sorrisone in cui mostra la sua dentiera smaltata, pare grugnire. Al suo fianco, curiosa, la facciona di un bimbo, che ricorda un po’ il vecchio, abbozza anch’egli un sorriso, senza denti, producendo quel suono dei palloncini gonfiati quando sono strizzati tra le mani.
Si accende la luce al piano terra, visibile dalle scale come un taglio di lama su di una parete. Si avverte un rumore di tacchi che sbattono sul pavimento di ingresso. Una donna canticchia, è una canzone cubana di altri tempi. Aziona la segreteria, deve avere delle vigorose unghie smaltate di rosso, per il tono di voce. Manda indietro svogliata canticchiando a tratti e ascolta l’ultimo messaggio nel momento in cui… Adesso lo vedi, cosa ti faccio, quando torno, lo vedi! Tirerò fuori i miei soliti tric–e–trac e vedrai… La vecchia tartaruga si tira su in una smorfia di dolore e scatta a chiudere la porta. La donna nel piano di sotto pare avvertire il cigolio che la porta della camera da letto produce. Comincia a urlare “William! Sei qui? Perché tesoro, perché? Me lo vuoi spiegare…” e attacca a piagnucolare. Sale di fretta le scale. Apre le porte delle altre stanze, poi prova ad aprire quella della camera da letto. La faccia da tartaruga, adesso seduto sopra il letto, come premendo violentemente su Bert e Gil che stanno senza fiato, e il bambino sulle ginocchia come una madonna, deve avere chiuso la porta a chiave con un rapido scatto. Se ne sta tranquillo. La sua faccia deve essere immobile, strizzerà gli occhi di tanto in tanto, si toglierà una cispa. Il bambino se ne sta tranquillo, non mugola più. La donna comincia a sbattere le nocche sulla porta. Comincia a urlare “William! William! Aprimi… Lo so… ti ho delusa, l’altro giorno al lago… Lo so… apri!”. I colpi sulla porta si moltiplicano, deve star usando anche i piedi. Si ferma. La faccia di tartaruga ha un sospiro di sollievo che Gil e Bert percepiscono per una leggera variazione della pressione sul loro corpo da parte della vecchia carcassa dell’uomo tartaruga, sommata a quell’insignificante sacchetto di ossa deboli del bambino con le scarpe da tennis.
– È per quei dubbi su tuo padre? – continua lei, da dietro la porta, disperata.
– Dimmelo, è per quei dubbi… ho pure lasciato che affidassi Tommy tutti i pomeriggi a tuo padre… Se non mi fidassi… – grida ancora con isteria.
C’è un attimo di pausa. Gil, nella frignata isterica della donna, riconosce la voce e sgrana gli occhi.
– Quei modi, per favore, no… quei tuoi strumenti, no… Okay, ho fatto ritardo… ma, perché reagire così?… – riprende dopo un respiro la donna, quasi senza voce, ormai prosciugata nel pianto, completamente inaridita.
– William… – e pare aver ritrovato una certa saldezza sia nella voce che nel respiro – … D’accordo. Sono d’accordo. Mi senti. Bene. Sposiamoci. È giunto il momento di sposarci.
La donna dietro la porta assume presto una sicurezza allucinata, come profetica.
– Sarò la tua brava mogliettina, la tua mogliettina adorata, quella che ti aspetta seduta alla finestra, scorrendo i riflessi dei fari delle macchine che passano sul vetro… La tua venuta sarà accolta da un bel letto caldo di attenzioni… Curerò il suolo che calcherai, marito mio… Le forchette che succhierai… Ricorderò delle tue medicine, senza lasciarle sbadatamente marcire nella scatoletta bianca… e così il tuo paio di mutande preferito, il sapone che fa la schiuma giusta per la tua vasca da bagno… E poi i cataloghi, le bollette, la fedeltà, i parenti, tuo padre, sì, tuo padre, accoglierò tuo padre, potrà venire qui quando vuole… e poi le immancabili difficoltà, ah, le immancabili difficoltà!” e simula un sospiro di sollievo, ma forzatamente, per disperazione.
– William? – chiede nuovamente con flebile voce, rotta dal principiare di un nuovo pianto.
– William?… William…
Nessuna risposta. Silenzio. Si sente il rumore dei suoi tacchi che si muovono verso le scale. Che scendono le scale instabilmente, producendo un ritmo sconnesso. La porta di casa si chiude. Gil e Bert, quasi soffocati, con scarsa autonomia d’ossigeno nei polmoni, attendono qualcosa. Il peso sopra di loro si alza, come ci si poteva aspettare. I due respirano, completamente mezzi di sudore. Sul letto il vecchio sta, a quanto pare, sistemando le scatole. Si sente il rumore di plastica stropicciata. Sta infilando le scatole grigie in un sacchetto che si è portato appresso. Gil e Bert si immaginano che stia come infilando le scatole nella tutina rosa del bambino, quel suo bambino, suo perché dai tratti estremamente simili, sua riproduzione mignon, un bell’esempio di eredità genetica. I sandali marroni e le scarpine da tennis si muovono poi verso l’uscita, non prima che il vecchio tartaruga abbia chiuso le ante dell’armadio e fatto tintinnare un mazzo di chiavi, tirandolo fuori da una tasca dei pantaloni in pelle. Si sente poi il rumore della porta di casa che si chiude.
