Un angelo sul Ponte Vecchio
di Stefania Bufano
– Stanca? – chiese un uomo d’aspetto nordico con i capelli bianchi, avvicinandosi alla giovane ferma davanti al muricciolo del ponte che guardava in basso, verso l’acqua. Lei si voltò a guardare chi fosse, tirò una boccata alla sigaretta e quando buttò fuori il fumo stava già riguardando l’acqua.
– Che cosa vuole.
– Niente, le chiedevo se era stanca.
– Sì, esatto.
La giovane aveva dato un’altra boccata alla sigaretta e l’aveva gettata di sotto. In silenzio i due la guardarono farsi ingoiare dall’acqua nera, che così sembrava più rigonfia.
– Come mai sola a quest’ora? È già mezzanotte. Vive qui vicino, almeno? – chiese l’uomo strano, in ansia per la sconosciuta.
– Mi lasci in pace.
Ora severa stava guardandolo negli occhi.
– Ha capito? Mi lasci in pace.
– Ha ragione, le chiedo scusa. – disse l’uomo e tacque, senza però muoversi.
La giovane parve pentita d’essere stata brutale.
– Lasci stare. Anzi, mi scusi lei. Non si preoccupi: non vivo qua vicino, ma neanche troppo lontano. E poi mi piace camminare.
Con ciò voltò per la prima volta le spalle all’acqua appoggiandosi con la schiena al muricciolo; fece cenno all’uomo di seguirla e dopo pochi passi si fermò sul versante opposto del ponte.
– Abito laggiù.
Indicò di là dell’Arno, in l’alto, tra il verde, nell’oscurità, dove solo emergeva chiara la facciata della chiesa di San Miniato al Monte.
– Perbacco, è sistemata bene lei!
Disse l’uomo contento che l’aveva seguita.
– Lo sapevo io che era una persona speciale. Davvero, lei ha qualcosa di speciale.
– La smetta. – si schermì la giovane, che però forse ora si divertiva.
– No, la prego, mi lasci dire un momento. Anzi, si lasci guardare meglio. – e delicatamente la spostò appena, avvicinandola al lampione fioco.
– Vede, lei sembra… Lei sembra un quadro, capisce? Un ritratto di Piero della Francesca: lei non è mica di questo tempo!
Sorrideva felice.
– Lei è un pittore? – chiese la giovane.
– Già, una specie.
– Come sarebbe una specie.
– Non glielo posso spiegare adesso, sarebbe una storia lunga. Venga, l’accompagno a casa. – e fece per tirarla ancora delicatamente per il braccio e incamminarsi.
– No, non voglio andare a casa adesso. Vado di qua. – rispose lei, così, opponendo resistenza alla mano dell’uomo, si mosse in direzione contraria, dalla parte del Duomo.
– Oh, va bene! – disse l’uomo mostrandosi sempre lieto – Allora l’accompagno lo stesso per di qua, se non le dispiace.
La giovane aveva acconsentito col capo, così si erano incamminati sul lungarno.
Quando furono innanzi al piazzale degli Uffizi, lei si fermò su un balcone che guardava verso l’Arno.
– Vede, questo è uno dei punti che preferisco: davanti il piazzale degli Uffizi con in fondo la Torre di Arnolfo che sta in mezzo alla visuale, perfetta; se ci si volta a sinistra si rivede il ponte Vecchio, mentre a destra, alle nostre spalle, si vece la chiesa di San Miniato adagiata sulla collina, e pare così vicina! Così vicina che si può toccare con mano.
L’uomo la stava ascoltando in silenzio, girando la testa dove la girava lei ogni volta indicando.
– Da questo punto, – continuò la giovane – da questo punto si tiene Firenze tutta in un pugno, vede? – e fece un gesto ampio circolare col braccio – Si è ovunque contemporaneamente.
– È vero. – disse l’uomo ancora contemplando. – Chi le ha insegnato a guardare le cose in questo modo?
