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I nostri stessi sottosopra – G. – Prima plurale

di Vincenzo Ostuni

[Date alcune loro caratteristiche grafiche e di impaginazione, presento queste poesie inedite di Vincenzo Ostuni in formato pdf. Ringrazio l’Autore per la gentile concessione.]

trefaldonipernazioneindiana200701022.pdf

Vincenzo Ostuni (Roma, 1970) lavora come direttore editoriale per la Fazi Editore. Negli anni Novanta è stato animatore del gruppo LARP (Laboratorio aperto di ricerca poetica) e della rivista “Dàrsena”. Ha pubblicato Faldone zero-otto (Oèdipus, Salerno-Milano 2004, nella cinquina del Premio Napoli) e appena terminato Faldone zero-venti, da cui sono tratti i tre “faldoni” qui presentati. Suoi testi sono presenti in varie riviste (“Dàrsena” stessa, e poi soprattutto “il Caffè illustrato”) e antologie.

[E a complemento della lettura riporto l'”Avvertenza” che chiude Faldone zero-venti. a.r.]

AVVERTENZA

Questo Faldone zero-venti prosegue e integra il lavoro inaugurato con Faldone zero-otto (Oèdipus, Salerno-Milano 2004). Quel libro, avvertivo in nota, raccoglieva testi la cui stesura originaria risaliva agli anni 1992-2000, i cui versi, per facilità d’impaginazione, erano stati coartati in misure medio-lunghe; in realtà, piuttosto stabilmente a partire almeno dal 1996, erano stati invece scritti in misure francamente lunghe o lunghissime. Le principali operazioni subìte dai testi già presenti in quella raccolta sono state le seguenti: per quelli successivi al ’96 restituzione, dunque, di una versificazione in lunghezza e complessità simile all’originale; riversificazione, per adattarle invece al verso lungo, dei non molti precedenti quella data; parecchie espunzioni; parecchie ridistribuzioni da un faldone all’altro. Queste ultime due mi consentono di accennare brevemente a una caratteristica cruciale del volume. Il concetto di “faldone” – ossia, a conti fatti, di file (ventuno, dallo zero al venti, sono quelli in cui è diviso il libro) – implica comportamenti insoliti: il primo è che la struttura di nessun faldone (tranne lo “zero”, un’infantile del 1975, che corrisponde all’esergo-totem «dio ci ha creati…») è de jure immune da modifiche: che lo sia, in edizioni future, sarà mera contingenza; per intanto, nessuno dei primi otto faldoni, che raccolgono quasi per intero testi presenti in Faldone zero-otto, è identico all’edizione Oèdipus, e solo quattro ne conservano il titolo. In secondo luogo, e a differenza di quanto, per un bisogno di strutturazione che oggi (ma potrebbe andare diversamente in futuro) mi pare incoerente e compensatorio, avveniva nello zero-otto, cui avevo impartito una struttura ternaria (esplicitamente dantesca, persino nel presentare il primo e il secondo terzo un interlocutore maschile, l’ultimo un’interlocutrice femminile), i singoli faldoni non intrattengono fra loro una relazione d’ordine stabile: per mera necessità editoriale (non si può pubblicare un volume di poesie in dispense staccabili!), ho scelto qui di seguire un criterio grosso modo cronologico (solo grosso modo: alcuni faldoni, in specie fra i primi, contengono versi scritti nell’arco di quindici anni, dal ’92 al 2006, appunto; e importanti sono le eccezioni anche nei faldoni dall’otto al venti, che pure ospitano soprattutto “foglietti” stesi dopo il 2000) e tematico; questo a sua volta comporta che la lettura sequenziale del testo sia solo scarsamente preferibile a una lettura per sondaggi. In terzo luogo ancora, non è chiara l’unità di misura elementare nella quale suddividere il volume. Ciascuno dei faldoni, infatti, porta un titolo; ma al suo interno presenta gradi di uniformità alquanto variabili. Alcuni di essi potrebbero essere letti come poemetti, e le suddivisioni interne, segnate da numeri arabi, apparire persino di comodo, non più sostanziali di respiri o punteggiature (e in versioni precedenti, pubblicate su rivista o meno, erano assenti); altri ancora come “suite”, termine in voga ma spesso piuttosto impreciso; altri potrebbero essere apparentati a “sezioni standard” di una qualsiasi raccolta; né presentano necessariamente un’interna conformità stilistica. Ebbene, la scelta di rendere omogenea la presentazione tipografica (titoli dei faldoni in occhiello su pagina altrimenti vuota; suddivisione dei faldoni in testi segnati da numeri arabi e composti di séguito, senza la tradizionale interruzione di pagina; eventuale sub-suddivisione in numeri romani minuscoli) non solo deliberatamente depista, ma interroga criticamente – che non significa, certamente, ridurre a impossibile – ogni distinzione di quel genere: fra poemetto, suite, sezione o altro. Il medesimo concetto di faldone, collegato com’è con la nozione di amovibilità (assoluta: ossia espunzione e inserimento; o relativa: ossia spostamento e dunque rifunzionalizzazione) dei “documenti” in esso presenti, mostra del resto come i medesimi spostamenti e inserzioni ed espunzioni effettuati per quest’edizione non debbano esser letti come miglioramenti d’autore alla precedente. Di quest’opera, nelle intenzioni, fa parte a pieno titolo la storia dei suoi mutamenti; e ciò, oltre al resto già descritto, ne fa un quadratico work in progress.

