Al di qua del libro: sulla figura dell’editor-letterato
Piero Sorrentino intervista Andrea Cortellessa e Aldo Nove
23 gennaio 1954. In occasione dell’uscita nei Gettoni einaudiani di Memorie dell’incoscienza di Ottiero Ottieri, Vittorini scrive a Calvino: “ (…) E quanto al discorso sui trent’anni dei giovani – sarà vero che noi li invitiamo a riscrivere i loro libri – ma perché accade che i loro libri non siano mai pubblicabili come ce li presentano a tutta prima?”. Vittorini non era un editor accomodante – penso anche alla bandella con cui, proprio nei Gettoni, stroncò La Malora di Fenoglio. È ancora pensabile un atteggiamento così energico, a tratti anche rude, per un responsabile di una collana che si occupa prevalentemente di giovani o esordienti, oggi, come i Gettoni allora?
Aldo Nove Si parte da un situazione più stregata dal marketing, ma di ciò si è consapevoli e di fronte al lavoro vero e proprio di redazione, quando il libro di tratta di farlo, gli atteggiamenti rimangono dati caratteriali che valgono trent’anni fa come oggi.
Andrea Cortellessa In questi mesi di lavoro a Fuoriformato non posso negare di aver letto con occhi diversi – fatte, come si dice, le debite proporzioni – le lettere di lavoro di Calvino e Vittorini. Quella che citi era già nota ma io l’ho letta in quel vero e proprio tesoro che è il nuovo volume dell’edizione einaudiana, curata da Esposito e Minoia, delle Lettere di Vittorini (che copre proprio gli anni “caldi” dei Gettoni). In genere si parla di Vittorini editor come di uno scrittore dalla forte personalità che in nome della propria poetica non si faceva scrupoli a prevaricare autori magari suoi pari, se non a lui superiori (i casi di Fenoglio e Lampedusa sono quelli sempre citati). Ma se si guarda al catalogo dei Gettoni si scopre che le “tendenze” erano le più diverse, e per lo più assai distanti dalla ricerca che Vittorini scrittore andava compiendo, in parallelo, per suo conto. Basti pensare che fra i primissimi autori, nel ’51, figuravano Lalla Romano e Franco Lucentini (al cui riguardo rimando all’eccellente studio di Domenico Scarpa che di recente ha riproposto quell’esordio, I compagni sconosciuti). La prima lettera del volume che citavo è indirizzata ad Anna Maria Ortese, e Vittorini vi bada subito a smentire un pregiudizio – molto simile al nostro, a ben vedere – nutrito dalla scrittrice: “io non ho la minima prevenzione contro il cantato o l’infantile” (per aggiungere che uno dei racconti destinati a entrare nel Mare non bagna Napoli, un Gettone del ’53, gli pare pecchi “semmai”, il corsivo è suo ed è sintomatico, “in un senso naturalistico”). Vittorini dunque faceva le sue “puntate” (prendendo anche, si capisce, le sue legittime cantonate) non in base alla sua poetica (il che sancirebbe un’imperdonabile confusione di ruoli fra scrittore e editor) ma in base a un progetto. Dopo lunga eclissi le poetiche dei singoli autori, per fortuna, oggi mi pare tornino in auge; mentre pare fuori da ogni agenda l’idea di progetto di un intellettuale come Vittorini. Non c’è troppo bisogno di spiegare perché. È l’idea di un progetto sociale e politico – che quello letterario sottendeva e metaforizzava – a essere divenuta, oggi, qualcosa di impronunciabile. Ciò che un non-autore come me invidia a un autore a pieno titolo qual era Vittorini è, in ogni caso, lo sguardo “dall’interno” che egli sapeva rivolgere al processo creativo di scrittori da lui così diversi. Me ne sono reso conto in questi mesi. Seguire due scrittori fra loro antitetici come Franco Arminio e Sara Ventroni, discutere con loro cosa, nella compagine del testo, fosse bene accogliere e cosa tenere fuori, è stato un’esperienza preziosa anche per la mia attività “parallela”, quella di critico. Se sia risultato di una qualche utilità, il mio lavoro, lo sanno solo loro. Spetta ai lettori, invece, giudicare autori e testi prescelti; non ti nascondo che spero molto nella loro risposta.
