Caro Scalfari
Pubblico con colpevole ritardo questa lettera aperta di Lucio Del Corso a Eugenio Scalfari in seguito al suo articolo del 19 novembre su “Repubblica”. Mi sembrava tuttora più che attuale.
Caro Scalfari,
quando ho letto il suo articolo di domenica, non ho potuto fare a meno di provare un certo stupore: non tanto per il tentativo di giustificare, con una serie di sapienti giri di parola dal sapore vagamente filosofico, un attacco a leader sindacali (lei citava Guglielmo Epifani, ma in piazza il 17 novembre c’erano anche rappresentanti di altre organizzazioni, oltre alla CGIL), al presidente della CRUI, ai direttori dei più importanti istituti di ricerca italiani, a un paio di Nobel che si sono schierati con loro, a centinaia di presidi di facoltà e di direttori di dipartimenti inviperiti, e a migliaia di ricercatori strutturati e a tempo, per tacer delle centinaia di migliaia di precari sempre più spremuti e in bolletta, che erano scesi in piazza prima di loro: tutti accomunati, nel suo sermone, dalla spiacevole tendenza a valutare il proprio particulare più della casa comune democratica in cui pure tutti viviamo.
Quello che mi ha stupito è stata la sostanziale superficialità di questo attacco, assolutamente distante dalle brillanti analisi economiche che caratterizzano spesso i suoi ‘pezzi’ domenciali. Una superficialità che non può che nascere se non da un deficit di conoscenza, per così dire, empirica dello stato degli Atenei italiani oggi e inevitabilmente di quello che vuol dire ‘precariato’, dal momento che questa condizione di lavoro accomuna, oggi, call center, università e blasonati istituti di ricerca (con stipendi, ahimè, assai vicini).
Mi permetta, allora, di illustrarle dal mio punto di vista alcune cose su questo argomento.
Posso definirmi a buon titolo un ricercatore precario. Da quando ho finito il dottorato di ricerca, quattro anni fa, ho insegnato in quattro università differenti, ho partecipato a progetti nazionali e internazionali, ho contribuito alla redazione di volumi scientifici in diverse lingue europee, meritandomi per tutto questo uno stipendio di circa 900 euro al mese (anche se in realtà lo stipendio in questione non è versato mensilmente, ma di solito circa un anno dopo la fine della prestazione professionale richiesta: il che significa, ad esempio, che alcuni dei corsi che ho finito di tenere a maggio 2006 mi saranno pagati non prima di aprile 2007, se il dissesto finanziario delle Università non implicherà ritardi ulteriori). Naturalmente ho pubblicato un po’ di articoli e dei libri, anche in sedi piuttosto blasonate, ma per quello non ho percepito neanche un soldo. Se devo recarmi da qualche parte in missione, di norma anticipo tutto di tasca mia (i precari, quando riescono ad avere finanziamenti, naturalmente non percepiscono diaria), e devo attendere dai 3 ai 6 mesi per il rimborso. Per poter svolgere attività di ricerca senza gravare troppo sulle spalle dei miei genitori sono costretto, come molti miei colleghi, a cercare di avere borse di studio per trascorrere un po’ di tempo all’estero, o di farmi ospitare da istituzioni straniere. Al momento, ad esempio, sono in una lussuosa fondazione sul lago di Ginevra (la Fondation Hardt), dove i giovani ricercatori vengono letteralmente serviti e riveriti, e hanno a disposizione strutture che per la povera italietta sembrano pura fantascienza.
E’ solo per questa lontananza geografica se il 17 novembre non sono sceso in piazza anch’io a protestare, pur con la morte nel cuore perché a mia volta – pur da posizioni più ‘di sinistra’ rispetto alle sue – mi ritengo un supporter del governo Prodi. Ma i tagli inflitti all’Università mi sembrano davvero troppo pesanti per essere digeriti col sorriso sulle labbra e qualche rimembranza kantiana nel cuore.
Perché di tagli si tratta, Scalfari, e non di «finanziamento insufficiente alla ricerca», come lei scrive con suggestiva litote. Il ministero ha previsto una sforbiciata di più di un punto percentuale al Fondo di Funzionamento Ordinario (FFO) degli Atenei. L’FFO è il budget in cui confluiscono tutte le risorse delle Università. Più del 90% di questo fondo è impiegato per spese correnti che non possono essere ridotte, e cioè stipendi e affitti. Col restante 10% bisogna far fronte a tutto il resto, dalla manutenzione degli stabili ai fondi di ricerca dei dipartimenti alle borse di dottorato e contratti per i precari, nonché alle eventuali nuove immissioni di giovani ricercatori strutturati. Se si riduce l’FFO – come si è fatto per tutti i cinque anni del governo Berlusconi – rettori, senati accademici e consigli di amministrazione sono automaticamente costretti a cercare di sfrondare qualche voce che grava su questo 10% residuo, ma con meno possibilità di manovra di quanto si possa immaginare. Gli sprechi che avvengono nelle Università sono spesso il frutto di procedure burocratiche sclerotizzate su cui la finanziaria non è intervenuta (e forse non poteva intervenire) e che comunque gli Atenei non possono riformare unilateralmente. Penso ad esempio al meccanismo delle gare d’appalto per le forniture, che comporta spesso per le strutture di ricerca l’impossibilità a spendere realmente bene il proprio denaro, e una crescita dei costi incredibile (nonché ritardi infiniti). Per risparmiare soldi pubblici e rendere gli investimenti più produttivi si dovrebbe intervenire in maniera drastica su questi nodi: ma per farlo ci vuole tempo e giudizio. Il tipo di taglio imposto dal governo per far cassa, invece, non si potrà tradurre in una gestione più virtuosa delle risorse, ma per sua stessa natura imporrà una scelta: tagliare i servizi agli studenti o le opportunità di ricerca? E però i servizi offerti sono già così pochi – a parte la viva voce dei docenti – e le strutture così carenti che tagliare su questi versanti è di fatto improponibile: semplicemente, non c’è più niente da tagliare. In una delle università in cui ho insegnato le prese di corrente nelle aule sono cronicamente rotte da quattro anni almeno. I bagni – ovunque io sia andato – sono ridotti generalmente in condizioni pietose (e non mi riferisco certo alle scritte sulle pareti). Mancano proiettori collegabili ai computer, scarseggiano i toner per stampanti e fotocopiatrici, e spesso persino pennarelli, gessi e cancellini. Le mense – dove ci sono – sono diventate costose quanto bar e tavole calde.