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52 Commenti

  1. Io l’ho scaricato e aperto con gran facilità.
    Vorrei vantarmi, ovviamente, ma non posso, credo dipenda dal programma del Mac.

  2. Vincenzo Ostuni ancora una volta mi regala la gioia di leggere poesia. Sono versi eccelenti, la misura lunga va come un’onda, senza intoppi, ti avvolge e trascina. Moltobello, davvero.

    Lello Voce

  3. Ciò che non riesco mai a capire, di tanta poesia, è quest’uso di termini presi dai campi delle scienze. Cosa dovrebbe essere una cimice “quantistica”? Quali sono quelle non quantistiche? Perché l’approssimazione, o il modello, sono asintotici? Quale asintoto?
    c’è a t con x, per ogni x
    c’è a t con x, per ogni x? Cos’è?
    e via dicendo…

    Parole magiche?

    Gi.

  4. Caro Gi.,

    che ti devo dire? Sono, qui, metafore. Termini che appartengono a domini che, da lettore curioso (meccanica quantistica) o da studente (filosofia della scienza, statistica, logica) ho coltivato, e per me sono naturali come altri. “Tanta poesia”… Non so, a me pare un elemento di relativa novità.

    “Cimice quantistica”: si fa riferimento al fatto che questa cimice (che se non sbaglio può saltare, anche), la libertà sarebbe “vicina” come un passo della quale, procede per salti (quantisticamente, cioè), e non in maniera continua. Il passo (o salto) di una cimice è ovviamente piccolo; come piccole sono le differenze fra gli stati della materia che la meccanica q. studia; allo stesso tempo, a livello subatomico (gli elettroni come “insettini”) possono ovviamente occorrere notevoli o anche enormi immissioni di energia per cambiare stato del sistema, quindi il riferimento più nascosto sarebbe, nelle mie intenzioni, anche al fatto che questo passo, pur minimo, potrebbe non compiersi mai o richiedere, appunto, interventi eccezionali, diciamo, di energia e materia. Qualcosa del genere.

    “Bronchiolo in asintoto a bianco”: fa riferimento (ma parlo ovviamente solo della metafora, non del suo “significato”) al fatto puramente visivo che la scrittura (ogni scrittura, ma quella poetica in particolare, cui è dedicato il faldone, nella quale gli spazi bianchi hanno molta importanza, e questo in particolare per la mia poesia, se anche la “guardi” senza leggerla) è in asintoto al bianco, ovvero si avvicina indefinitamente, senza mai davvero coincidervi (questo, grosso modo, il senso del termine matematico), al bianco che lo contorna. Come un bronchiolo si assottiglia sempre più ma non si confonde con la materia del polmone. L’interpretazione dalla metafora è un altro discorso, ovviamente.

    Nell’altra occorrenza (“modello asintotico”) la scrittura è di nuovo in asintoto (quindi elusiva, in qualche modo relegata a un gioco di “logemi”, elementi del pensiero – questo è un neologismo, credo) stavolta all'”amore” di cui si parla. Le due occorrenze del termine, quindi, rimandano dunque l’una all’altra.

