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Reading di me. Blues e beatitudini

di Giordano Meacci 

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Da qualche tempo Giordano Meacci porta in giro per l’Italia un anomalo bellissimo reading musicale che si intitola Reading di me. Un anno fa, a Perugia, avevo ascoltato i suoi blues, che l’autore continuamente modifica, e gli avevo chiesto di inviarmeli. Un anno dopo, olimpico e imperturbabile, Giordano me li ha inviati. Di questo, commosso, lo ringrazio.
Da leggere con sottofondo blues.
 

Il Blues dell’amore presente
(Roma, maggio 2006)
 

T’avrei amata
anche se fossi stata sfregiata,
fatta a pezzetti, ingobbita,
squarciata,
colpita dagli anni e dal tempo.
Avrei accarezzato ogni ruga
come una ferita leggera
cucita la sera alle pieghe di notte.
 

Ma sì, che t’avrei amata,
e gli anni non avrebbero avuto peso.
Ogni giorno si sarebbe arreso
a un altro giorno
e a ognuno sarebbe bastata la sua pena.
 

T’avrei amata cieca, muta, sorda,
incapace d’intendere e di volere –
nella buona e nella cattiva sorte
t’avrei fatto la corte
e rimandato a domani il dolore
delle ore.
 

T’avrei amata negli anni
come si ama la vita
quando è appena finita
–        almeno credo –
e infatti non vedo
come avrei potuto non amarti.
 

T’avrei amata
sudata,
sporca della fatica del mattino,
t’avrei amata abbracciata.
 

T’avrei amata annegata,
o in un polmone d’acciaio,
ibernata
nell’acquaio,
decrepita, avvizzita.
T’avrei amata avvilita.
T’avrei amata anche dopo lunga agonia
E repentina dipartita.
 

T’avrei amata in sogno
e nel bisogno.
Sotto un castagno, in uno stagno,
in bagno.
E non mi lagno,
non odio e amo come fanno i classici;
io sono un piccolo poeta che ripete.
 

T’avrei amata nella fame e nella sete,
coi calzettoni e con le calze a rete,
i tacchi a spillo e le superga sporche.
 

T’avrei amata come si ama un braccio
o un occhio;
come ci si pavoneggia in uno specchio,
una volta che si accetti di esser vecchio.
 

Ma sì. Che t’avrei amata.
C’è solo di mezzo un’inezia,
un’anticchia, un frammento di verso,
l’abbozzo di un ritratto.
Tu hai fatto
un gesto che di solito non fa
chi voglia essere amata.
Te ne sei andata.
 

 

 

Il Blues dei poeti quando ci pensano

(Ciampino, novembre 2005)
 

Lasciàteli stare, i poeti. Non hanno bisogno di noi.
Non cercano la nostra compassione. O un’opinione
che in qualche modo ne legittimi la vita.
I poeti sono lerci, fuoriruolo, tra le righe.
I poeti sono semi e sono spighe,
come tutto ciò che vive
e che si sporca.
I poeti sono una cosa morta
che si ostina a gridare
a chi l’ascolta.
 

Disprezzàteli i poeti, non ci fate affidamento.
Come potete sopportare chi ha tormento
per un verso che non è come volevano?
La vanità dei poeti. Lo sfinimento
che li coglie dopo la seconda terzina.
 

I poeti non servono a niente.
Sono la benzina sporca della mente.
Si nutrono di rime. O della loro negazione.
Non sanno chi sono e che vogliono.
Spesso si fissano su una sola stagione:
l’estate, ad esempio. O la primavera.

Ma alla fine della fiera non c’è una cosa vera

che sia una

che non possa fare a meno di un verso.

Lasciàmoli stare, i poeti. Ché: se davvero sono poeti,
non sanno che farsene di noi, che stringiamo gli occhi
per i pezzetti di luce nelle scie
delle loro biografie.
Lasciàmoli stare i poeti.
Leggiàmo le loro poesie.
 

 

Il Blues delle Beatitudini
(Perugia, novembre 2005)
 

―ecco: per una volta vorremmo dedicarti 

dal basso delle nostre solitudini 

una nostra privata versione 

delle tue beatitudini. 

Beati i colitici, gli stitici, i gastritici,
ché se parlano dei loro dolori imbarazzanti
suscitano fastidio negli astanti
e disperdono le liete compagnie.
 

Beati quelli che non sanno parlare
e s’imbarazzano per questo.

Beati quelli che parlano di troppo,

e si pentono di questo.
Beati quelli che parlano sempre il giusto:
mai una parola fuoriposto,
che non ridono mai di gusto,
e che insomma per finire
magari hanno poco da dire.
 

Beati quelli che straparlano
e sfilacciano le parole fino all’ultimo limite permesso.
Beati, perché sanno che l’eccesso
reca già in sé il germe fatale dell’errore,
il senso della fine: e si muovono al confine
tra quello che li sprona e quello che li blocca.
Beata l’aurora color albicocca.
 

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia.
Almeno finché sanno capire come esserne saziati:
e per questo sono un po’ incazzati
con l’ex compagno Sergio Cofferati.
 

