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Attori

di Franz Krauspenhaar
 

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La  mascella inutilmente volitiva si profila contro lo spessore del  buio, vede nella notte con i suoi occhi piccoli di faina  stupida  la figura netta e decisa del suo migliore amico. Era fin da ragazzi che si spintonavano lungo le scale della scuola, lungo quelle scale, quelle scale, quel marmo color gorgonzola lavato tutti i giorni dai due bidelli, due pseudonani senza dignità di uomini, lui credeva.
 

Vedeva gli altri ragazzi sgorgare dalle aule con tramestii indecisi e disegnare sui retri dei quaderni Pigna patetici aeroplanini scoppiati, c’era ancora nell’aria sentore di dopoguerra sebbene si fosse pervenuti da un lungo pezzo di tempo fuggito negli anni 70, quei fatidici anni di chiacchiere e sangue rosso e nero; ma ancora un sacco di gente scampata alla guerra mondiale era viva, non ci si poteva fare niente, niente, per questo niente, non c’era niente da fare.

More...  Da ragazzi si spintonavano lungo le scale della scuola, ai corrimani rischiavano ogni volta di ferirsi, non di cadere, perché erano saldi, delinquenti nati. C’era in loro  qualcosa di primordiale, era la voglia di primeggiare, era la voglia di superare l’altro, tutti, sempre.
Amici per la pelle per nessuna ragione. Erano capitati nel mondo nello stesso anno di nascita, le loro madri si conoscevano, i loro padri erano amici di bocce e carte, tutto un caso, come sempre, tutto un caso, come sempre.
Non toccavano le ragazze dell’altro nemmeno con un dito mignolo, erano spietatamente corretti, assurdi, sordi, cretini, credevano nell’onore perché onore era la parola d’ordine dei perdenti di sangue, amavano la svastica, amavano il nazismo.
 

Nel gruppo di neonazisti under 16 erano in 14, loro due  erano tra gli ultimi della fila degli imbecilli sadici adolescenti; lui era il più scarso nel tentare a parole di far fuori tutti, l’altro invece era una piccola belva, l’altro bene o male si distingueva, aveva fauci da lupo spelacchiato color tabacco che sputavano sentenze di morte.
Progettavano attentati in nome ma non per conto di Adolf Hitler ed era il 1979, li progettavano e basta dietro ai quaderni, disegnavano bombe in scala sul retro dei quaderni, erano armati di coltelli a serramanico cinesi e basta; l’anno dopo scoppiò una bomba in un treno a Bologna, alla stazione, dissero da tutti i pori slabbrati dell’informazione che fosse stata colpa dei fascisti, l’altro disse a un tratto: “Sono dei dilettanti. I fascisti sono dei dilettanti”. Gli fece schifo, fu la prima volta che lo odiò, erano odiosi, erano stupidi, erano rifiuti, l’altro era il peggiore, l’altro era immondizia travestita da essere umano, l’altro più di lui, ne era certo, si, ne è  certo, e adesso ne è ancora più certo.
 

La sua mascella in fin dei conti ammosciata si profila ancora più inutilmente volitiva contro la voglia di uccidere di questa notte spalancata sul mondo mai stato così squallido, insensato, stupido, di merda, mondo di merda senza futuro, senza più storia, senza più passato, senza amore poiché l’amore non è mai stato, e poi l’amore è una famigliola di piattole di pensieri sconnessi e speranze vane. Ha deciso di ucciderlo, ora. Hanno bevuto troppi whisky di Marca Ignota, contratti contro la parete della sua casa di campagna mentre la primavera soffia timidi guaiti di stupido giubilo; sono rimasti per ore da soli a gesticolare, a ridere, a mimare i vecchi spintoni, insensati come ai vecchi tempi, come lungo i corrimani della scuola; il mare parzialmente mosso non lontano, venti calmi da est, millibar perfetti a cifra tonda, ultime nuvole a scaglie digregantesi nell’abbassarsi della sera e vento dal nord a smuovere un nulla atomico, qui, in questa fragile casa di campagna nuda e cruda come un serpente scuoiato.
 

Il suo sentire non si sente, le sue parole non parlano, i suoi pensieri sono fagotti di pece e piume che s’imprimono nel vuoto crudo spinto nei cunicoli del niente solido. Le loro donne, le loro mogli, i loro figli sono fuori, a una festa di compleanno tra imberbi maleducati  e sguaiati, i futuri parassiti della società . Lui guarda l’altro e vede una specie di parete bianca e decide che succeda, che succeda, che presto succeda.
 

Non c’è fatica nell’ucciderlo, è semplice, lo aggredisce alle spalle con un coltello da cucina, di quelli giapponesi, Yanagiba; un colpo netto tra le scapole: l’altro sanguina, urla,  muore, così, come nacque nel suo stesso anno di nascita, è così – la morte è il negativo della nascita, è così, così, si.
 

