Da: Impronte sull’acqua #1
di Francesco Marotta
*
riesce più il sale a
dire la verità del
la luce, quando il suo
nome è un’eco, un’
impronta su
un foglio di via, come
avviene tra il fuoco e
una vela
arenata in onde di brace
o allevando porfidi d’acqua
per la sete di
segni
illeggibili, cresciuti
in punta di dita, anche ieri
fa giorno da un
grumo di secoli, sottrae
domande ai ricordi e
si pensa, già in odore
di sabbie, risalire i tuoi
occhi fino all’aria
che brucia, ora
tace, l’inverno è
un pantano di fumo, tu
comincia a guardare il
rivo di pioggia
che ti esce sangue dai
pori
*
tacite rughe assediano
i ricordi, l’ago
spazza via l’assenza e
la pagina è pronta
per l’inchiostro che
vaga tra silenzio
e silenzio, un
ospite in anticipo
per la veglia dei morti, un
corpo che agli orli
ha steli di pane raffermo
cisti di sogni e
stagni dove si allunga
la radice
lunare al suo primo
apparire, mi dici
inizia a contare da qui
i nuovi giorni, le righe
nutrite di semi
gli accenti, poi
recita tutto il riserbo, gli
abiti smessi, il
cobalto annerito tra
i pori, le stelle
lasciate a marcire dentro
scrigni di nebbia, il mare
sorpreso a fuggire
le parole dell’onda, ora
è tempo, l’esilio del lume
già varca il confine
tra vene e
memoria
*
portati via
dal calendario, come
api strappate
di notte al sillabario
dei mesi, al
la cura di laboriosi
codici, sciamano nel
sonno del
le voci, nel freddo di
lingua in cui
il miele è malattia
dei fiori, figura
stranita che
non si abitua a
passare sul greto
arido del sole, sul
la pelle di segni che parlano
l’aria, la mano
posata in un angolo e
l’ala in disarmo, in
dis
amore di volo, qui
ci si inerpica sul
piano velato, per la
via resa bianca dal latte
dei sogni, per
la grazia che al pieno
del male si disfa in un
delirio di affetti
*
secrezioni di un male
che si abita viscere e
sangue, un viaggiare degli anni
su una corda che ha
consistenza di eco, e resiste
con l’arte sottile che
ora stringe, ora allenta, ora
brucia e rinsalda, scolora
riprende, intrisa di umori
notturni, di piume strappate al
l’ala fetale, al ritmo dei giorni
al sesso, a un amplesso
dissennato e coeso, in uno
con quello che avanza, che
resta e si oblia, si veste
ancora di vita, nessun foglio
contiene a misura il
flusso dell’ultima acqua, il
riflusso, il deflusso del seme
la cura che evoca mani
d’angoscia, e il tuo volto
bambino che strappa alla notte
una stilla, una benda inzuppata
di luce, di alcol, di fame
la promessa che dice il
ricamo pungente di altre
albe sugli occhi
*
la crosta si sazia di ghiaccio
minerale, la zolla che
preme ha la pelle
costellata di fori, accensioni
che affondano il senso e
sfumano alla resistenza
del seme, e dunque
l’arsura è un coagulo
che impregna tutte
le cose, un liquido inverso
muta occhi per uscirsene
al sole in forma di
stelo, di voce, mentre
scivola via da ogni sponda
tra un filo di sale e uno
strappo nella rete
del tempo, ma
qualcosa s’attacca al
la bocca, un pulviscolo, un’
ombra, una creta, un’orma
sul manto del buio, un
profilo di sangue, di linfa
aggrumata
s’apprende al suono dei passi
scioglie i lacci al
sonno dell’angelo
che rovina, al risveglio, nel
vuoto di volti del
la prima dimora
*
frana anche l’attesa e
l’ora spalanca tiepide
quieti d’abisso, lo spazio che
cede a un graffio d’anima, al
pallore di ombre di plastica e
ossa, immagini a picco
sfarinate nel piatto, un
pasto di sere già muffe, il
ventoso continuo di luci e
rombi che gonfiano l’aria, tra
passano in dissolvenza
le strade ad altezza
di voce, i liquami di vite
arenate ai margini di un grido
filamenti, radici, qualcosa
che arriva alla porta e
vapora sull’uscio
in forma di respiro, un saluto
un sorriso stentato, tu ora
dormi, io raccolgo la
sabbia dai vetri, la polvere
rossa che rinasce nel palmo
a ogni colpo di spugna, un varco
carnale che tracima alfabeti
parole per dire riconoscimi
sono tua madre, sono
l’acqua che
grandina sete nel
l’arsura dei giorni, la risposta
che scivola via dal
le labbra in forma di rogo
(Impronte sull’acqua – Gennaio-Settembre 2006)
semplicemente bellissimo, sono incantato. mi ricorda i versi ispirati di grytzko mascioni, quelli testamentari di “angstbar”. grazie ai due franceschi.