La riduzione dell’FFO, allora, si tradurrà, com’è accaduto ogni volta in questi cinque anni, in tagli alle retribuzioni dei contratti dei precari, alle borse di dottorato, ai fondi ERASMUS, ai fondi di ricerca di ateneo, agli acquisti di libri, e in generale in una minore possibilità di immissione in ruolo di nuovi ricercatori: i pochi spiccioli offerti su questo versante, infatti, non riusciranno nemmeno a coprire il turn over (a giudicare dalle proiezioni del ministero di qualche tempo fa). E’ quello che ho potuto vedere con i miei occhi, del resto: la già magra retribuzione dei miei contratti è calata, negli ultimi anni, di circa il 20%. E spiace davvero che di tutto questo sia responsabile un governo che continua a dire di voler mettere l’Università e la ricerca al centro della propria azione legislativa. Evidentemente, anche per molti dei leader dell’Unione (come forse per Eugenio Scalfari) gli Atenei italiani sono in primis la sede in cui un gruppo di baroni – già ricchi di famiglia – si parla addosso di argomenti poco comprensibili e decide a tavolino concorsi truccati in partenza. Ma la realtà dei fatti non è questa, o almeno non è solo questa. Accanto a baroni e presunti tali ci sono migliaia di ragazze e ragazzi potenzialmente molto bravi che per continuare a fare ricerca sono posti, anno dopo anno, di fronte a una scelta: emigrare, restare a casa dai propri genitori a oltranza o fare letteralmente la fame. Su queste migliaia di ragazze e ragazzi, spesso, grava buona parte dell’onere della didattica e del funzionamento dei laboratori.
I tagli voluti dal governo colpiranno loro, in primo luogo: è da qui che nasce l’indignazione di Epifani e di tutti quelli che sono scesi a manifestare il 17 novembre (molti dei quali dovevano conoscere Aristotele, gli Stoici e Hannah Arendt piuttosto bene, a occhio e croce).
L’Università è uscita dagli anni della Moratti letteralmente in ginocchio: ferita nel proprio orgoglio, limitata nella possibilità di partecipare a grandi imprese internazionali (la decifrazione del genoma umano! La fusione pulita! La creazione di biblioteche virtuali!), impossibilitata sempre più ad aggiornarsi per continuare a svolgere il suo ruolo imprescindibile di alta formazione, ripiegata su se stessa e lontana dai dibattiti culturali più vivi nel presente, impoverita e sostanzialmente povera. L’arrivo del nuovo governo era atteso come l’epifania di un messia salvifico. Nessuno si aspettava una pioggia di denari, ma appena un qualche piccolo segnale di inversione, di rinnovata premura. Invece – a parte lodevoli discorsi di Fabio Mussi – le modalità di intervento riproposte sono state esattamente identiche a quelle degli ultimi anni. E brucia ancor di più che al tempo stesso risorse ingenti siano regalate ad imprese che in questi anni non hanno saputo far altro se non succhiare denaro pubblico senza creare innovazione o occupazione, e che le spese militari (oltre alle risorse impiegate per le missioni all’estero) aumentino a dismisura. Brucia il fatto che il governo non riponga in noi nessuna fiducia, non ci consideri una componente strutturale del sistema-paese, ma piuttosto una cosa superflua, un ornamento necessario per non sfigurare troppo in certi salottini europei, ma di cui, in tempo di restrizioni, si può fare a meno. Le cose non stanno così.
E le proteste – peraltro assai sommesse – di ricercatori a tempo e precari non possono essere liquidate come il gesto infantile di chi ha perso di vista il bene comune, o peggio come il tentativo di difendere privilegi ingiusti (alla stregua di avvocati ed evasori fiscali). Sono l’ennesimo segnale di allarme, l’ennesimo grido prima di un naufragio che, purtroppo, rischia sempre più di diventare inevitabile. E’ così difficile, e costoso, starlo ad ascoltare?
Scalfari, almeno a mio modesto parere, non ha mai brillato per democraticità di sinistra, nonostante la proclamata appartenenza politica (ma del resto, pochi membri democratici e di sinistra, nell’Unione, si dimostrano effettivamente di sinistra ed effettivamente democratici…). Ricordo, ad esempio, un interessante faccia a faccia televisivo, in cui il Nostro, discutendo di ricerca genetica con il cardinal Ruini, relativamente al problema della bioetica e della libertà e dei rischi della ricerca genetica, si trovava… a destra del cardinale. Mentre Ruini, con la veemente dialettica che lo caratterizza, parlava infatti di orientamento etico delle finalità della ricerca, senza che tale orientamento etico implicasse il blocco del progresso dell’ingegneria genetica, dinanzi ai problemi posti da un’infinità di malattie ereditarie ancora non curate, il buon Eugenio Scalfari esprimeva, con compunto (gesuitico) sorrisetto da laico postmoderno in deriva destinale di (pseudo-)sinderesi, la necessità… di fermare praticamente per sempre i laboratori, perché sicuramente avrebbero prodotto mostri e sonni della ragione! Bell’epoca di disvelamenti e disillusioni, quella, in cui, sulla “Repubblica” dell’èra del governo d’Alema ligio alleato NATO, interveniva una Miriam Mafai che, da signora del femminismo targato centro-sinistra, in un articoletto di fondo scriveva, a proposito di regime dei talebani e di burkha, che erano fuori luogo i pareri di condanna relativi alle atrocità commesse contro le donne da parte dei cosiddetti “studenti di teologia” afghani, in quanto quella degli Afghani era (sic e sigh!) un’altra cultura, e bisognava finirla col nostro femminismo eurocentrico (pfui)!