Esce nella notte piena di niente, una luna flaccida come una patata surgelata prefritta cala, perché così è, perché così è già stato troppe altre volte, quasi sempre; attende il ritorno delle loro belle signore e dei  loro  bei rampolli dalla festa di compleanno guardando dalla veranda ombrosa il sangue  dell’amico sgorgare lento come un lungo verme rosso scuro che si allunga. Sente da lontano il vociare felice dei loro bei bambini, ora sente sua moglie che ride, la moglie dell’altro che parla con l’orfano, Andrea, l’orfano, tra poco lo saprà, senza padre, l’orfano, il primogenito, il più orfano di tutti.
 

Povero piccolo, ha ucciso il  padre del suo migliore amico, l’ha ucciso. Lungo il corrimano delle scale nel suo pensiero tumefatto di stanotte sente di nuovo spintonare l’altro, il suo migliore amico, per farlo cadere, 1976, allora, erano ragazzi, tanto tempo fa. Nel mezzo solo delusioni a percussione, l’addio della giovinezza, fandonie, tedio, atrocità, morte di genitori, di innocenti, di soldati, di nonni e zii, di molti, di troppi, di un sacco di insulsi Chi Sa Chi – chi se ne frega comunque, di loro. Un morto in più, uno in meno, che differenza fa, nessuna differenza, assolutamente nessuna, il cadavere del suo amico si assomma  a milioni di cadaveri diventati tali prima di lui – caldo ancora per poco; né sollevato né altro attende le urla della moglie dell’altro, dei figli dell’altro, di sua moglie, dei suoi figli, di sua moglie, dei suoi figli, ha ucciso il suo migliore amico, è così, è così, è così, è così, si, si, si, si. Forse sterminerà tutti, forse terminerà qui, non lo sa, ancora no, ancora non sa, ancora non lo sa. Non c’è luce laddove la pace non esiste forse da sempre; nel bosco freddo dei sentimenti mai stati non si sente vociare un passero, né un grido di dolore – neanche quello – fa da contrappunto nel buio al niente che è dappertutto e di niente s’imbeve e si nutre; ed è tutto qui. Niente è, niente. Ucciso l’altro, non gli rimane che attendere nemmeno lui  sa cosa, che cosa, non sa che, non sa che cosa, che cosa, niente, lui crede niente. Forse non attenderà nulla e sognerà di morire, un giorno, in una cella lontano da tutto questo, nella pace, finalmente, nella pace, finalmente, nella pace, finalmente, nella pace, finalmente, nella pace.
 

Si svegliò di colpo, sabato mattina, il cuore che gli evadeva dal petto. Jeanne comparve gigantesca e fuori fuoco nel suo stretto campo visivo con i suoi occhi neri spalancati sopra la sua testa; sei tutto sudato, gli disse, e hai dormito scoperto, fa freddo. Sul tavolino in plexiglass c’era la colazione leggera del mattino, gli porse il bicchiere di cristallo con il bordo d’oro e sovraincise le iniziali di suo padre l’industriale del giocattolo, con dentro la solita spremuta d’arancia versata a metà. Hai avuto un incubo? gli chiese. Lui le sorrise stentato.Si svegliò ancora di colpo, di nuovo sabato mattina, ancora il cuore che gli evadeva dal petto. Jeanne comparve di nuovo gigantesca e fuori fuoco nel suo stretto campo visivo con i suoi occhi neri spalancati sopra la sua testa; sei tutto sudato, gli disse ancora, e hai dormito scoperto, fa freddo. Sul tavolino in plexiglass c’era di nuovo la colazione leggera del mattino, gli porse ancora il bicchiere di cristallo con il bordo d’oro e sovraincise le iniziali di suo padre l’industriale del giocattolo, con dentro la solita spremuta d’arancia versata a metà. Hai avuto un incubo? gli chiese di nuovo. Lui ancora le sorrise  stentato.

Durante le riprese del film intitolato Camerati di carne e sangue, ambientato in Italia, aveva passato uno dei periodi più devastanti della sua vita; quattro micidiali mesi in un set in Romania al freddo e al gelo: il regista era un polacco cocainomane mitomane e sadico, lui parlava un inglese stentato, lui recitava in tedesco, anche Markus Hellens in tedesco (era tedesco, Markus), Marie Duhamel in francese (era francese, Marie) , Lea Van Loos in inglese (anche se era olandese, Lea). Il regista polacco Gregorz Wolkowski era un cocainomane mitomane e sadico che invece parlava in un inglese eccellente. Però misero insieme lo stesso un gran bel film, anche perché i due neonazisti erano proprio due perfetti personaggi da gran bel film; lo sceneggiatore italiano Sante Burdoni insigne commediografo aveva scritto un copione di carne e sangue, il film avrebbe fatto discutere, ci sarebbe stata grande attesa nel milieu e tra il pubblico, il montaggio fu completato con piena soddisfazione di tutta la coproduzione italoanglofrancotedesca. Markus Hellens l’aveva pugnalato alla schiena per finta quella notte, ricordava bene quando il temibile, arrogante Wolkowski alla fine della scena aveva detto STOP! Quando vide il film quasi editato per intero si accorse che quella scena fu chiusa da una meravigliosa dissolvenza in nero che gli aveva fatto pensare subito a un famoso regista  di cui ora non ricordava il nome.