Prima lettura nel silenzio dell’ufficio ancora vuoto.
Bel ritmo, davvero, stampo e leggo con calma a casa, che anche le poesie richiedono luoghi adatti per essere lette a dovere
sempre poetici,
Avrebbe un bel ritmo se fosse un poema in prosa, invece la disposizione dei versi e l’imposizione del ritmo data dall’autore influenza negativamente il gusto della lettura. E comunque il testo manifesta una delle limitazioni della poesia di oggi: quella di assumere il carattere di semplice lista di visioni-pensieri, in cui vi si riconoscono tutti e nessuno. L’ultimo Joyce ha generato forse troppi allievi…
Invece io trovo il ritmo la cosa più interessante. Scrivo solo in prosa e sono un lettore distratto di poesia, ma proprio scrivendo in prosa ho scoperto che il ritmo è la cosa che mi affascina di più nella pagina. La semantica è conseguenza.
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poema in prosa.
prosa poetica.
l’importante è riconoscersi, nascondersi, morirci dentro, sentirsi narrati, portarselo a schegge, a brani, e anche un po’ nei pori. mah.
bel testo.
un saluto
paola
Un grazie a Franz per aver pubblicato questi testi. Uno grandissimo a tutti voi per la lettura, a Sergio e Paola anche per la bontà. E un grazie particolare a Vittorio, per i rilievi critici. Il fatto che io possa non condividerli, non mi impedisce di rispettarli e di ricavarne, comunque, una serie di riflessioni sulle scelte operate. Mi permetto soltanto di far notare che, forse, enucleare un discorso sulla resa ritmica, e assolutizzarlo, può anche impedire di coglierne la funzione all’interno della architettura testuale complessiva. E questo a prescindere da qualsivoglia giudizio di valore si dia sul testo in sé: materia nella quale il lettore è sovrano, visto e considerato che solo il suo approccio, comunque motivato, rende ai versi il senso e la possibilità/necessità di cui sono voce e traccia: quello di essere.
caro Francesco
alle poesie che tolgono il respiro si dovrebbe rispondere solo tacendo. E in quel silenzio ricomporre il senso- il verso?- di quello che siamo e di quello che saremo.
C’è nella composizione da te voluta – in particolare la dis- articolazione, quel posporre la parola all’articolo che resta sospeso al verso come in un precipizio – quel principio di slittamento, smottamento, inciampo, che riesce, nonostante l’artificio del fare poetico a parlare di vita, a essere vita.
E le tue parole mi fanno vivere, Francesco, tout simplement.
Effeffe
[OT?]