Non chiediamo pareri democraticamente coerenti e coerentemente di sinistra, a chi si fa portavoce di una tecno-struttura bancaria e finanziaria e di un’alta burocrazia (di qui il suo lucido economicismo, materialismo storico senza dialettica, sovietismo imborghesito senza utopia), a chi si fa portavoce di un’élite di funzionari e di potentati che esprime un orientamento di governo che moltiplica astratti (e in realtà non rispettati) diritti solo per moltiplicare concreti controlli, poltrone e introiti da destinare a chi di dovere. L’alternanza (senza alternative), che caratterizza il bipolarismo italiano, vede di fatto avvicendarsi in una pantomima orchestrata, un dirigente aziendale signore di foche ammaestrate, e un gruppo di oligarcucci e tirannelli che si fanno favori l’un con l’altro: un cesaretto mediatico contro un senatino finanziario: un trono televisivo contro un circolo di posti a sedere riservati. Se si vota per quest’ultimo, è solo perché il senato finanziario è appena un po’ meno lontano dall’idea di una società civile fatta di eguali. Ma non facciamoci illusioni. Di fronte al restringersi obbiettivo di risorse e spazi, una classe dirigente non parlerà che di tagli, alla ricerca, alla scuola, alla sanità, ai servizi in genere (se è poi una societas di notabili eterodiretta, asfittica e priva di immaginazione, come quella che l’Italia da secoli si ostina ad esprimere, la faccenda va ancora peggio). L’unica differenza fra i vari schieramenti, sta nella natura e nel metodo dei tagli e nelle tasche in cui gli emolumenti risparmiati o spremuti si dirigeranno per naturale Verschiebung. E intorno, pericolosamente corteggiati dal suk politico per ragioni meramente elettorali, gruppi e gruppuscoli eterogeneissimi di fanatici secessionisti, neo-nazi, religiosoidi, parastalinisti… Il tutto condito con una ragion pigra del pensiero debole, che, nella sua volgarizzazione, autorizza a qualsiasi abdicazione ideale, in nome del concetto di una realtà porosa e ridotta essa stessa a finzione della convenienza.
Non chiediamo il rispetto dei nostri effettivi diritti (a una ricerca che proceda, a una scuola che funzioni, a una sanità efficace, a una polizia veramente tutrice dell’ordine, a una retribuzione decente, a un minimo di strutturale sicurezza economica) ai tribuni arrampicatisi in cima alla piramide e trasformatisi, per tempo, in consoli e censori. A gente che a vario titolo, nelle fila della “cultura”, della “stampa”, della “politica” (virgolette d’obbligo), partita dalle schiere dei rivoluzionari d’un tempo, è arrivata a farsi portavoce della stabilizzazione e della fissità dello status quo.
sono d’accordissimo quando si parla di poche possibilità per laureati “poveretti”
io ho provato a intraprendere la carriera accademica ma mi hanno subito tagliato le gambe perchè non potevo pagare e quindi i posti disponibili con borse di studio per dottorandi erano già assegnati a due belle ragazzotte ciotte ciotte…
sono emigrato e ritornato per inseguire nobili scopi…
spero di aver fatto la scelta giusta
la mia relatrice di tesi un giorno mi disse: nn provare ad entrare a quel dottorato perchè rimarrai deluso…
ci ho provato e sono uscito si incazzato ma più deciso di prima!
Cos’è un “naturale Verschiebung”?
Se posso modestamente dire, commentare il post complesso e il commento denso – pure troppo, che con le molte parole il succo si disperde e non si trova – direi questo.
Di questa finanziaria non ho capito un cazzo.
In genere non mi occupo di approfondire finanziarie, vengo da una cultura in cui la politica ti proponeva un futuro, anzi tre o quattro futuri in alternativa e conflitto: anche la più scrausa e corrotta delle forze politiche proiettava una sua immagine di società da costruire.
Qualcuno le chiama ideologie e le depreca, ma anche qui, come al solito, er discorzo è complesso.
Oggi è già tanto se qualcuno riesce a proporti, descrivendola, la permanenza nel presente, scongiurando ritorni molto probabili a caos medievali.
I motivi di ciò sono molti e non tutti imputabili ai “tirannelli”.
La società che li elegge – vecchio adagio sempre valido – non è migliore dei suoi tirannelli, così come non è peggiore della propria università.
Il discorso di Lucio Del Corso suona accorato ma ambiguo e non riesco ad aderire.
Lui elenca una situazione che, se posso dire, è eterna, endemica e strutturalmente schifosa.
I rapporti tra università ricerca finanziamenti potere accademico precariato didattica eccetera sono complessi e in essi si annidano privilegi eterni, inamovibili, primo fra tutti il ruolo che la società accademica gioca tra politica e padronato e sindacato e media, a fronte del quale la Meretrice di Babilinia era una santarella, che frutta bei soldi e buon prestigio.