Il Dottor M. balza sull’auto, una chevrolet, si stringono, stridono, guaiscono le cerniere del giubbotto in pelle nera. Sfreccia per le strade di B., guarda donne ancheggiare alla primavera, una primavera calda e umida, e le pensa come senza volto, tornate da un weekend al lago. Il cielo è bianco chic, pop. I crani dei bambini che giocano a pallone, un pallone rattoppato, sono così lucidi al sole. Tommy, appollaiato al suo fianco, mangiucchiando la cintura di sicurezza coi suoi dentini, si diverte a ruotare a caso la manopola della radio, che, tra le interferenze, annuncia, bassissima: Hi-tech… disinfestazione… prede… Bisbigliare… latte in polvere… claustrofobia… flat… beatificazione… do you speak english?… gran finale… sei un figliol prodigo… autogrill con sapone verde menta… giochi di società… crani, molti crani si intravedono… questo è un luogo comune… un ombrello grande quanto il cielo… politically correct… il destino porco… condoglianze a mo’ di risa… uscite preferenziali… un’armonia sussurrata dalla metropolitana… una forte diarrea cronica… un passato passato nell’esercito… diciamo che Platone incontra Schopenhauer e gli dà un pugno… un po’ di rumba… la telefonata passala in diretta… dottori tedeschi in Argentina, le cui spoglie mortali… la dentiera del vicino è sempre più bianca… conclusioni affrettate… come una sorta di covo en plein air, che tutti conoscono, ma non vogliono vedere…
Il Dottor M. parcheggia l’auto davanti ad uno shopping mall dal nervoso stile post-modern. Il bambino rimane nell’auto a trastullarsi colla manopola. La porta scorrevole dello shopping mall si apre al livello terra, su offerte speciali, pasti sotto vuoto spinto, uno scaffale di remake patetici sulla Guerra Fredda. Il Dottore agguanta un po’ di collante per dentiere, cioccolata amara, latte in polvere. Prosegue al primo piano, ed ordina un grande schermo ad innumerevoli pollici, da appendere al soffitto sopra al letto – come specifica al commesso – più tre telecamere portatili ed un cavetto di connessione. Lo attende una fila ossessiva, alla cassa 5. Fuori dal reparto hi–fi, si rivolge per dodici rose rosse al fioraio sull’angolo della galleria maggiore del centro, che non intende l’inglese perfetto del Dottore. Inutile, inutile l’invito a comportarsi diversamente. Decisioni risolute lo indirizzano poi in un bookstore, dove tira giù dagli scaffali una dissertazione sul Teeteto di Platone ed un manuale per giovani manager, introduttivo alla new economy. Nella vetrina di un negozio di animali lo attrae un piccolo criceto che gira sulla sua ruota di plastica. È tentato dall’acquisto. Balza in macchina, rosicchiando la barretta di cioccolata amara, lanciando rose, libri, criceto in gabbia e sacchetti con gli acquisti sul sedile posteriore. Il bambino al fianco si volta ad osservare il criceto spaventato e emette quel suo suono da palloncino pressurizzato. L’allettante cinquantenne colla sua permanente fresca di giornata lo accoglie sulla porta del miniappartamento vicino al centro. Consegnate le rose e il criceto, il Dottor M. se ne va ridendo. L’odore di bruciato che emana il microonde è insostenibile. Tommy guarda il Dottor M., mentre si trastulla ancora con la manopola della radio.
– Le hai dato un calcio in bocca?
– L’ho spinta nel letto, tenendole le spalle premute sul cuscino, le ho detto “Giovane boccone dei tuoi desideri repressi, sì, ma comunista… cazzo, No!”
Bert e Gil sono fuori dalla casa, a mani vuote, facendo finta di niente, da esperti, colle mani in tasca, come se aspettassero quell’autobus dove avrebbero racimolato la paga mensile stilando multe agli studenti. Decidono di andarsene. Bert pesta la medesima cacca in cui è incappato poche ore prima, pare non curarsene. Si trattiene dal commentare.
– E Lei?
– Beh, muta. Raggelata, come un cadavere. Le volte successive non ha parlato. Mi chiamava al telefono a voce bassa. Diceva che non poteva parlare troppo perché di là… di là c’era suo marito. Ci davamo appuntamento, ci spogliavamo, non consumavamo. Poi lei se ne andava. Stop.
Bert ci pensa su. Ci sono attimi di silenzio.
– Devi lasciarla, questa Nickla. È una marxista problematica che vuole sentirsi solo in colpa e tornare dal marito autoritario. Classico, lo diceva pure Freud. Freud o Flaubert? Flaubert forse. Bah. Balordissimo…
– Hai ragione. Devo chiudere i ponti con questa tizia. Non provo più gusto a stuzzicarle la passerina.
*
“Do you speak english?” è tratto da “Topi su Marte”.
Gil e Bert,Bert e Gil
Ho avuto la stessa curiosità anch’io.
Perché Bert e Gil?
Capirei se l’autore si chiamasse Alexander Ravegl.