@francesco.
perdona. non volevo “essere” buona, ma solo scrivere che quando s e n t o, – oddio, adesso al signor tashengo e non solo a lui, andrà nervosamente su è giù il pomo d’adamo…) che si stabilisce un contatto tra quello che leggi e quello che non leggi – i secretati, l’innominati, qualche evanescente e fuggevolissima parte delle molte chiavi di volta di ciò che ha potuto generare i versi ( sempre all’interno del testo)…
ecco, per me questo intimo e personale mio con-facere è poesia.
insomma non solo non solo essere ma anche sentire di essere. (pure nell’astrazione del non-luogo, anzi e piuttosto)
paola
da “mio con-facere” levare “mio”
merci
paola
Caro Francesco, felice di rileggerti. A presto
Giorgio
@ Paola
“quando s e n t o che si stabilisce un contatto tra quello che leggi e quello che non leggi – i secretati, l’innominati, qualche evanescente e fuggevolissima parte delle molte chiavi di volta di ciò che ha potuto generare i versi ( sempre all’interno del testo)… ecco, per me questo intimo e personale con-facere è poesia”
Credo tu abbia scritto una delle più belle definizioni (possibili) della poesia che abbia mai letto.
Il territorio che si estende tra ciò che è scritto e il non detto è il vero “luogo” della poesia, creatura di parole che reclama di essere prima ancora di dire, di significare. Affinché ciò si avveri, c’è bisogno di una pupilla attenta, capace di ridefinire in lineamenti di carne e sangue il silenzio insostenibile tra sillaba e sillaba, esplorando lo spazio bianco che senza quello sguardo vive solo come possibilità, come assenza. E’ qui che il lettore si accampa e pianta le sue tende, “per aprire”, come chiosa Biagio Cepollaro in una sua “nota” esemplare, “le porte del testo di cui in qualche modo, anche solo per un presentimento, aveva la chiave”.
Il romanticismo tedesco ebbe un notevole coté scientifico: Novalis, Goethe lasciarono il segno prospettando un’immagine della natura assai diversa da quella newtoniana (Freud disse che la spinta prima la ricevé giovanissimo da una conferenza in cui venne letto un brano famoso di Goethe sulla Natura Madre). Bene, un romantico minore di cui mi sfugge il nome (ma c’è anche una traduzione italiana in Sormani, di metà Ottocento), studiò fenomeni-limite, passaggi analogici tra i vari regni, come in una riedizione scientifica della prospettiva rinascimentale. Tra questi, le Klangfiguren. Cospargendo di polvere una lastra di rame in orizzontale, ed emettendo dei suoni da sotto la lastra, la povere si disponeva in figure particolari: figure di suono appunto. Come impronte nell’acqua.
Questa è una delle tante idee-emozioni-impronte che ha suscitato in me, animale costituito da 3/4 di acqua e 1/4 di vino (per ora, ché le porzioni si vanno velocemente bilanciando).
Da tempo trascrivo le tautologie che mi capita di ascoltare, nell’illusione che la verità sia il punto di fusione tra una banalità e un paradosso, qualcosa di ovvio e profondo come un silenzio. E’ un’operazione simile a quella del dottor Murke, il personaggio di Böll che collezionava le pause delle interviste e dei discorsi. San Galgano, i prigioni di Michelangelo, le tracce di Parmiggiani: è ciò che manca quello che mi seduce, il tono interrogativo, la richiesta di un interlocutore? O è che mi rispecchio in quel vuoto di senso, come dice Cummings in un celebre verso (“My life resembles something that has not occurred”)? Non so. So solo che mi piacerebbe essere capace di tacermi per iscritto, al modo di Renard, e spesso penso che abbia ragione Trevi, quando dice “tanto più arcane e belle, tanto più inspiegabili, le cose, quanto più sono semplici, non significano realmente nulla, sembrano non voler fare nemmeno lo sforzo”. Ecco, per me il fascino maggiore dei versi di Francesco, nella loro bellezza e semplicità, è che non tradiscono alcuno sforzo.
faccio fatica a ca
pire, oh
dust, perché dovrebbe
far
mi su e giù il pomo.
d’adamo.
@ Francesco.
grazie della bella risposta alla mia replica.
@ tashengo
le mie scapigliature romantiche la innervosiscono.
un saluto
paola
tashtego è un…
(censura)
Ti dicono
Una sera che sei
Un
Frase in
Completa
Ci mettono puntini
Ma tu già
Ne sapevi
Qual- Cosa
Essendo
Che dentro
Questo grosso
Sacco di pelle
Ci vivi da
Decenni.