Qualcuno questa finanziaria la dovrà pure pagare e, visto che di rivoluzioni proletarie non se ne vedono all’orizzonte, i tagli si abbattono anche sull’università, cioè su piove sul bagnato, su una merda che è eterna, con o senza soldi.
Una merda che però, appena per un qualsiasi motivo, provi a toccarla, a riformarla, a modificarne i fondi, da destra da sinistra dal centro, subito scende in piazza e si “ribella” perché le sua partite e i suoi regolamenti di conti se li vuole smaltire in casa, senza che nessuno venga a dirle cose deve o non deve fare. E vinca il peggiore.
Aggiungo che prendersela con Scalfari è come prendersela con la mummia di Similau.
A me spiace naturalmente sentir parlare dell’università come di una merda eterna proprio perchè – vivendoci dentro e con tutti i rischi di avere una visione contorta che questo comporta – non riesco a vederla soltanto come una puttana che va con sindacati, padroni e media.
Io ci vedo dentro tante persone che si fanno un culo così PRINCIPALMENTE PER PASSIONE, e che guadagnerebbero molto di più facendo altri mestieri (soprattutto in Italia). E mi dispiace che quello che si fa negli atenei appaia fuori come inutile, nebuloso, buono solo per giustificare immeritati. E’ colpa anche nostra – di chi ci lavora e non riesce a farsi sentire decentemente – se quest’immagine continua ad essere così radicata. All’estero non è così (vedi il tipo di risonanza che in Francia hanno avuto le proteste nate da studenti, precari e ricercatori vari la scorsa primavera).
I ricercatori precari e non (come gli insegnanti del resto) non sono stati mai bravi a farsi capire da chi non è dentro l’università, nè per quanto riguarda i risultati e l’importanza del loro lavoro, nè per quanto riguarda i loro oggettivi problemi. Colpa nostra, naturalmente. Intendiamoci, non che non ci siano ingiustizie, sprechi, sbagli, personalismi, ricatti, merdate assortite. Ma esistono fogne ben peggiori, credetemi.
Il fatto è che oggi qualsiasi ricerca scientifica è strutturata in maniera tale da aver bisogno di un grande numero di persone che fanno il ‘lavoro sporco’. Non esistono più i geni solitari: serve il lavoro di squadra, le équipe, la potenza di calcolo etc. etc. Il che vuole dire, in soldoni, che servono strumenti adeguati e soprattutto un esercito di persone, se si vuole provare a fare cosette come curare il cancro, trovare nuove forme di energia, trovare il modo per conservare le opere d’arte del passato etc. etc. Solo che in Italia queste persone sono troppo poche, vengono pagate male, hanno contrattini del cazzo e per di più sono spesso ricattate e particolarmente ricattabili, anche se dovrebbero essere trattati meglio, perchè hai voglia tu a formare qualcuno che sia capace a mettere le mani in un laboratorio e una biblioteca. Senza persone di questo tipo didattica e ricerca si fermano.
Quella dell’anno scorso e di questo novembre è una protesta che nasce ed è nata dal basso, da persone che guadagnano meno dei precari dell’Atesia, certe volte. Non da ricchi baroni che si indignano perchè i loro privilegi sono intaccati. Quelli peraltro se ne fottono perchè lo stipendio – corposo – da ordinario è solo una parte dei loro guadagni, che provengono di solito da professioni ben più remunerative (molti penalisti illustri sono anche ordinari a Giursprudenza, e considerazioni analoghe valgono per le facoltà di Economia, Ingegneria etc. etc.). Ma questi con la ricerca di base non hanno più niente a che vedere.
Mentre invece i tagli attuali rischiano di ricadere sul groppone proprio della ricerca di base e di chi la fa.
Dov’è l’ambiguità di tutto questo? Qualcuno me la spiega meglio?
Peraltro a me non interessava prendermela con alcuno ma prendere spunto da un articolo per sottolineare una situazione di degrado scandalosa, che evidentemente molti non hanno ancora chiaramente inteso, Scalfari incluso (che secondo me non è affatto la merda che voi dite, peraltro). E credo anche che un governo di centro sinistra – per quanto sbiadito – sia molto meglio del governo Berlusconi.
Parole sacrosante, quelle dell’articolo.
La finanziaria non so giudicarla nel suo insieme ma so che per quanto riguarda i tagli a scuola e università è un vero schifo.
Gli scioperi sono più che dovuti ma resta il dispiacere per il fatto che Prodi, che andò al governo la prima volta parlando di scuola e formazione si sia messo a tagliare proprio il settore che dovrebbe rilanciare l’italia.
Eugenio Scalfari: bisognerebbe lanciargli le uova all’uscita dell’Hilton. Veramente, una faccia di culo che fa il paro con i culi sulle copertine dell’Espresso.
I tassisti dicono che loro proprio no. Gli avvocati che loro proprio no. I farmacisti che loro proprio no. I notai che loro proprio no. Quelli sopra i tremila ero mensili proprio no. I pensionati loro proprio no. Gli impiegati pubblici vogliono il rinnovo. Quelli dei trasporti, anche. Quelli cor Gippone ci restano male per il bollo. I comuni loro proprio no. Gli accademici loro proprio no.
Ragazzi, ‘sta Finanziaria la si poteva fare da 1 euro. L’avrei potuto metterio io e così non si sarebbe scontentato proprio nessuno.
“Verschiebung” s.f.: traslazione, scostamento, deriva (“Kontinentalverschiebung”: deriva dei continenti), e, in senso lato, spostamento.