Beata
la puzza di piedi
della donna amata
(e però un po’ meno beata quella ostentata
dal vicino di treno
nel diretto notturno Parma – Roma Tiburtina
del 30 giugno del 2005).
Beati quelli che ripetono sempre le stesse cose,
dieci venti cento volte,
beati ‘a ripetizione’
ché non gli mancherà mai un argomento
di conversazione.
 

Beati i vecchi e tutti i loro specchi,
beate le rughe e chi se le mantiene intatte
e ne è geloso perché è solo quello
che distingue gli umani dalle blatte.
 

Beate le blatte perché non è bello
che siano infangate
come ho fatto prima.
Per banali ragioni di rima.
 

Beato il sesso fatto con amore,
beato il sesso fatto per il sesso:
ché poi è un po’ lo stesso.
C’è sempre lo stesso sudore.
Beato l’amore.
In sé.
Un po’ meno beate
certe cazzate, di cui faremmo tutti quanti a meno.
 

Beata la musica, quando è scritta bene.
Beata la musica, anche quando stona.
Quando commuove o rimuove chi la suona.
 

Beati quelli che lo sono stati, beati,
e però non si perdono in rimpianti
e rispondono alla vita
ubriacati di schianti.
 

Beato il cinghiale e il ginepro e i rovi.
Beato quel tratto di terra che va da Chiusi
a Piegaro e a Montegabbione.
Ma invece beata tutta la terra,
che non si faccia discriminazione.
 

 

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5 Commenti

  1. Che dire? Bellissimi. Complimenti a Giordano e grazie a Giorgio per la diffusione.
    PS: Esiste un calendario di readings di questo splendido “bluesman”?

  2. Due parole per dire…

    Che ho sempre pensato che la poesia
    potesse essere di tutti, universale e
    non degli imitatori degli imitatori

    Che potesse essere come il Jazz,
    un’improvvisazione che approdi là
    dove non è mai ben chiaro…

    Come le nostre vite,
    pronte a essere spezzate
    ora o dopo o quando…

    Come il gusto eterno di due note semplici
    o un lamento blues di B.B. King,
    una poesia nera e vera,
    il vissuto nel sangue
    nel ricordo di bianchi traghettatori,
    caronti di nuovi inferni in terre lontane…

    Ho sempre pensato che la poesia
    non dovesse essere ’interpretazione
    più o meno riuscita di
    uno spartito del Carulli
    o di una sinfonia di Wagner
    o le pause di Satie così
    studiate con gli intervalli
    ubbidienti come tanti soldatini
    pronti a immolarsi per una musica assente

    Ho sempre pensato che la poesia
    fosse nell’aria inquinata che respiriamo,
    nella vista rara di un bel tramonto,
    nell’amore ancora più raro per una donna.

    Jimi, un maledetto mancino nero,
    ha cambiato le sorti della musica,
    una poesia diversa
    che ha sconcertato le solite bolle
    di sapone appesantite dalla paura
    di dover cedere il passo ai
    soliti extra-comunitari…

    Ho sempre pensato che la Poesia
    fosse in uno sgualcito poster di un bar…
    o la Marilyn tappezzeria di un TIR
    inginocchiata con le calze a rete
    di una nera che ti prende il coso
    e te lo succhia sino a farti male male

    Due parole per dire…

    Che ho sempre pensato alla poesia
    nelle fusa affettuose del mio gatto
    e non nel riciclaggio di sacchi di patate
    a cui pagar cospicui dazi a
    squallidi mercanti d’arte impoveriti
    dalla propria miseria umana
    ricoperta da un libro di Montale
    con le pagine sgualcite e impolverate
    da saccenti starnuti del dopo,
    copertura di grasse ignoranze,
    travestite da battone slave
    che sulla Binasca reclamano
    il loro diritto alla vita,
    vita non scelta,
    un’altra vita pensavano,
    un altro padrone cercavano,
    un altro lavoro…
    un marito
    un figlio
    e
    io
    penso
    ai nostri mecenati
    che battono sulle strade di
    una falsa poesia
    chiedendo
    (non danno)
    percentuali
    ai loro clienti…

    per una pagina lampeggiante

    per un premio inutile
    dai troppi anonimi vincitori

    per scuole che si aggiungono
    a scuole olocausto
    dove studiavo con il marcio
    del legno che puzzava
    e la maestra che puniva la mia mano
    “maledetto mancino” che il Diavolo
    ti abbia in gloria schernito
    da saccenti compagni
    che mi tiravano le noccioline
    come giovane cucciolo in gabbia
    dietro una vecchia lavagna
    logorata e scrostata dal tempo
    che non l’ha
    perdonata – la maestra –
    il diavolo l’ha poi accolta in gloria!

  3. belle… invece sul sito della lipperini si cazzeggia amabilmente sul polso rotto della giornalista! che meraviglia! che humour!

  4. Ah: Meacci! Così piacevole e bello sulla pagina. Quanto impraticabile dal vivo. Meacci, però: quando ci fai leggere un altro libro? E poi: ti serve per caso un chitarista?
    JL Hooker

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