Scusate se devo fare sempre la parte del bastian contrario e defilarmi dal coro di voci entusiaste: questo testo a mio parere è brutto. E’ lungo e prolisso, non mi piacciono le immagini e non condivido la scelta del linguaggio. Ho temuto di non farcela ad arrivare fino alla fine. E’ necessario ribadire una cosa: non basta che un testo sia strutturato in versi per fare una poesia, purtroppo mi sembra che pochi lo abbiano ben chiaro. Le spezzature (o enjambemant) sono importanti, ma quelle presenti in questo caso non creano alcun effetto di scarto tra ritmo e sintassi. E poi, non c’è musicalità. Non basta mettere delle frasi in fila, spezzarle qua e là, occorrono gusto estetico e sensibilità nell’uso del linguaggio, nel costruire associazioni tra senso, parole e immagini. Bisogna trovare un equilibrio tra significato e significante. Una bella poesia può essere semplice, ma non piatta come questa.
Caro Dr. Jekyl, tu non stai facendo il bastian contrario, stai esprimendo un tuo parere più che legittimo: un testo brutto, lungo e prolisso, di cui non condividi né le immagini né la scelta del linguaggio. Tutto bene, con solo un po’ di rammarico da parte mia per averti, involontoriamente, costretto a fare lo sforzo di arrivare fino alla fine.
Non riesco più a seguirti, però, e me ne dispiace davvero, perché magari avrei imparato qualcosa di nuovo, a partire dal tuo perentorio “E’ necessario ribadire una cosa”. Ribadire a chi, e cosa? A me? Che non so usare l’enjambemant? Ma lo so già, ed infatti non lo uso. Che la mia strutturazione dei versi non risponde alla tua idea della poesia? Continua a mancarmi la tua idea di poesia (o forse la immagino soltanto). Che non basta mettere le frasi in fila e poi spezzarle qua e là? Ma io so fare solo questo, mi dispiace. Che ritmo, sintassi, senso, parole e immagini sono merce rara nel mio negozio? Lo so bene anch’io, ma bisogna anche vedere cosa uno è venuto a comprare.
Anche a me, se permetti, preme “dire” qualcosa, non “ribadire”: il dire è tipico di chi si offre per quello che è e cerca il confronto, la discussione per migliorarsi; il ribadire è tipico di chi ha verità da proporre/imporre, e anche in questo campo mi trovi assolutamente mancante della merce richiesta: io non ne ho nemmeno una. Dico, quindi, che per me non esiste un modello unico, canonizzato di poesia, ma che il poiein è, per sua essenza, un experimentum mundi in lumine finitudinis, e, in quanto tale, è naturalmente teso alla ricerca di nuovi sentieri e nuove forme di significazione; che la tua idea di poesia (quale sembra trasparire da quello che scrivi), che io non disprezzo affatto, anzi, è “uno” tra i tanti sentieri possibili; che per avvicinare un testo, cioè per volerne capire i possibili sensi, l’architettura profonda (il che non significa dire per forza è bello: bello e brutto sono due categorie che, al massimo, possono fare da presupposto a un giudizio critico-estetico o a una puntuale analisi testuale, ma non possono esaurirli, perché, così assolutizzati, non significano niente), la strada peggiore è proprio quella di inquadrare la singolarità che si offre alla lettura all’interno delle nostre categorie di riferimento, già definite e predispote; che, in quest’ultimo caso, noi non leggiamo ciò che quel corpo segnico “è”, ma ciò che vorremmo fosse.
Non è un rilievo di alcun genere, è solo un mio discutibilissimo dire, che nasce dalla “delusione” non per il “brutto” (che per me ha stesso valore del “bello” di altri commentatori), ma perché non mi si spiega, ad esempio, perché manca un qualsivoglia “effetto di scarto tra ritmo e sintassi”, visto che, a mio parere, il senso di quei versi sta proprio in quella frattura (della parola in sé come corpo che si crea e si guarda, non come elemento fondante una significazione già data). Delusione, quindi, come conseguenza del fatto che, alla fine, non ho ancora imparato niente e continuo a spezzettare le frasi così, a caso.
