Vite minori
di Marco Rovelli
Quando sale in macchina, al posto di guida, Thomas entra rinculando, appoggia il sedere sul sedile e tira dentro le gambe. Allora te ne accorgi. Te ne accorgi anche quando deve superare un dislivello, come quando ha sceso il gradino per entrare nel basso dove mi ha portato a mangiare, una stanza arredata solo di tavoli e sedie di plastica dove una coppia di ghanesi ha messo in piedi una specie di “trattoria”, chiamiamola così, dove il piatto unico è riso con carne, e dove incontri quei ragazzi che lavorano nelle fabbriche, che perdono il lavoro e diventano clandestini, che offrono le braccia per la raccolta delle patate (magari, pensi, per una strana costellazione proprio quella patata che stai mangiando con il riso mentre lui ti racconta il suo “viaggio in Italia”).Allora, dicevo, quando Thomas deve superare un dislivello si mostra la rigidità delle sue gambe, è il corpo tutto intero a dover operare quella torsione che normalmente sarebbe in capo al ginocchio. Gli è che le gambe di Thomas sono posticce, due organi artificiali che gli sono stati impiantati dopo che un’auto rottamata gli è caduta addosso mentre lavorava e gli ha schiacciato le gambe quelle vere, quelle che si era portato dietro dalla Liberia e che gli avevano reso un ottimo servizio facendogli attraversare Monrovia in fiamme e la foresta, un mese di foresta, verso la Costa d’Avorio. Un incidente sul lavoro, un incidente letale, uno dei tanti. Era in regola, ché gli avevano dato il permesso umanitario. Aveva trovato un contratto annuale, da uno sfascino. Attaccava a lavorare alle sette del mattino e andava avanti fino alle sette di sera, con un’ora sola di pausa, dall’una alle due. Faceva tutto, camionista, gruista, meccanico. Ma uno come Thomas non può permettersi di rifiutare orari né mansioni. Le norme di sicurezza, là dentro, erano troppo poche. Prima di lui altre tre persone avevano avuto un incidente grave. Il padrone non faceva manutenzione adeguata, per risparmiare. La gru non funzionava bene, lo sapevano tutti, ma il padrone non voleva comprare pezzi nuovi. Thomas era andato a controllare che nel bagagliaio della macchina non ci fosse una bombola di gas, ché stavano per compattarla e le bombole vanno tolte. La macchina è scivolata, e Thomas c’è rimasto sotto con tutte e due le gambe. Adesso gli hanno sostituito il permesso di soggiorno: non più quello umanitario, ma quello per motivi di salute.
Thomas ha dovuto smettere di fare kickboxing, ché lui era un maestro di quello sport, e per questo era conosciuto e rispettato in tutta la comunità africana di Palermo, così come lo era a Monrovia. Lo è ancora, peraltro, conosciuto e rispettato. E’ un uomo buono, così mi dice il ragazzo ghanese nel basso che fa da trattoria. Alto, possente, una bandana sempre sulla testa, il taglio degli occhi che si aprono come fessure sul volto scurissimo, Thomas is a real good man.
Ho un problema, mi aveva detto al telefono qualche giorno prima. There is my sister in the CPT. A Ragusa. Cosa possiamo fare? Non sapevo che Thomas avesse una sorella qui. Si chiama Mercy, dice Thomas, E’ nigeriana. Nigeriana e sorella di Thomas sono due attributi che non riesco a far consistere. No, dice Thomas, Non è proprio mia sorella, she’s my christian sister, sorella di fede. Thomas, lo scopro adesso, è pentecostale, e appartiene alla comunità pentecostale degli africani palermitani.
Come fare, mi dice. Chiamo Filippo, l’avvocato di Catania del collettivo migranti. Un amico, un compagno. Le due cose stanno insieme, condividono il medesimo limite, lo sono. Digli che Mercy mi nomini come suo avvocato. La nomination, per un migrante che sta nel CPT, non è l’espulsione dalla casa del Grande Fratello, o da un reality-show qualsiasi. Come si conviene a una reality occultata nell’invisibilità, le cose qui stanno a rovescio, e la nomination di un avvocato come Filippo può essere la chance per evitarla, l’espulsione.
Ci vediamo vicino alla stazione, come le altre volte mi viene a prendere lì, e subito risuona la risata consona al suo corpo, davvero quella risata è consonante, il corpo è come una grande cassa di risonanza, e risuona presenza. Appeso allo specchietto retrovisore c’è un peluche nuovo, Si vede che il bimbo è nato! Thomas ride ancora, e mi mostra sul cellulare la foto del piccolo Godwin. Sì, è Dio che lo ha voluto, mi dice. L’altro figlio ha tre anni, ma è restato in Africa, con la madre, e Thomas non è più riuscito a vederlo, da quando è stato costretto a scappare all’improvviso da Monrovia in fiamme che il figlio era appena nato. Adesso c’è Godwin. Non capisco perché non dev’essere cittadino italiano, dice Thomas. In Francia non è così, se nasci lì diventi cittadino francese, qui invece no, non capisco. Non lo capisco neppure io, Thomas.