Che incubo hai avuto? gli chiese Jeanne sistemandosi accanto a lui, già vestita in tailleur da gran dama giovane del secondo millennio al suo principio. Lei  di mestiere faceva la costumista ma per il teatro.

Ho sognato la scena più importante di quel maledetto film, le rispose.

Povero amore caro… Gli accarezzò la testa e gli sorrise con una comprensione studiata.

Non appena sua moglie Jeanne uscì di casa per andare a teatro a lavorare Heinz Murmatt telefonò a Markus Hellens, che era diventato suo amico durante le riprese, mentre con Marie, Lea e soprattutto con quel  cocainomane e mitomane e sadico e arrogante e temibile stronzo fottuto del regista polacco Wolkowski non era mai corso buon sangue. Markus era a Essen, insisteva a vivere a Essen quando avrebbe potuto vivere a Berlino, Markus secondo Heinz era matto, viveva non lontano dai genitori ex operai metalmeccanici a Essen quando avrebbe potuto vivere in un paradiso in terra o giù di lì; il mondo quando ci sono i soldi lo puoi avere comodamente disteso sotto i piedi, pensava Heinz.

Come va, amico mio? gli chiese.

Markus  aveva raccontato ad Heinz  di aver sognato quella scena anche lui molte volte, ma ovviamente dal suo punto di vista di vittima. Heinz ne rimase molto impressionato, pensò di raccontarlo al suo psichiatra. Tra l’altro Markus gli aveva confidato giustappunto di averlo raccontato al suo e che lo psichiatra di Essen gli aveva detto evasivamente che la cosa era dovuta a stress, che non doveva recitare per un po’, era meglio riposarsi, troppa identificazione con il personaggio.

Heinz  l’indomani doveva partire per Roma perché si cominciava a girare una miniserie tv nella quale avrebbe interpretato un poliziotto drogato, corrotto, masochista, erotomane.  Lo raccontò a Hellens, si sfogò. Intanto ingoiò una pillola di  Xanax 1 mg, una di Carbolithium 300 mg e  tre di Maveral 50 mg facendosele spingere nell’esofago dal succo d’arancia spremuto dalle sapienti mani di costumista teatrale di sua moglie Jeanne la figlia dell’industriale del giocattolo. Hellens gli disse di rinunciare alla miniserie tv, Heinz gli fece notare che aveva firmato un contratto, Hellens gli disse che la salute era più importante di tutto. Heinz pensò che l’amico aveva ragione ma non c’era niente da fare, questa è la vita di noi attori, pensò, un inferno, questa è tutta la verità nient’altro che la verità eccetera eccetera. Essere diversi ogni volta e vivere comunque quasi sempre vite terribili come quelle di certa gente quasi sempre mai esistita – delle quali noi interpretiamo le vite mai vissute- è una cosa orribile e ti plasma, ti calca, ti incide, ti fa male, alla lunga e anche alla breve, pensò. Confidò a Hellens di essere stanco di fare l’attore, anzi di esserne esausto. Lui gli disse la stessa cosa ma non era una consolazione.

Ma cosa possiamo fare? chiese Hellens dopo una lunga pausa, questa è la nostra vita, io non so fare altro.

Nemmeno io, ammise Heinz.

Quando faceva l’attore di teatro sapeva sempre dove andare dopo lo spettacolo, ora non sapeva più dove andare, lo spettacolo del cinema non era in verità uno spettacolo, si sentiva sempre una marionetta oscena, al termine di una lunga giornata trascorsa sul set non sapeva mai dove andare. Glielo disse, anche se Hellens lo sapeva  già. Infatti Hellens disse di sentirsi anche lui una marionetta oscena però da sempre, lui in teatro infatti ci aveva lavorato poco, pochi mesi vent’anni prima, e anche lui non sapeva mai dove andare la sera dopo le riprese; infatti Heinz ricordava che laggiù in Romania la notte il tedesco tentava di dormire ma non ci riusciva, e allora immancabilmente si ubriacava.

Cosa si può fare? chiese Heinz all’amico senza nessuna speranza che quello gli desse un’indicazione utile.

Niente, rispose Hellens, non si può fare niente. Bisogna continuare a recitare e basta, recitare fino a quando non ci chiameranno più.

E poi? Heinz era in preda al panico; riprese con un pelo bianco di voce: Poi, quando non ci chiameranno più, cosa succederà?

Cadde la linea. Heinz attese che Hellens lo richiamasse. Sapeva molto bene che non aveva una risposta da dargli, ma che comunque  avrebbe richiamato tra pochi secondi per confermargli che nemmeno lui lo sapeva.

 

 

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1 commento

  1. “scusa mi presteresti 10 euro?Te li ridò domani.Se non me li vuoi prestare al mare non posso andare.Se tu me li presteresti con me al mare verresti,che ne diresti?Ti offenderesti o spariresti?
    Ricorderesti?
    A chi li daresti?
    Via libera a tutti i testi
    (anime in questo periodo mesti?)
    non mi crederesti

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