Grazie comunque per la lettura.
Ich heisse Gebrochen, Doch Gebrochen wie Allen (so wie Allen heisst Woody wie Goothrie usw.), und ich möchte gern diese IMPRONTE auf deutsch untersetzen (denn ich bin ein armer Untersetzer, ein verdamter Untertan des Autors – nur, dem Gesetzt des Contrappasses/Contrescarpes nach, muss ich überbezält werden).
Herr Maretta, bitte, gib mir eine Antwort!
Doch Gebrochen
PS. wie den Titel untersetzen? WASSERSPUREN oder KLANGFIGUREN?
Ora io dico che, metti, se invece di scrivere “o allevando porfidi d’acqua” il poeta avesse scelto “o allenando ibridi d’acqua” o magari “o attrezzando bifidi d’acqua”, cioè avesse scelto altre parole con altri significati – concedendogli che l’unico termine davvero significante (almeno per me) nel verso in questione (che scelgo a caso) sarebbe “acqua”, se non ci fosse quell’opposizione evocata e contro intuitiva tra porfido e acqua – cosa davvero cambierebbe nell’intera composizione?
Se il penultimo verso dell’Infinito de Leopardi ( mi scuso per la banalitas in lumine finitudinis dell’esempio) suonasse “immensità s’annega il pensier zio”, il senso dell’intera poesia risulterebbe, se non stravolto, certo deragliato e i critisci si chiederebbero da almeno un secolo e mezzo se si tratti di una svista o di un’intenzione.
Quello che mi colpisce in lavori come quello qui sopra, non esente, almeno per me, da una certa suggestione (ma, come ben sa dust, modestamente diffido dalle “suggestioni”) è quella che, almeno a me, appare come la mancanza di necessità nella scelta delle parole, in un generale fare a meno del senso.
Ma posso sbagliare, certo.
@ Tash
Un coup de dés jamais n’abolira le hasard
Caro Francesco,
perdonami, penso che a volte faccia meglio una “cattiva” stroncatura che dei “buoni” complimenti. Scusami, ma quando spezzi i versi usi proprio un tipo enjambemant.
Esempio:
“riesce più il sale a
dire la verità del
la luce, quando il suo
nome è un’eco, un’
impronta su
un foglio di via, come
avviene tra il fuoco e
una vela
arenata in onde di brace”
Le spezzature qui non mi sorprendono, non mi “spiazzano”. A mio parere non ce n’era bisogno. Mi permetto di suggerire una rielaborazione:
“riesce più il sale a dire
la verità della luce
quando il suo nome è un’eco
impronta su foglio di via
come tra fuoco e vela
arenata in onde di brace”
Quando scrivevo “ribadisco” mi riferivo in generale ad altre discussioni fatte in altri post, vedi “Patrizia” di Raimo, sempre sullo stesso argomento.
Non ho la presunzione di conoscere l’universo della poesia, credo però che non si debba mai prescindere da alcuni aspetti di fondo che sono una prerogativa di qualsiasi buona poesia: poesia del mito, metafisica, surrealista, naturalista, astratta, materialista e cos’ via. Sia che si parli di versi in rima e non o di versi in libertà, la scelta delle parole e la costruzione dei versi, il ritmo, la musicalità sono fattori importanti. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”, oppure “sempre caro mi fu questo colle ermo” , non sono la stessa cosa.
Questa non è la mia personale concezione di poesia, una tra le tante. Non è una ricetta, è solo un punto di partenza, un bagaglio di buona parte dei poeti. Poi, è anche vero che, al di là delle teorie, tutti possono scrivere poesie buone e meno buone.
@ D. G.
ERHÖRT
von den umgebetteten Funken
der Feuerduft um
den Leuchterstachel.
Alle
Bahnen sind frei.
Mehrere Erden
spiel ich dir zu im Erblinden –
die beiden
weißen behältst du, eine
in jeder Hand.