Andiamo a bere una birra in un basso che fa da bar per gli eritrei palermitani. Scendi quattro gradini, e trovi i soliti tavoli di plastica. In più qui c’è una tv sintonizzata sul canale eritreo, una mensola con un paio di bottiglie di whisky vuote, e alle pareti poster del paese. Uno è un ritratto di Hailé Selassié, con una frase stampata accanto al suo augusto profilo: “In verità non esiste ragione talmente legittima da giustificare una guerra”. Qui sono quasi tutti disertori, scappano dalla mobilitazione permanente contro il fantasma etiopico, e questa critica è la più radicale che abbia visto. Mangiamo injera e zighinì, e parliamo dell’Eritrea, del suo stalinismo riveduto e corretto. Un ragazzo ha l’acconciatura a treccine, Hai la faccia da musicista, gli dico. Ad Asmara facevo il dj, risponde, Adesso sono appena tornato dalla raccolta dei carciofi, venti euro al giorno, si dormiva dove capitava. Non c’è più musica per far danzare la vita, si vorrebbe dire con Céline, ma in questo bar la musica è alta, qui le cose devono essere normali. Un brindisi al futuro.
Mercy è ancora nel CPT, mi dice Thomas dopo che siamo usciti. E mi racconta di lei. E’ arrivata dalla Nigeria pagando un sacco di soldi il debito va pagato, e il creditore ha il diritto di pretendere oltre ai soldi anche il modo in cui vanno guadagnati, quello è il suo interesse, il suo interesse è che Mercy faccia la buttana, così mi dice Thomas, buttana, lui voleva che Mercy facesse la buttana. Quello è un uomo da buttare, dice Thomas, senza essere sfiorato dall’assonanza, senza voler fare nessun gioco di parole. Ma Mercy non ci sta all’interesse del suo creditore, Io la buttana non la faccio, vaffanculo. Così il creditore, che conosce la legge, chiama la polizia. Mercy è clandestina, e il suo posto, se non è sulla strada, dev’essere in un CPT. L’aveva minacciata più d’una volta, e alla fine è passato all’azione, visto che lei si era andata a cercare dei fratelli in Cristo che la aiutavano. La legge è intervenuta, e ha fatto il suo dovere. Mercy è stata rinchiusa nel brutto edificio di via Colajanni, nel CPT che pochi giorni prima la commissione governativa che ispeziona i centri ha giudicato inadeguato. Forse verrà chiuso, almeno questo. Mercy, però, ha il tempo di vederlo. Anche se ne uscirà, deo gratias, in suolo italiano, visto che la comunità che le sta intorno le ha dato un avvocato accorto, che le ha fatto richiedere l’articolo 18, quello che consente alle donne sfruttate di ottenere un permesso di soggiorno se denunciano il loro sfruttatore. Fortunata, Mercy. Ancora una volta mi accade di raccontare di persone fortunate. Perché per molte ragazze come Mercy non è stato possibile richiedere protezione. Per mancanza di informazione. E’ successo anche a Thomas, del resto, di non essere informato. Nessuno gli ha detto che avrebbe potuto fare ricorso contro il rifiuto della sua richiesta di ottenere lo status di rifugiato. In questo mondo, di informazione, poca o troppa che sia, si muore.
Thomas mi saluta, Vado al mio call-center. Scopro anche questo oggi, che Thomas ha messo su un call-center, perché per chi è costretto ai lavori neri le reti sono tutto, e per adesso nessuno ha pensato di controllare le telefonate in partenza per i paesi dei clandestini, fino a quando non accadrà conviene tenerle tese.
Vi scrivo da Buenos Aires. Sono entrato a un sito argentino che si chiama nacionapache.com.ar. E molto simile al vostro. Volevo sapere si è un gemmellagio oppure una semplice “casualitá”.
Grazie
visto il sito.
è non capisco proprio, Illuminateci redattori…
b!
Nunzio Festa
Anche io ho visto il sito, ma non può essere una casualità. E’ identico nella grafica, nella divisione delle ribriche. E’ uguale. Ma che è????
E’ fantastico! Ma se non è una grandiosa presa per il culo, si può fare una cosa del genere, cioè creare un sito identico ad un altro per filo e per segno?
Vite minori, si. Le “migliori”? Non credo. A volte si fa confusione. Non esiste una supremazia etica degli ultimi. Esistono i diritti degli ultimi, che è cosa ben più laica e necessariamente relativa, alla quale credo.
La “simpatia umana” non può rapportarsi alla condizione personale, non lo credo.
Naciòn Apache: sto scambiando email con loro in questo momento. La cosa mi diverte, ogni seguito sul tema per favore in bacheca.
Vite minori: proprio oggi guardavo dele foto della comunità nigeriana in Italia. Da questo racconto/rapporto saltano fuori le persone, piene, reali e problematiche.
Secondo me è una burla: di articoli se ne possono raccattare velocemente qui e là, ma i commentatori no! :-)
opss! scusa jan, non avevo visto. vado in bacheca.