A proposito di progetto, non sembra che a Fuoriformato manchi appunto un’idea di costruzione del catalogo, di visione chiara di cosa si vuole e, soprattutto, non vuole fare: attenzione alla scrittura prima ancora che all’intreccio, predilezione per le forme brevi, recupero di testi dispersi o dimenticati, allegati cd e dvd… (di recente hai ricordato un Manganelli 1985 che sosteneva che “in generale, rendere difficile il lavoro del tipografo è sempre una buona cosa”).
Cortellessa L’idea di fuoriformato, sin dal titolo, è quella di debordare dai codici che il pensiero unico del mercato, oggi, tende a farci considerare una seconda natura. I generi letterari e i format, invece, non sono altro che solidificazioni storiche, e dunque transeunti, di una sostanza, la scrittura, quella sì eterna e inestinguibile – anche se in perenne modificazione. Prendiamo Circo dell’ipocondria, il secondo lavoro in prosa di Franco Arminio (dopo l’eccezionale Viaggio nel cratere uscito in quella che è oggi di gran lunga la migliore – perché la più “inclusiva” – fra le nostre collane letterarie, quella diretta da Giulio Mozzi per Sironi). Non saprei davvero dire a quale “genere” appartenga. È narrazione? Sì, anche se i nuovi credenti della “frontalità” non mancheranno di evocare il solito ombelico dello scrittore. Sono aforismi? Sì, ma del tutto fuorvianti: per la loro misura, anzitutto (carattere, questo, della migliore aforistica italiana), e poi per il modo in cui eludono ogni possibile “verità” ultima o ultimativa. Forse l’unico genere al quale mi sentirei di ricondurlo è la saggistica. Certo, a patto che di “saggistica” si recuperi l’ètimo di “tentativo”, e dunque di genere-non genere, di rete di pensiero e scrittura che modifica il proprio statuto formale e conoscitivo, per così dire, a ogni oggetto che le capiti di intercettare.
In Circo dell’ipocondria è compreso, in dvd, un documentario di Arminio sulla sua terra, l’Irpinia («questa artificiosa terra-carne», come dice Zanzotto in Vocativo, è matrice assoluta del suo immaginario): esempio di fuoriuscita dai confini tipografici, altro contrassegno di fuoriformato. La scrittura, dicevo, resta; ma non la si può concepire immune dal contagio con le altre forme espressive del suo tempo. In passato, infatti, non lo è mai stata. Fuoriformato vuole esaltare il primato di una scrittura che sappia “orchestrarsi” con le immagini, la musica e quant’altro.
Credi che una figura di editor-letterato (prima abbiamo citato Vittorini, ma penso anche a Vittorio Sereni e alla sua straordinaria, quasi maniacale cura del lavoro editoriale che faceva in Mondadori) possa ancora trovare posto in un’editoria sempre più (ma non solo, certo) stretta tra, come dicevi tu, marketing e mercato?
Nove A questo punto sono le responsabilità dei singoli e le passioni ad entrare in gioco. Marketing e mercato orientano gli obiettivi del prodotto, ma non la qualità di ogni singola scelta editoriale, e di fronte a un abnorme produzione letteraria il compito dell’editor è proprio quello di dare un senso alla produzione. Credo che gli spazi ci siano. Il problema è, paradossalmente, che c’è troppo spazio, e si rischia di perdersi nel flusso eccessivo e indifferenziato di informazioni e carta.
Nelle schede di presentazione di neon! e Fuoriformato si avverte una nemmeno troppo celata insofferenza per la forma-romanzo, come fosse una vescica sgonfia che ormai non riesce più a riempirsi di immagini, e immaginario, e immaginazione.
Nove neon! non ha affatto preclusioni nei confronti del romanzo. E non sono d’accordo sul fatto che non riesca più a riempirsi di immaginario e immaginazione, almeno non diversamente da altre forme. neon! predilige il romanzo. Nelle redazioni arrivano tantissime poesie, tanti racconti e pochissimi romanzi semplicemente perché il romanzo richiede più cura, specialmente in termini di tempo, rispetto a forme meno strutturate. E il romanzo è struttura inclusiva, dove chi ne è capace può farci rientrare di tutto. Penso a lavori anomali e bellissimi come quelli di Vonnegut, ad esempio. Altro discorso è un mercato che propone romanzi fatti a misura su stesso.