– Mio padre.
– Sta lassù? – chiese l’uomo indicando la chiesa di San Miniato.
– No, lassù. – e noncurante indicò il cielo – Oppure qua sotto. – e indicò a terra – Insomma, secondo i punti di vista.
L’uomo era rimasto in silenzio, come avendo trovato una conferma. Poi chiese ancora indicando verso San Miniato:
– Lassù con chi abita?
– Con mio padre e mia madre. – rispose la giovane sorridendo enigmatica.
– Come sarebbe. – contestò l’uomo – Lei mi sta prendendo in giro.
– I miei genitori adottivi. – aggiunse lei seccamente.
– E il suo padre vero?
– Non l’ho mai conosciuto, ma so per certo che è morto; come mia madre, del resto.
– Allora, poco fa, quando mi ha detto che era suo padre ad averle insegnato a guardare a quel modo, si riferiva a suo padre adottivo, che immagino sarà vivo. E mi prendeva un po’ in giro…
– No, mi riferivo a mio padre vero che non ho mai conosciuto. Quando non conosci qualcuno, ti può insegnare tutto. Non crede?
– Curioso, – disse pensoso l’uomo – ma sì, è vero!
– Ma… – riprese – anche i suoi genitori adottivi le avranno insegnato qualcosa.
– Sì, certo: – confermò lei in tono sprezzante – mi hanno insegnato a buscarle. E poi a fare la serva.
L’uomo era rimasto male a questa risposta, ma di nuovo sentì di aver trovato una conferma.
La giovane pensò che il silenzio dell’uomo significasse avergli dato definitiva impressione di stravaganza:
– È come la storia che lei è una specie di pittore: una storia lunga di cui non mi va di parlare adesso. Guardiamo ancora Firenze, vuole? – e all’invito gli sorrise con inaspettata tenerezza, sfiorandogli un braccio per invitarlo a muoversi.
L’uomo sorrise a sua volta, lievemente turbato.
– Certo.
***
Attraversarono il piazzale degli Uffizi tenendo la testa per aria, zigzagando tra una statua e l’altra che dalle nicchie li guardavano. In piazza della Signoria non c’era nessuno, eccetto due che, tutti aggrovigliati, si baciavano nascosti sotto la Loggia de’ Lanzi.
Da Via de’ Calzaiuoli arrivarono a piazza Duomo e sostarono al Battistero, non davanti al portale principale a Est, la cosiddetta Porta del Paradiso, ma quasi al suo opposto, sul lato Sud-Ovest.
– Ecco, questa lastra di marmo è la mia preferita. – disse la giovane, e ci si avvicinò. – Vede com’è perfetta? – indicava certe striature, poi se ne allontanò facendo due passi indietro. – Venga qui con me: vede?
– Sì, vedo, ma cos’è?
– Cosa le sembra?
– Non saprei.
– È un albero. Precisamente un abete. Un abete bianco. Lo vede?
– Aspetti, aspetti… – l’uomo si avvicinava alla lastra e si allontanava – Sì, lo vedo! È incredibile, è perfetto: un abete, proprio così.
– Adesso non dimenticherà più questa cosa, e tutte le volte che passerà di qui, si ricorderà di questo momento, non è così? – gli disse la giovane, entusiasta di averlo messo a parte del suo piccolo segreto.
– Sicuro! – rispose l’uomo ridendo e per la prima volta abbracciandola.
La giovane, imbarazzata per lo slancio imprevisto dell’uomo, rimase immobile, irrigidita, e poiché l’abbraccio suo forte ancora non si scioglieva, ebbe tempo di capire che anche il proprio, poco dopo, lo era diventato.
– Non si uccida, la prego. – sussurrò allora l’uomo all’orecchio di lei, mentre la teneva stretta esattamente come prima.
– Va bene. – rispose lei sincera e sconvolta di essere così scoperta con quello sconosciuto che invece la conosceva bene.