…
Erhört. Alle Bahnen sind frei.
A paola, a parte quello che è, e quello che non è. A proposito di quello che c’era e ora non c’è più. Che cosa sta succedendo? Perchè? (il perchè non lo voglio sapere, sono stato persino tentato di seguire quei numeri… ma non si fa). E’ un delitto ed è da irresponsabili. Ognuno crede di fare quello che gli pare.
errata corrige:
invece di “diffido dalle”, leggi “diffido delle”.
p.s. chiedo scusa per non aver scritto il mio sommesso commento in tedesco.
@ tashtego
Sono un tuo “lettore”, praticamente da quando conosco NI. Ho sempre apprezzato, ad esempio, certe tue stigmatizzazioni, in particolare quando prendi di mira “l’abito liceale” che molti si portano stretto addosso a lungo, anche quando inizia a puzzare e dovrebbe essere, se non buttato, almeno portato in lavanderia.
Ecco, secondo me, in questo caso, stai “licealizzando”, nel senso che, di fronte a dei testi che pure ti danno una “certa suggestione” (parole tue: ma vacci piano, può diventare pericoloso e, magari, spingere a rivedere qualche categoria concettuale a cui siamo particolarmente affezionati), tu, piuttosto che cercare di definire a te stesso quella suggestione in rapporto al testo, ti rifugi nella rassicurante dimora della perifrasi a tutti i costi, così come ci hanno insegnato (soggetto, predicato, complementi), cioè vuoi per forza riportarlo a un ordine razionale, a una sequenza di rappresentazione-significazione che è proprio quanto “quei” versi rifuggono, cercano di demolire. La “suggestione”, forse, contiene uno dei possibili sensi di quel rifuggire/demolire. Forse.
Questo procedere, giustificabile quanto altri, contiene però il vizio di fondo che ha tenuto la lirica italiana sempre lontana, a volte lontanissima, non solo da ciò che in questo campo si agitava e si agita in altri contesti culturali, non solo da quanto l’interazione con altri campi del sapere ha prodotto negli ultimi cinquanta anni, ma anche dalla stessa possibilità che la tradizione da cui deriviamo evolvesse, si aprisse alle potenzialità espressive che essa stessa contiene. Ridurre l’universo poetico a un’idea o a un concetto controllabile/gestibile/utilizzabile dalla ragione e dalle sue categorie è assurdo: e, in questo caso, perseverare, è proprio fare un torto a quel grumo di pulsioni e di tensioni intorno alle quali, e dalle quali, la nostra capacità di riconoscere corpi e strutture “altri” si definisce.
Prova a pensare perché, in Italia, i più lontani dalla poesia sono proprio i giovani scolarizzati…
skusa tashtsteshego (?!), warum no iniziare du mit nomen tuum? kvale lingva scritto? tu italiano parla italiano, no? ;——)
Caro Dr. Jekyl, ti ringrazio per la puntuale analisi, per la lettura/riscrittura in settenari/novenari/endecasillabi del testo che, guarda caso, in questo modo diventa più “leggibile”, anche più musicale, come fosse stato sfiorato dalla mano dello spirito santo. Ti ringrazio anche del tentativo di conversione alle belle forme della tradizione, ma io continuo a sentirmi un barbaro, un diverso rispetto alla loro assunzione acritica e museificata. Permettimi di farti notare, ad ogni modo, che stai comunque cercando di costringere il testo ad essere quello che non è, e che non sarà mai, spogliandolo della sua unicità e adattandolo a una coroporeità/gabbia che è la stessa da cui sta cercando di evadere, trascinandosi appresso chi scrive.
E’ lo stesso errore che, su piani diversi di discorso e di espressioni poetiche, porta tanti a ridere degli autori francesi presentati da Raos tempo fa; tanti altri a continuare imperterriti a ritenere la “loro” ricetta infallibale, che si tratti di lettori che licealizzano o di critici capaci solo di farsi le pugnette; tanti altri ancora, tra cui te, a non ritenere poesia quella di Raimo o a pensare che Lello Voce scriva prosa.