    “C’è a t con x, per ogni x”: non è altro che la traduzione in termini logici del “c’è, c’è stato, ci sarà” che appena precede: distesamente significa: “Al tempo t indicizzato con x, qualunque sia la x che lo indicizza”, quindi, semplicemente, in ogni tempo. Visto che l’ho già detto, perché ripeterlo? Credo faccia parte della mia sensibilità utilizzare espressioni delle scienze dure in un contesto esistenziale con un intento classicamente tragico: rimandando dunque a una dimensione di stabilità epistemica (qual è quello, proverbialmente – ma, sappiamo, erroneamente) delle scienze che di fatto contrasta (tragicamente) con l’incertezza assoluta che, c’è bisogno di dirlo?, ci governa.

    Spero aiuti. Grazie della lettura attenta,
    Vincenzo

  5. Del faldone cinque terrei la 1 e la 9; dal faldone dieci leverei 3, 7, 9, 11; il faldone sedici mi pare di livello inferiore. Posso chiedere all’autore quali sono i suoi riferimenti letterari? A me pare un curioso incrocio tra Landolfi e Magrelli.

  6. Caro GiusCo,

    sei un/una dissezionatore/trice. Mi sembra di capire che preferisci il dieci. Per esempio, dovendo dissezionare anch’io, a me il sedici piace più del dieci. E quelle che terresti del cinque sono, nel mio gusto, fra le minori. Ma comunque. Riferimenti letterari? Landolfi non l’ho letto abbastanza, Magrelli molto. Riferimenti non so: quelli che mi hanno influenzato sono almeno Dante, Sanguineti, Montale, Joyce, Wittgenstein, I Ching, Foster Wallace, Fortini, Carver. Alcuni di questi malgré moi.

    Vincenzo

  7. @bordig et omnibus

    Ho ritrovato la citazione (la riporto ad uso di chi, come me dianzi, non la conoscesse): “Diremo allora che l’astuzia di Calvino, scoiattolo della penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, ‘diversa’”. Pare sia da una recensione sull’Unità al Sentiero dei nidi di ragno. Be’, grazie mille.
    V.

  8. Un OT, una volta tanto: Vincenzo puoi mandarmi un e-mail con il tuo address? non riesco ad entrare in contatto con te. Scuse a tutti per l’OT.

    Lello Voce

  9. Finalmente una densità concettuale di tutto rispetto. Finalmente una scrittura tutta giocata sulla necessità di starsene da un’altra parte rispetto alla comunicazione corrente (“è la disparte”). La corruzione della lingua, in fondo, presuppone questa alterità. E la poesia è l’alterità par excellence. Applaudo con partecipazione.

    Mi permetto alcuni appunti.

    Il metodo compositivo potrebbe essere definito di razionalità critica in negativo. La saggezza del poeta, infatti, afferma la poesia come chance bloccata: “è dove si annidano (…) / più e più modelli, in vertigine di lingua; dove si inseguano l’un l’altro in un’orgia impotente”.

    Che questa sia una poesia che gioca la sua possibilità nel ritmo è certamente vero; ma non solo nel ritmo. Se pure hanno valore alcuni giochi sonori (“Finisce l’anno con i cantibotti, i cuori fratti, i pantaloni rotti; / comincia l’anno che stiamo appena dritti, gli occhi rifratti, i riflessi ratti”), nel complesso mi pare che le sequenze siano più giocate sulla qualità del discorso, quasi a voler fondare una nuova significazione. In questo senso quella di Ostuni è una poesia concettuale. La metrica mi parrebbe centrata più sul “detto” che sul “dire”, o comunque su una dialettica serrata tra i due momenti. La significanza non è solo danza: l’aseità della materia necessità del “pensiero che si pensa nel mondo”, e viceversa. In ogni caso, il distacco dalla norma del verso tonale non cede mai verso la prosa (non si fa discorso vero e proprio): le ricorrenze sonore, i ritorni di accenti o sillabe, le regolarità dell’andamento e persino le metafore improbabili, evidenziano una tendenza a rendere musicale il respiro delle frasi: “toglimi allora ciò che in me è sostanza, portami al golfo rotto, a incalcolabile divieto di distanza”. Un verso recitativo – per dirla con Pagliarani. Con un certo gusto dell’armonia (esemplare su ciò il pezzo 17 del Faldone 5); solo raramente il verso viene franto internamente (le parentesi, ad esempio, non bloccano la lettura come in Sanguineti). La “marcia orba” di Ostuni in realtà ci vede molto bene.