Come si possono considerare alla stessa stregua pensionati e proprietari di gipponi? Ricercatori precari e notai? Lavoratori col contratto scaduto e ricconi che sono diventati sotto Berlusconi ancor più ricchi (e arroganti)? E’ così difficile capire dove sono, in Italia, i veri privilegi e i veri abusi?
Vorrei ricordare che qui non si parla soltanto di stipendi. Tanto per dare un’idea, qui trovate prezzi tipici dell’usato per microscopi elettronici.
Una considerazione generale e una personale. Quella generale. Il pianto greco sul precariato andrà bene per l’università e la ricerca, ma vi informo che la fotocopia sbiadita di Bertinotti, al secolo Franco Foggiano Giordano, ha minacciato che la finanziaria salterà (“elemento di tensione molto grave”, ma come parla?) se non verranno regolarizzati i 250.000 precari della scuola. Ecco a cosa servirà la politica fiscale di Prodi: tassare gli autonomi mentre i precari prendono il contratto statale e di conseguenza, alle prossime elezioni, rivoteranno l’esimio Franco Foggiano (ricordo che non tutti gli autonomi guidano l’Hummer e sono sopra i 25.000 euro annui). Oggi si chiama lobbyng, in passato era clientelismo. Quello che lorsignori non capiscono – giocandosi le elezioni su uno zerovirgola dell’elettorato che decide in base alla parola tasse – è che le prossime elezioni le perderanno alla grande. E dico perderanno. Terza, non prima persona.
La considerazione personale. L’altro giorno ero a firmare l’agognato contratto in segreteria alla Sapienza. Insieme a me c’erano: 1) una assegnista giapponese che grazie alla mancata firma del preside rischia di essere sbattuta nel suo paese; 2) una collega insegnante italiana in cerca del suo di stipendio che, visto il casino che facevo, voleva cooptarmi nei Cobas; 3) un altro contrattista spaesato e tutto intimidito che pure se gli avessero detto lavori gratis a vita avrebbe accettato lo stesso, vuoi mettere con dire a mammà che insegno alla Sapienza? Miiiiiii, la Sapienzaaa… Siccome mi diverto da matti a osservare il declino dello Stato italiano, in tutte le sue larve samsiano-burocratiche, mi sono messo a fare il ganzo con la capa-segretaria, dicendo: ma se andassimo tutti dal preside di facoltà a farci firmare il contratto di persona per accelerare il pagamento non sarebbe una buona idea? Intanto riflettevo su una cosa: la flessibilità della ricerca, diciamocelo, è un dato acquisito. Se va bene riusciremo ad affrontare e vincere le sacche di precarietà. Ma gli interessi degli apparati, dei segretari, dei sottosegretari, dell’ufficio stipendi e dell’ufficio reclami, del personale amministrativo e a contratto fisso, delle ferie e delle tredicesime pagate, e pure la pensione giacché ci siamo, be’, ditemi voi, come la mettiamo? La facciamo una bella manifestazione contro le diseguaglianze soviettiste di trattamento? Vi sembra giusto che il ricercatore tace e acconsente e il segretario che (non) mi rispondeva al telefono ha busta paga fissa, figliuoli a carico, ferie e Sabaudia e una bella Smart nuova di zecca? Lo dico perché l’ho seguito, mi interessava capire come vivono i defensor sindacatus.
Mi sono espresso un po’ brutalmente e me ne scuso.
Conosco l’università per averci lavorato una decina d’anni, ma conosco quella università, non questa.
Tuttavia dai contatti che per motivi di lavoro ho con l’ambiente accademico, sono costretto a concludere che sostanzialmente nulla è cambiato da allora, cioè dal decennio ’73-’85 quando si svolse la mia esperienza.
Però occorre fare qualche precisazione:
– non tutte le facoltà sono uguali, non tutta la ricerca è identificabile nello stesso modo e ha gli stessi problemi di costi e formazione e gestione;
– l’accademia vera e propria è in qualche modo separabile dalla ricerca per divergenza di scopi e funzioni.
L’altra precisazione da fare è che la condizione precaria (che non significa necessariamente bassa retribuzione, ma solo incarichi a termine) è implicita nel procedimento catecumenale di assimilazione dei nuovi quadri, che dovranno garantire innanzi tutto continuità all’istituzione e immutabilità al sistema gerarchico di potere interno.
Entra solo chi dimostra “attitudine accademica”, non chi vale qualcosa: la qualità è affidata ad una casuale coincidenza tra il valore di un individuo e la sua capacità di “armonizzarlo” con l’istituzione, di renderlo non-conflittuale.
In alcuni casi la condizione precaria riguarda anche procedimenti d’autentica ricerca scientifica per autentici ricercatori e per autentici accademici, autenticamente tesi verso il “sapere”.
Ma indipendentemente dalla limpidezza dello scopo una condizione iniziale di catecumenato precario è d’obbligo, lo esige il concetto stesso di selezione, di cooptazione.
È quando tale condizione si prolunga a tempo non determinato che si manifesta un vizio strutturale nell’istituzione, vizio che esiste da sempre (vedi la vecchia figura iniziale dell’assistente volontario), un vizio che non dipende dall’esistenza o meno dei tagli di questa o quella finanziaria, ma che è strutturale, endemico, non-sradicabile, assieme ai molti altri vizi della nostra (con alcune rilevanti eccezioni) povera, stupida, sostanzialmente provinciale accademia, il cui principale problema non è la ricerca, né genericamente il “sapere”, ma il potere, interno e soprattutto esterno.
Questo a mio avviso è il dato, che non dipende da nessuna manovra economica e che produce assoluta rigidità – ad ogni livello, anche precario, anche di dottorato – ad ogni tentativo, di qualsiasi governo, di riformare questo stato di cose: l’università italiana VUOLE restare com’è.