Quando lui udì la risposta di lei, lasciò la presa e per non restare immobili uno di fronte all’altra, tacitamente ripresero a camminare anche se quasi barcollanti. Avevano bisogno entrambi, ora ancor più, di camminare. Camminavano sempre più veloci e sempre in silenzio. Percorsero la Via de’ Cerretani, svoltarono in piazza Santa Maria Novella e su su, si ritrovarono sul lungarno in un lampo. Il ponte alla Carraia era deserto: si sentiva solo l’acqua appena sotto le arcate; i due sconosciuti andavano ora così svelti che quasi correvano, ed erano già in cima a Via de’ Serragli, alla Porta Romana.
– Da qui posso andare sola. – disse la giovane arrestandosi improvvisamente, preoccupata per il suo compagno. – Lei dove abita, non gliel’ho nemmeno chiesto.
– Oh, non si preoccupi, qui vicino.
– Dove esattamente.
– Ci siamo passati poco fa: vicino al ponte alla Carraia, in piazza del Cestello. Starò poco a riscendere.
L’uomo guardò verso il viale Machiavelli, già incamminandosi. Lei lo seguì senza insistere.
Dopo venti minuti la giovane indicò che dovevano tagliare per una strada secondaria, finché non si trovarono davanti a un cancello appena illuminato. L’uomo, da dopo il loro abbraccio, sembrava diverso, non mai scostante, era teso, mentre la giovane, dapprincipio così decisa, ora era titubante, la più dolce fra i due.
– Io riposo qui – gli disse guardandolo, attendendo che lui dicesse qualcosa d’importante.
– Bene. Sono contento che sia arrivata a casa sana e salva. – scherzò l’uomo.
– Allora… Io vado. – lo avvertì la giovane triste.
– Bene, allora arrivederci.
L’uomo le aveva teso la mano per stringergliela.
– Magari, se lei vive in piazza del Cestello… – disse incerta lei, mentre gli stringeva la mano – Potremmo incontrarci ancora.
– Certo. – confermò lui senza aggiungere altro.
– Magari invece non c’incontreremo più.
La giovane dava già le spalle all’uomo, apriva il cancello.
– Ma no, vedrà, Firenze è piccola. Buonanotte.
– Buonanotte allora e… – lo guardò come fosse l’ultima volta – Grazie.
Quando il cancello fu chiuso, l’uomo si fermò per un istante a leggere la targa lì esposta: CASA DI RIPOSO BENCINI. Sorrise soddisfatto. Si mise le mani infreddolite in tasca e s’incamminò.
Dopo neanche un’ora, il fiume Arno, in piena, ruppe gli argini. L’acqua marrone, nel buio della piena notte, in pochi secondi, travolse i ponti, le strade, tutto.
4 Novembre 2006
(Immagine: Walter Puppo, Cellula. Per gentile concessione dell’Autore.)
L’ho letto tre volte.
La prima mi ha lasciato un’inquietudine sottile. Di quelle a cui a lungo non sai dare un nome. Che ti accompagna come una domanda di cui tu stesso non capisci il senso, l’origine, lo spazio esatto che viene ad abitare. Sulle labbra o altrove.
La seconda, invece, ha seminato nella mente l’intera gamma dei colori dell’attesa. La commozione di chi sta aprendo un varco. Oltrarsi fino alla parola che salva o che sprofonda. Naufraga.
La terza. Ero sul ponte, dopo aver ripercorso a ritroso l’intero cammino. Quasi fossi acqua che, a rovescio dei giorni, migra verso la sorgente che era stata. Nel riflesso dell’ultimo lampione, leggevo frammenti d’anima. Riaffiorati per un attimo in forma di fiori o di memoria. Luminosi glifi di schiuma venuti a saziare la sete delle ombre.
Grazie per questo bellissimo dono.
“Quando non conosci qualcuno, ti può insegnare tutto”.