Cortellessa Sì, penso che l’editoria odierna sopravvaluti alquanto (anche in senso commerciale) le residue potenzialità della forma-romanzo. Questo, beninteso, se del romanzo continuiamo ad avere la concezione un po’ inerte, passiva, mostrata dai maggiori cataloghi di narrativa nel nostro paese. Se il romanzo ha registrato nel Novecento autentici trionfi è, invece, per la sua spregiudicata inclusività. L’hanno mostrato Debenedetti e Bachtin: il romanzo è una forma aperta, capace di fagocitare tutti gli altri generi, tutte le modalità discorsive possibili. È un po’ come uno squalo: se non va avanti a fauci spiegate, muore. E oggi la maggior parte dei prodotti in circolazione mi paiono appunto morti, stereotipati, legati a un’idea ottocentesca di romanzo (un’immaginaria “media” ottocentesca, peraltro, contraddetta da tutti i capolavori dell’Ottocento…), artificialmente tenuto immune dalle profonde mutazioni subite dal genere durante il Novecento. In questo senso Santa Mira di Gabriele Frasca, che è un importante poeta e saggista, si pone apertamente in controtendenza: caso assai raro, oggi, di romanzo concettualmente e linguisticamente in grado di assorbire imponenti materiali critici, teorici, diciamo pure politici. Questa sostanza traumatica del mondo, tuttavia, non è meramente giustapposta alla “pura” fiction, diciamo, come vediamo in molti esempi di romanzo-saggio, pur interessanti, degli ultimi anni; essa si incarna compiutamente e senza residui, invece, nelle figure e nelle vicende dei personaggi, nei volumi spaziali e temporali di una città immaginaria e insieme verissima. Siamo insomma di fronte a un’imponente costruzione allegorica: come appunto nei grandi precedenti novecenteschi (sino alle imponenti, mega-inclusive maccheronee di Thomas Pynchon). Di romanzi così sono il partigiano più entusiasta!
Ci puoi anticipare le prossime uscite (quelle imminenti e quelle alle quali stai lavorando) ?
Nove Ora siamo concentrati sui primi tre titoli della collana. Posso anticipare la quarta uscita. E’ un volume di racconti brevissimi intitolato Lenin e scritto a quattro mani da una ragazza russa e da un ragazzo italiano in Russia da parecchi anni. E’ una ricostruzione, attraverso “fotografie” narrative, di un mondo, quello che è stato l’Unione sovietica e adesso è la Russia, cambiato per sempre, e sulla pelle dei protagonisti. Sulla pelle e sulla lingua. I due autori scrivono direttamente in italiano, un italiano che vuole testimoniare come, nel tempo, cambino le cose. E cambia la lingua.
Cortellessa Fuoriformato manterrà il suo doppio passo. Da un lato autori relativamente nuovi come Arminio (che è già, a suo modo, scrittore di culto) oppure tali in senso assoluto come Sara Ventroni, che attorno al suo poemetto Nel Gasometro, nello spirito di quella che non è una collana di poesia (come non è di narrativa o saggistica), ha costruito una ramificata rete verbovisiva (racconti, saggi, foto, disegni…). La prossima epifania è quella di Laura Pugno, nota come narratrice ma che nasce come poetessa. Ogni sua scrittura, infatti, parte da un nucleo radiante, diciamo pure “lirico”, di immagini. Immagini e versi che splenderanno anche nel libro al quale sta lavorando.