    L’accorpamento tematico di cui parla Ostuni nell’avvertenza segue in tutta evidenza un passaggio direi di logica metaletteraria: mentre nel primo è la poesia al centro dell’attenzione, nel secondo diventa un fatto privato (la nascita del figlio?) e nel terzo la relazione tra il “noi” e il reale, con una forte connotazione politica. Se intendo bene, non esistono alternative alla salvezza se non nel confronto collettivo con la realtà (“non abbiamo nulla, di per sé, / da concordare; solo certe cose da rifiutare insieme”). C’è un verso che dimostra più di ogni altro questa caratterizzazione etico-politica: “Tenere vivo il mondo richiede tutt’altra pazienza” (è l’operatore culturale che conosce bene le priorità?). Ma qui vado a tentoni.

    Dalla lettura a ritroso, partendo dal Faldone 16 e tornando al 5, mi è sorta questa domanda: di cosa è allegoria l’insetto del primo pezzo? È il reale? È il “fuori” della scrittura? È l’Altro? Se la scrittura “eccede” se stessa l’insetto è sbattuto fuori dalla pagina: è il rifiuto della rappresentazione? È il rifiuto della normalità letteraria, dove il fuori del mondo è trascritto nel dentro della scrittura? Oppure l’insetto è salvato: la scrittura “salta” quell’essere diverso e così facendo lo conserva dentro di sé (il reale non è negato, ma reinventato)? Il faldone 16 farebbe presupporre che la messa in scena della scrittura, pur nella sua autodeterminazione, non neghi il legame con quanto la trascende; mi sembra che tutto questo Faldone accolga l’irruzione del presente storico: “compitare lettere e parole ostentando in loro il nerbo delle cose”. La lingua “centrifugata” si può “reggere senza le cose”? Ma la lingua riguarda la lingua stessa (poesia come “accanimento terapeutico”). Una coscienza del cortocircuito parole/cose e dell’impossibilità di tenerle separate?

    Ho trovato il terzo pezzo del Faldone 5 molto ma molto divertente.

    Nel pezzo 15 del Faldone 5 quante implicazioni dellavolpiane ci sono? Ostuni dice: “allora non ci distingue, grazziadio, nulla dagli altri; / nessuna special relationship con lo spirito, o il sogno, o il desiderio; /né con la verità, o l’autenticità. / Nient’altro che il gesto rituale …”. Della Volpe invece: “l’oggetto specifico della poesia, in quanto intelligenza concreta, è lo stesso della scienza o delle storia: non differisce, cioè, negli elementi gnoseologici generali, sensibilità e ragione, che sono comuni”.

    E mille altre sollecitazioni …

    n.g.

  10. la poesia di ostuni resterà a me ignota: continua a non riuscirmi la manovra di accesso al sito su-indicato: si apre ma è tutto bianco: qualcuno può helparmi?

  11. A me questi versi fanno stare in bilico, magnifico, nel bianco della pagina.
    Mi piacciono le sconosciute parole che non importa sapere da dove arrivino. Mi piace il suono, attorno al corpo steso, che non si smarrisce, e resiste.
    Mi piace questa urgenza.

  12. Molto bravo, l’unica pecca, ai miei occhi, è che ci sento molto Magrelli, anzi, troppo, e mi viene il dubbio che sia un talento mimetico, ma non so quanto originale. Spero che Ostuni non si dispiaccia, perché da un certo punto di vista sono ammirata, ma se le avessi lette senza conoscere il nome dell’autore avrei pensato subito al modello, e questo mi lascia perplessa.

  13. @chi non scarica (tashtego e altri)

    forse, invece che cliccare col sinistro sul link, potreste per firefox cliccare sul link col tasto destro e selezionare”salva destinazione con nome”; per explorer fare lo stesso e selezionare “salva oggetto con nome”: così scegliete dove scaricare il pdf e lo aprite come volete.

    vincenzo

  14. @n.g.

    sono d’accordissimo con te sulla gran parte dei punti e, soprattutto, ti ringrazio per la lettura intenzionata e forte. Ci tengo a dirtelo subito; domani ti risponderò puntualmente.

    vincenzo

  15. @elisabetta

    grazie mille.

    @elena rosa

    non sai che piacere, finalmente sentire qualcuno che non si fa spiazzare dalla terminologia.

    @alessandro broggi

    grazie alessandro, di cuore.