Se poi ci si sofferma sul suo effettivo ruolo nella società, allora vedi come l’accademia danza il suo balletto tra politica, capitale e media, cui fornisce in continuazione soluzioni, giustificazioni, spiegazioni sempre paludate e sempre “tecniche”, raramente suffragate da dimostrazioni e dati, senza mai, dico mai, pronunciare quel semplice monosillabo che talvolta funge da discrimine tra ciò che è dignitoso e ciò che non lo è: NO.
Ma sono solo impressioni, posso sbagliare.
Capiamoci, la mia era una generalizzazione priva dei distinguo necessari.
Però. Ognuno a pigolare perché l’attenzione venga spostata sulla propria categoria, sulla propria lobby, sul proprio ordine professionale.
Io, sono orgoglioso di contribuire alla collettività. Io sono orgoglioso della mia trattenuta in busta paga.
(Non so perché, mi viene in mente quanto disse uno scrittore: l’italiano si può tradurre in due parole ‘tengo famiglia’.)
Roberto, cosa ci stai dicendo? Che alle prossime dobbiamo votare Casini?
@bauer
che non dobbiamo votare proprio.
@bauer
oltre all’ironia hobbit, sul merito niente da dire?
Scusate… ma io credo davvero che qui, sotto sotto, ancora ci si sta fidando delle istituzioni. Il cui lavoro – mi sembra più che chiaro – è stato in questi anni metterla nel culo ai propri figli.
Ci illudiamo cioè che ci considerino come interlocutori.
E’ chiaro, non è così. Altrimenti la lettera di Lucio non avrebbe solo riscontro tra di noi. Quello che dice, garbatamente, sarebbe sufficiente per un terremoto.
Ma abbiamo visto terremoti?
Di conseguenza sono anche inutili le manifestazioni che attraversano le strade.
Dovrebbero bloccarle, le strade, per settimane.
Dovrebbero bloccarle, le università, per mesi.
A rischio carica della polizia.
Altrimenti significa che non siamo ancora arrivati all’esasperazione.
Ci sarebbero anche tutti i numeri, però, per l’esasperazione.
Significa che siamo ancora troppo educati?
Sì, significa questo.
@Bauer
Ti ricordi la vignetta di Pazienza sugli operai della Fiat che fece incazzare mezzo Lingotto di sinistra? (Eravamo in periodo marcia dei quarantamila)
C’era un operaio Fiati tutto giulivo con un freno a mano nel posteriore.
La vignetta recitava:
“Gli operai Fiati hanno il cazzinculo di serie”!
– Cazzinculo, è un brevetto Fiat –
Ecco. Non tu, certo, ma le tue parole mi ricordano quella vignetta.
“Tengo famiglia”. Ma tengo pure dignità.
Parole sante, quelle di Del Corso.
L’unico appunto che gli faccio è l’ingenuità di credere che i professori stabilizzati abbiano sempre la diaria.
Se i fondi in dipartimento non ci sono e vogliono andare a un convegno anticipano anche loro e aspettano sei mesi, come i precari.
Sarà forse per questo che la maggior parte di loro se ne sta sempre in sede e del resto del mondo sa ben poco.
La nostra è un’università al di sotto della soglia di povertà.
Oh, no. Il ‘tengo famiglia’ lo interpretavo come un modo (sbagliato) di pensare a se stessi piuttosto che alla collettività. Un modo (sbagliato) per ottenere/giustificare piccole furbizie. Mi rendo conto che però è un po’ fuori discorso, tanto è vero che l’ho detto che non so perché ci abbia pensato.
Roberto, quanto al merito, non lo so se hai la mia solidarietà. Dipende da quanto guadagni.
@bauer
“Al momento, ad esempio, sono in una lussuosa fondazione sul lago di Ginevra (la Fondation Hardt), dove i giovani ricercatori vengono letteralmente serviti e riveriti, e hanno a disposizione strutture che per la povera italietta sembrano pura fantascienza”.
Meno di lui.
Roberto, non ho capito quanto guadagni.
solo per dire che nessuno mi sta dando del denaro per stare a Ginevra (e che peraltro nella lettera ho scritto con una certa precisione quanto ho guadagnato l’anno scorso). ho avuto dal governo svizzero una borsa di studio (dopo una selezione internazionale che prevedeva invio di curriculum, pubblicazioni etc. etc.) che copre i costi del soggiorno all’interno di questa ex villa con annesse biblioteche e strumenti vari.
in altri termini, non pago niente e non guadagno niente, ma ho l’opportunità di studiare qui dentro. I borsisti miei colleghi sono otto, e nessuno è svizzero. Conoscete qualche istituzione italiana che sia anche lontanamente disposta a fare una cosa del genere?
Caro Roberto,
le tue parole non possono che provocare la fiera indignazione di tutte le persone che lottano ogni giorno per la cultura, per la formazione, per assicurarsi un futuro anche al di là delle lobby politiche ed economiche che monopolizzano l’Italia. Le parole di Lucio sono un grido, garbato ma deciso, contro tutto questo e solo la noncuranza e, perdonami, l’assoluta “non conoscenza” delle reali condizioni dei giovani ricercatori attuali può farti parlare con il tono arrogante che hai usato finora nei tuoi interventi. Ad ogni modo, la riflessione innescata dall’articolo di Scalfari non riguarda persone che non sanno guardare al di là del proprio naso, ma solo quelli che cercano di portare i propri sogni più in là delle barriere che l’Italia e la mediocrità di molti spesso costruiscono tanto alacremente.