Dall’altro lato continueremo a risalire il corso del secondo Novecento, terra letteraria ancora viva (in tutti i sensi, perché i suoi autori sono in piena attività e perché le sue problematiche e i suoi stimoli restano ineludibili) eppure già “mitica”. In particolare gli anni Settanta mi paiono ancora tutti da elaborare. Al “recupero” di un autore sommerso come Vittorio Reta, che si suicidò nel ’77 (corpus testuale e percorso esistenziale ricostruiti da Cecilia Bello Minciacchi, con un omaggio musicale in cd di Stefano Scodanibbio), seguirà quello di testi parimenti “maledetti” di autori che invece da quel tempo si sono salvati e che oggi consideriamo dei maestri, cioè Gianni Celati e Franco Cordelli. Alice disambientata, che Celati raccolse dai materiali suoi e dei suoi allievi di allora, e Il poeta postumo, che a sua volta Cordelli assemblò registrando le vociferazioni del tempo, sono due libri in molti sensi paralleli, entrambi pubblicati nel ’78 da piccole sigle di culto (l’Erba Voglio di Elvio Fachinelli e la Lerici di Walter Pedullà) ed entrambi cronache live di “intensità pubbliche” che attraversarono quella stranissima terra che era l’Italia nel ’77: l’occupazione all’Università di Bologna e le prime letture poetiche underground, a Roma. Questi testi mostrano due cose. Da un lato la capacità della scrittura “saggistica” di andare, in certe condizioni, davvero fuoriformato: occupandosi di tutto, invadente impicciona e irriverente come solo lei sa essere. Dall’altro che quel tempo non fu solo piombo, come oggi piace ripetere, ma anche rose. Immaginazione, cioè. Generosità illimitata, liberazione dei corpi, fosforescente ebollizione degli spiriti. Tutte cose di cui oggi possiamo fare tranquillamente a meno, no?
(l’intervista, in una forma ridotta, è stata pubblicata su stilos, 7/11/06)
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Consiglio il recupero di Beniamino Joppolo e Angelo Fiore, due autori, valorizzati da editor e critici a loro contemporanei, ma poi dimenticati senza un perché. Fiore era molto apprezzato da Geno Pampaloni e Romano Bilenchi, eppure è scomparso dagli scaffali (a parte l’ammirevole operazione editoriale compiuta da Silvio Perrella e Mesogea negli ultimi anni).
cortellessa e aldonove editor? ah ah ah ah ah ah ah ah ah
Per Reta siamo tutti entusiasti, da un po’ di tempo si caldeggiava una riedizione ed eccoci accontentati!
La solita fatwa contro “i format”. I lamenti cronici sui “generi” e gli “intrecci”. La scrittura che si apre ai codici visivi e musicali nella nota variante marsupiale. Riscoprire i Maestri trascurati e studiare, studiare, studiare gli anni settanta. Sullo sfondo, il fertilizzante vagamente iettatorio della letteratura postuma, per cui qualsiasi progetto politico-culturale oggi sarebbe a dir poco “impronunciabile”.
Sai che novità. Una resa al postmodernismo più (an)estetizzante, storicamente privo di contenuti e idee forti. Basta romanzi, solo graphic novel! Che noia il romanzo ottocentesco, ci vuole brevità! Siamo ancora a ‘sto punto? All’elogio dello short-short?
Ridare voce ai ‘dimenticati’, che sarebbe una strada praticabile, si rivela una complanare dal fondo sconnesso se i nomi sono sempre quelli. Celati “scrittore maledetto”? Nell’anno di grazia 2006?
Più facile chiudere il capitolo sul Settantasette. Basta rileggersi il Weekend di Tondelli. Ci sono esposte le “intensità pubbliche” che Cortellessa scopre nella “stranissima” (solo per lui) Italia dell’underground bolognese e romano. E’ un libro di vent’anni fa, mica dell’altro ieri.
Salviamo almeno quella osservazione su come potrebbe essere il romanzo politico, realistico e visionario di domani: “concettualmente e linguisticamente in grado di assorbire imponenti materiali critici, teorici, diciamo pure politici.” (…) “Questa sostanza traumatica del mondo (…) si incarna compiutamente e senza residui nelle figure e nelle vicende dei personaggi, nei volumi spaziali e temporali di una città immaginaria e insieme verissima”.
Abbiamo parlato a lungo di una Chimera come questa, mezzo romanzo e mezzo saggio. Negli Stati Uniti, il romanzo-documento risale più o meno agli anni cinquanta. Si potrebbe paragonare il realismo (e il protagonismo culturale) di Capote a quello di Vittorini. I morti che si alzano a sedere nelle tombe sono tutti uguali: nella piatta, malvagia e profonda America di Capote, come nella lacerata, bollente, Sicilia di Vittorini. Ma non contate su Stilos per aggiornamenti.
Posso segnalare in merito alle nuove collane, magari con meno propellente pubblicitario, questa lodevole iniziativa di un gruppo di amici:
(l’editore è Oedipus, il curatore è un giovane narratore e poeta Luigi Pingitore)
http://collanaliquid.blogspot.com/