  16. @alcor

    Cara Alcor,

    non dovrebbe piacere a nessuno sentirsi tacciare di talento mimetico: eppure, nel tuo caso, un residuo lubrico mi scuote. Nonostante apprezzi moltissimo Magrelli, infatti, e nonostante abbia esercitato senz’altro una qualche influenza su di me, sono piuttosto certo che la tua impressione sia errata; eppure ne godo. Ne godo perché mi libera, o meglio concorre nella via di liberarmi, da un’angoscia d’influenza, piuttosto, sanguinetiana, che in più pareri mi ha perseguitato, che non mi riconosco ma che mi pare tuttavia più verosimile della magrelliana. Sei il termine mancante di una disequazione felice, dunque: se posso ricordare sanguineti e magrelli (due poeti che ognuno considera opposti [forse, ma teniamolo fra quadre, teniamolo per te e me, con più punti di contatto di quanto la vulgata, e i due soggetti stessi, ammettano]), allora, tanto “mimetico” non sarò.

    Salutami Actarus (?!),
    Vincenzo

  17. @ostuni

    Mai avrei pensato a Sanguineti, nel tuo caso. Dunque se io ho ragione nel non apparentarti a Sanguineti e tu dici che la mia impressione riguardo Magrelli è errata, hai ragione a non sentirti mimetico e ti rileggerò.

    Actarus?! tu non lo sai, ma mi hai aperto un mondo.

  18. Caro n.g.,

    ho scritto quel che segue già l’altra sera, ma per un giorno e mezzo non son riuscito a postare! Copio e incollo.

    “Razionalità negativa”, “chance bloccata”: certamente nel libro si inseguono (e pensa quanto saprebbero inseguirsi, in ventuno faldoni, rispetto ai soli tre qui proposti!) un’idea di poesia come chance e una come blocco; una come critica (discrimine; dunque presupposto per una reazione, ergo per un’azione) e una come negativo “impotente”; i terzi sembrerebbero – non solo qui, e neanche solo considerando la frizione, che tu del tutto giustamente consideri, fra il faldone cinque e il sedici – esclusi. Per me la poesia (non la poesia tout court; e non la poesia delle “special relationship” – illuminante per me la citazione da Della Volpe: mi daresti per piacere la fonte precisa? – ma la poesia _come andrebbe oggi fatta_), e in generale la scrittura, e più in generale l’arte, o ancora l’attività intellettuale, risentono – solo per me? certamente no – del medesimo “blocco”, fra l’intravista di possibilità rivoluzionarie e la loro inattualità (inattuabilità?); vedi il diuturno dibattito sull’impotenza del – eppure l’imprescindibilità dell’utopia o della proiezione in un futuro altro per – l’intellettuale ecc. Eppure questa stessa dialettica – qui forse la sua sola utilità – racconta qualcosa della nostra posizione (anche, come noti, di “operatore culturale”, ma non soprattutto): e questa indica il tornare drammaticamente alla ribalta del “che fare”. E con esso del “detto” anziché, puramente, del “dire”, come (applaudo io!) osservi.

    “Se intendo bene, non esistono alternative alla salvezza se non nel confronto collettivo con la realtà (‘non abbiamo nulla, di per sé, / da concordare; solo certe cose da rifiutare insieme’)”. Credo tu intenda benissimo. E anche qui tuttavia c’è impazienza per la, pure ineludibile e perfettamente consapevole, politicizzazione della scrittura, per la sua torsione verso il “detto”; che pure non è ancora azione, né saprebbe esserla, non immediatamente. Io da qui non so ancora uscire; ma il mio non saperne uscire, ripeto, indica qualcosa, spero, dei nostri giorni, della nostra storia.

    La scrittura certo si autodetermina, ma certo non nega ciò che la trascende. Quell’insetto schiacciato nella pagina era proprio un insetto schiacciato nella pagina del quaderno – le prime stesure le faccio ancora a mano, per lo più -, ed è un potere della scrittura aprire domande in chi legge, più che in chi scrive!, forse anche quando brani di realtà (presentati come “fatti duri”) vi si inseriscono. Sei tu che per la prima volta mi costringi a confrontarmi a parte subjecti con quel testo. Certo, c’è in primo luogo una paura di _essere_ quell’insetto, quell’occorrenza precisa di moschillo; o di diventarlo; e, chiaro, di fronte a quella sorte l’impulso a scacciarlo dalla pagina, apotropaicamente, _scrivendolo via_. In quest’interpretazione, non si tratta di un confronto fra il dentro e il fuori, fra l’individuo e il reale, ma fra l’individuo non emancipato e l’individuo che intravede una possibilità di emancipazione. L’individuo V.O., se vuoi. Ma la tua domanda è più sottile, e supera i limiti dell’occasione autobiografica. Costringendo dunque, anche me, a oltrepassarli. Se del resto ho inserito quel testo in capo al faldone “metapoetico” (che per fortuna, sia detto fra parentesi, arriva solo per quinto), un motivo ci sarà. O non ci sarà, ma ce lo trovo. Insomma, le solite questioni -mort d’auteur ecc. Il sedici (ma lo noto solo adesso) finisce come comincia il cinque: su un insetto. Che salta. Il primo morto, scacciato dalla penna; il secondo vivo, per “passo sghembo” e “ubriac[o]”. Non ho altro da aggiungere, temo. Vorrei anch’io, povero me, che la poesia, e i pensieri che ci stanno dentro e dietro, facessero fare salti vivi, cambiassero qualche “giro di cervello”, e non fossero saltati via da nessuno.