solo un’altra aggiunta, per Tashtego Negli ultimi cinque anni un cambiamento strutturale si è sicuramente verificato, nell’Università: l’impiego del precariato – in forme assolutamente variegate- è diventato assai più strutturale e fondante che in passato, proprio perchè la struttura del lavoro scientifico si è fatta radicalmente diversa, e gli oneri della didattica (soprattutto dopo la riforma Berlinguer) si sono diversificati e sono diventati complessivamente più pesanti. Il 60% degli insegnamenti impartiti in italia, secondo la conferenza dei rettori (e non i COBAS) non ha un titolare; e se non ci fossero laureandi volontari, dottorandi e dottori di ricerca, contrattisti di vario genere la maggior parte dei progetti di ricerca (laboratori, scavi archeologici etc. etc.) sarebbe costretta a chiudere. In questa situazione, anche le vecchie logiche baronali e più in generale le ‘procedure di reclutamento’ si sono a loro volta dovute trasformare, rispetto a quella procedura di cooptazione che cominciava con l’assistentato volontario e spesso non passava nemmeno per il dottorato (molti ordinari e associati italiani non sono Ph.D., come si usa dire con simpatico anglismo ora).
L’università di oggi non ha più niente a che vedere – nel bene e nel male – con quella – a occhio e croce in forte espansione – degli anni 70-80. I baroni e le schifezze restano e provano costantemente a mantenere un potere che però è sempre più un potere da pezzenti (vi pare davvero che l’università italiana, in quanto istituzione, abbia ancora una capacità di incidere nella società italiana odierna? ahimè, non siamo in francia). Ma c’è anche una parte consistente che VUOLE cambiare schemi e regole, non fosse altro che per evitare di affondare.
fiera indignazione.
@lucio
“cambiare schemi e regole”.
Quali e come. Sono d’accordo.
Se ti va insistiamo.
@roberto
insistiamo, certo che mi va. per cambiare le dinamiche di reclutamento, di spesa dei fondi di ricerca, di accesso ai finanziamenti, di ‘governance’ (come va di moda dire adesso), per cassare un po’ di burocrazia. per aiutare un po’ i fuorisede e gli studenti che non tengono famiglia (in un altro senso). e poi su su, per trasformare l’istruzione – anche superiore – in un diritto vero e pieno, e rendere la cultura accessibile e la scienza familiare. però prima di tutte le splendide utopie e riforme strutturali, per fare una cosa banalissima: garantire alle università i soldi minimi per pulire i cessi, per cambiare le prese di corrente e per sostituire i professori ordinari che vanno in pensione (nei prossimi anni – dice la solita CRUI e non i COBAS – il turn over sarà notevole) con ricercatori giovani, e non con contrattisti precari o con mummie (grazie alle leggi della moratti per un’università può essere più costoso assumere tramite concorso un ricercatore nuovo piuttosto che chiamare uno che è già professore associato o ordinario in altra sede). Ricercatori valutati essenzialmente sulla base di un’analisi decente delle loro pubblicazioni e dei progetti che vogliono provare a realizzare, e soggetti a procedure di valutazione serie anche per il futuro. Costa poco (una frazione delle spese militari) e rende molto, perchè i ricercatori all’inizio guadagnano poco e pubblicano spesso di più degli ordinari.
E ha ragione J Galaxy: per farlo avremmo dovuto già da tempo lottare
di più e bloccare le università. Ma molti, troppi, ancora non hanno imparato a stare sulle barricate.
@lucio
Trasformare le università in piccoli centri di ricerca, guidati da una dirigenza che agisca in modo politico, con un’amministrazione ridotta, centralizzata e indipendente, e attraverso forme di autogestione del personale. Società di revisione dei conti private giudicherebbero la gestione dei manager universitari. Le università devono offrire servizi, non solo formazione, che pure continuerà ad esserci, permanente. Servizi da inventare ex novo, mettendo a frutto quello che produci, a cominciare dalle tesi di laurea, di cui nessuno parla (a che servono?). Si può alleggerire il ‘peso’ della didattica che ‘grava’ sulle spalle di professori, ricercatori e dottorandi, cioè in massima parte dei precari, per dedicarsi in modo più incisivo al lavoro scientifico e alla ricerca di fondi. I finanziamenti vanno cercati all’estero più che a casa nostra; se l’industria italiana non è ‘pronta’ a recepire l’innovazione della ricerca scientifica, be’, il mercato globale sì. Il collettore sei tu, non è una bestemmia. Industrie, centri di ricerca stranieri, onlus e altrus. Tempo e soldi per andare in giro per il mondo, in cerca di finanziatori nel pubblico dei congressi. I ricercatori devono formarsi in senso politico ancora prima che tecnico e culturale. Diventare i terminali di un progetto scientifico che faccia capo al loro istituto. Ovviamente, lo stato italiano deve garantire un minimo sindacale di fondi pubblici (cosa che adesso non fa) per rimettere in moto la macchina universitaria, farla funzionare, ma vorrei sapere, cosa ne pensate se arricchissimo la flessibilità di premi e incentivi, per cui non hai solo un contratto, il concorsone-contrattone unico, vincolante e definitivo, ma un numero variabile di progetti che sei in grado di trovare, gestire e monetarizzare da solo? Più lavori, più progetti (validi) riesci a trovare, più guadagni. Questa non è precarietà, è il mercato del lavoro. La continuità nella mobilità.
Roberto, tu pensi che la società italiana sia pronta ad accettare una università che riceva finanziamenti diretti dall’industria?