Ma i francesi di Raos, Raimo e Lello Voce (ho fatto solo dei nomi per esemplificare il concetto), pur muovendo da/verso orizzonti diversificati di ricerca e di esplorazione, sono veri poeti. Per accorgersene, basta mettere in angolo, almeno per qualche minuto, il liceale smunto che è in noi.
Grazie a tutti e un caro saluto.
La ricerca poetica genera sempre una sorta di resistenza al cambiamento. Conosco diversi insegnanti di lettere, padri dell’appunto “liceale smunto che è in noi.”, i quali si sono fermati a Dante e si rifiutano di leggere “l’oltre la siepe”. Per fortuna è il tempo che decide, questo tempo presente nelle tue impronte, che mi sono semplicemente piaciute. Marco
Caro Francesco,
Conosco solo l’inglese e quindi non so se i versi germanici si riferivano in qualche modo al mio intervento. Io credo che ci sia un equivoco: pensare che la poesia sia composta da vari ingredienti come tecnica, giochi verbali, eleborazioni etc., sarà forse manierismo, ma non vuol dire ingabbiarla o controllarla evitare di trasgredire le regole. Ben venga la tragressione che apporti novità, ma che non sia la coazione a ripetere trasgressioni ormai divenute “tradizionali”!
“perché, in Italia, i più lontani dalla poesia sono proprio i giovani scolarizzati… ”
A mio parere, lo sono soprattutto a causa di “cattivi” insegnanti e genitori, non certo perchè la poesia sia controllata, o chiusa alle più svariate forme espressive.
Insegnanti poco preparati, demotivati,maestri prima e professori dopo, non riescono a “far giocare”, a coivolgere gli alunni con la poesia, ma solo a trasmettere la noia; e questo non accade solo con la poesia. Cito un episodio esemplare: tempo fa ho portato mio figlio di 5 anni ad un incontro tra dei bambini ed il poeta-insegnante Elio Pecora, dove quest’ultimo avrebbe dovuto farli avvicinare alla poesia. Mi aspettavo un atmosfera giocosa, invece, mai incontro fu più noioso e retorico! Il “poeta” ha giocato un brutto tiro a quei bambini! Mio figlio ne scherza ancora e per fortuna sa che la poesia può essere altro. Per quanto riguarda i genitori, molti sono poco presenti e demandano l’educazione della prole a scuola, baby-sitter, televisione. Lasciano che a coinvolgere i loro figli siano quasi esclusivamente cellulari,video-game e wrestling. A parte la poesia, che futuro avranno questi giovani?
contro i liceali. e passi.
ma cosa c’entra raimo con la tua poesia? certo, il panorama della poesia oggi, come si dice in termini vagamente paraliceali, è frastagliato e molteplice, fanno fede le eserienze individuali. e però le singole e rispettive esperienze si muovono inevitabilmente lungo traiettorie definite, o in corso; precise letture, fonti e modelli da assimilare/reinventare (le tradizioni), come pure, eventualmente, da rinnovare ben oltre i riferimenti nostrani (e neanche questo virtuoso sguardo europeo o internazionale è fatto nuovo, ci mancherebbe)…
intendo dire che la tua ultima sortita, forse per amore e odio, incorre nei rischi di difese corporative e da consorteria e, insieme, è pieno di strani rimbrotti contro le tradizioni in assoluto. quando, a leggere i tuoi versi – che per inciso mi hanno fatto (sof)fermare e riflettere – sento ‘già’ una possibile tradizione (o costellazione) alle spalle, da rintracciare presso qualche poeta secondo-novecentesco nostrano (come sereni, dentro le tradizioni ma con la forza mobile di un’espressione che le oltrepassi, vivificandole); il filtro-celan, per lo ‘smottamento’ in direzione monocellulare del verso, e via via fino a certo de angelis (o ferrari, e biagini, per ultima).