    Ti ringrazio, spero di sapere chi sei e di risentirti,
    Vincenzo

  19. Grazie ai membri di nazione Indiana prendiamo conoscenza del formidabile vigore letterario che ribollisce in Italia, in particolare nel campo poetico. Leggere i versi di Vincenzo Ostuni è un puro momento di grazia. il faldone G raggiunge una bellezza natale tra ombra tenue e frangia luminosa. Caleidoscopio che rifrange i giochi della lingua.
    -oppure risacca, ritorno alle origini della madre lingua partorita, elaborata nel dolore.

    Felice anno nuovo a tutti.

  20. @ Vincenzo
    leggerti mette buon umore. Ci si sente un po’ meno soli. Condivido il tuo sguardo “estetico”: condivido soprattutto l’idea di poesia come assunzione su di sé della contraddizione tra “l’intravista di possibilità rivoluzionarie e la loro inattualità (inattuabilità?)”. In fondo, siamo ancora nella dialettica tra pessimismo della ragione e ottimismo della volontà.

    Le parole non sono angeli, scriveva Michele Perriera. Non salvano. Ma possono aprire lo sguardo. Possono aprire uno squarcio nel fracasso “patetico-mercantile”. A patto che si eviti la “decorazione”, la ricerca fine a se stessa. E la tua poesia ha questo di inderogabile: l’urgenza di significare, pur non dimenticandosi come poesia. Forse, più che Magrelli o Sanguineti (le somiglianze sono di superficie), direi Leonetti; non come “stile”, ma come atteggiamento: “Non si tratta di tornare alle operazioni del puro significante. Ma semplicemente la questione sta nel timbro. Oggi l’imprevedibile sta nell’invenzione stessa (…). E corrisponde al proprio essere un modello etico disarmonico”. (F.L., in “Gruppo ‘93”, a cura di Bettini e Muzzioli).

    La citazione di Della Volpe è tratta da “Crisi dell’estetica romantica”, e nello specifico dall’ultimo capitolo “Discorso poetico e discorso scientifico”, pagg. 129-134 del Volume III delle Opere (Editori Riuniti).

    @ Andrea
    Nessun problema, anzi: grazie!

    n.g.

  21. @ n.g.

    Lo stesso buon umore anch’io – grazie. riprenderò la “gruppo 93” per rileggermi leonetti – hai ragione, c’è di lui, più nelle intenzioni che nei risultati, temo. e soprattutto cercherò di guardarmi meglio il tuo sito, che mi sembra ricchissimo di spunti e non solo: di direzioni. mi piacerebbe avere modo un giorno di scambiare qualche impressione di persona.

    Vincenzo

  22. “e io mi rimiro sventurato in mano il tesoro di scambio del conquistador in erba;
    ne congetturo controstorici ripristini, o geniali impieghi utensìli.”

    che ne hai fatto poi del caleidoscopio smaciullato?

  23. grazie. avresti potutto farne una collana per i giorni di festa. belle le tue parole. spesso mi sento posseduta da una cimice quantistica.

  24. @ nona

    giusto, ma non avevo il filo – in vari sensi. mi sembra una possessione interessante, fertile, direi. e grazie a te, direi.

  25. sai com’è, “non ho altre carte,
    come si dice, da giocare; se non prendere in fretta la rincorsa; se non andare, accelerare; alla fine eccedere, saltare).”
    spero che tu per i prossimi vetri colorati possa trovare, o ritrovare, il filo.

  26. “Ma dove vai, e dove va la lingua?
    Ti auguro: che lei, e tu, senza le cose non si regga”.

    Ciao V., ci rincontriamo al prossimo blog.

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