All’università Stanford il dipartimento di informatica è ospitato nel William Gates Computer Science Building ma nessuno pensa che ciò possa orientare la ricerca a favore di Microsoft. Ora immaginiamo che la sede del Dipartimento di Elettronica e Informazione del Politecnico di Milano sia stata costruita con i soldi di un imprenditore italiano: pensi che in Italia si sarebbe disposti ad accettare i risultati di una ricerca sui livelli di intensità delle radiazioni elettromagnetiche prodotte dalle antenne delle reti telefoniche cellulari condotta da gente che lavora nel “Marco Tronchetti Provera Building for Telecommunications Technology”?
Non solo. Luigi Severi, un contrattista della Sapienza (quindi come Lucio, se non mi sono sbagliata), ha scritto un saggio sul ruolo dell’intellettuale, riproposto su Vibrisse, nel quale definisce “Forse meno eclatante, ma di certo assai più insidioso, il nesso tra scienza ed economia industriale, e poi (ancora di più) tra scienza ed economia postindustriale”. Dopo un paio di linee Severi specifica: “Non a caso il finanziamento delle aziende alla ricerca universitaria; con conseguenze di impurità e ambiguità in settori cruciali per gli uomini tutti, e per ciò stesso strategici per la grande impresa, com’è quello chimico-farmaceutico.”
Tutto questo fa vedere che non solo nella società in generale, ma anche all’interno dell’università stessa, il finanziamento da privati viene visto con sospetto. E qui non si tratta di arroccamento su posizioni di privilegio o difesa di interessi speciali, ma di sincera preoccupazione sull’indipendenza della ricerca.
@pensieri
Ottimo. E’ così che dovremmo muoverci. Discutiamone, anche sulla indipendenza (vedi il caso dell’Istituto Nazionale di Geofisica). Ma a proposito dell’Italia avevo scritto: “se l’industria italiana non è ‘pronta’ a recepire l’innovazione della ricerca scientifica, be’, il mercato globale sì”.
Grazie del tuo intervento.
il nanismo e la miopia del capitalismo italiano e’ ahime’ un dato acquisito, e da questo discendono tanti problemi.
attenzione, pero’. anche negli stati uniti l’intervento pubblico, nella ricerca, e’ quantitativamente assai rilevante (sia a livello federale che per quanto riguarda i singoli stati). non parlerei di ‘minimo’
molto d’accordo sulla necessita’ di snellire procedure e di garantire a universita’ e centri di ricerca un’autonomia effettiva, sempre accettando un controllo terzo, ma di natura pubblica (non privato, ne’ politico in senso deteriore).
Altro punto che mi lascia perplesso: i modelli aziendalistici hanno fallito nella sanita’ e in altri settori (ad es. i trasporti) non solo in italia. l’universita’ che io utopisticamente vorrei e’ qualcosa di efficiente, ma non puo’ essere considerata semplicemente un qualcosa che offre servizi, proprio per il nesso tra formazione, ricerca, diffusione della cultura che dovrebbe caratterizzarla.
e comunque continuo a pensare, ingenuamente, che accanto a grandi discussioni occorrerebbe avere – anche con il sistema traballante attuale – appena un minimo di soldini in piu’ per sanare molte situazioni pessime.
A occhio e croce? Tashtego: nel decennio in cui parli furono assunti in Italia più ricercatori e docenti che nei 35 anni successivi, ti dice niente? No? Ebbene, sappi che il 90% dei professori universitari è entrato allora, ed hanno tutti la stessa età (forse la tua età). Altro che “situazione eterna” e immutabile. Oggi non si utilizzano i fondi per “assumere”. Oggi si utilizzano solo ed esclusivamente per avanzamenti di carriera. Nella mia università il 50% delle risorse di bilancio servono a pagare SOLO i professori di prima fascia. I precari sotto vario titolo (decine di contratti diversi) sono i 3/5 del personale docente e ricercatore, e su di loro in gran parte si regge la didattica. E lo sai quale frazione del bilancio si spartiscono? 1/7. C’è una piccola differenza, Tashtego, tra i tuoi anni e questi: all’università non esistevano co.co.pro., professori a contratto, collaboratori alla didattica, contrattisti a sei mesi, ricercatori in formazione (
@lagiardiniera
se non esistevano, come fecero a darmi un contratto di docenza per tre anni (’82-85′)?
non sono in grado di contestare i tuoi dati, perché non dispongo di controdeduzioni basate su numeri.
sta di fatto che l’attività didattica di allora si basava in gran parte su prestazioni volontarie e non retribuite.
il fatto è che all’epoca le prestazioni volontarie e non retribuite erano un preludio all’inquadramento come ricercatore o spesso come associato. Oggi non è così. Anche a Tor Vergata (dove ho insegnato per tre anni precariamente) la situazione è esattamente identica a quella descritta da LaGiardiniera.
@lucio
@pensieri
Sull’indipendenza dai finanziatori direi che c’è un margine di manovra possibile. Sul Sole24Ore di ieri c’è un pezzo che fa riferimento a dati sugli investimenti delle imprese italiane in cultura. I 269 milioni di euro investiti in un decennio arrivano più dal Nord (65%) che dal Sud (42 aziende nel 2006), e hanno premiato, nell’ordine, progetti culturali legati alle mostre e alle arti visive; attività di promozione del territorio e valorizzazione del patrimonio culturale locale; settori (in crescita) come la musica, l’editoria, la scienza, la formazione. I servizi alle imprese e l’attività di consulenza potrebbero essere una risorsa per le università in cerca di fondi sul mercato. L’indipendenza deriverebbe dal fatto che le aziende non cercano più degli sponsor ma dei partner creativi: “le imprese non considerano più l’investimento in cultura come mera sponsorizzazione ma come asset strategico. Vale a dire non ci si aspetta tanto un ritorno di immagine a breve, quanto una risorsa competitiva di lungo periodo”. La continuità che dicevo prima.