non ho letto tutti i poeti (plurali) di oggi – come fare? – e mi son perso per distrazione anche l’ultimo inglese qui pubbicato: ma i tuoi versi, se posso, hanno una ‘maturità’, che spero in progress, che ad esempio raimo non ha mostrato, con la sua ultima patrizia almeno; hanno una forza, o un potenziale visionario, nello schema del ‘catalogo’ e degli oggetti (delle visioni), che lì non c’era.
attenzione, mi dico, all’equazione (liceale) che tracci fra tradizione=’norma’, o ‘normalizzazione’; e poi all’uso che certi critici possono fare dei tuoi versi, se se ne volesse sottolineare, e amplificare, solo il sostrato ‘irrelato’, ‘irrazionale’, vagamente ‘mistico’, di pura ‘auscultazione’ delle sue scansioni e nella sua possibile lettura/fruizione – a questo punto, come si dice qui sopra, è meglio il ‘gioco’ e il non prendere troppo sul serio la poesia e la celeste solitudine della lettura, sempre apocrifa e sempre più molesta…
ma se a te va bene così, pace.
Caro Francesco,
In parte ho già risposta al tuo intervento che mi era sfuggito, aggiungo solo qualche dettaglio. Non sono un insegnante di liceo con la matita rossa e blu. Non ho ricette, quello che penso l’ho maturato nel tempo, leggendo e confrontandomi con gli altri. Non voglio museificare o costringere nessuno o far nulla, rimani pure un barbaro, credo solo che il tuo mutilare parole e versi suoni un po’ gratuito. E se i poeti francesi di Raos, Raimo e Lello Voce fanno lo stesso, non mi sembra certo che sia una grande novità novità. E’ lo stesso in pittura, non basta qualche pennello, un po’ di colori, buttare qualche macchia qui, sputare là, graffiare e cagare sulla tela per fare un buon quadro o un’opera d’arte. Oggi non ha senso rifare l’orinatoio di di Marcel Duchamp, bisogna “andare oltre” e per fare questo servono insieme l’avanguardia e la tradizione.
A paola (e solo a lei). Molti sono gli “strumenti” (gli orrori e dolci e placidi ritorni, la struggente volontà e la tentazione di essa sappiamo che siamo andati oltre e anche da molto tempo. Ci siamo affilati gli artigli, su questo zerbino da primo vere) ma è sicuro (mi chiedo)che le atmosfere controllate, le prigioni d’aria, i vuoti senza gravità, con quella sicurezza da scatto di cassaforte, non della cassaforte che è ridicolo tra adulti, ma proprio dello scatto da cassaforte a infinite combinazioni, non ci trovi combinati in guai ben più infiniti, e quello che “doveva” è diventato? P.S. Perdona il travaso di damigiana o almeno è quello che sembra, e dimentica se puoi, “la leva” impossibile.
Piccoli flash…
per “andare oltre” ci vogliono stimoli che oggi mancano totalmente. E’ da più di quarant’anni che la cultura si reinventa con copia-incolla di schemi già incollati.
La poesia controllata? Assolutamente si, tutti vogliono controllarla e soprattutto imporla!
Elio Pecora? E’ uno di quelli…una poesia di una noia mortale. Va bene per i concorsi di poesia dove i bianchi gabbiani con tutta la loro retorica possono trionfare.
Caro Jek, nei versi tu vedi molte lettere comuni a molte parole, mentre tuttavia devi ammettere che versi e parole differiscono tra loro, che ognuno consta di lettere diverse; non perché soltanto poche lettere comuni vi ricorrano o perché mai due parole siano composte di lettere tutte uguali tra loro, ma perché non son tutte generalmente uguali a tutte. Così nelle altre cose parimenti, benché molti siano i primi principi comuni a molte cose, tuttavia esse possono sussistere costituite da complessi diversi tra loro; sì che giustamente si dice che di atomi differenti son composti il genere umano e le messi e gli alberi rigogliosi. Né tuttavia si deve credere che possano in ogni modo aggregarsi tutti gli atomi. Altrimenti vedresti dovunque prodursi portenti, sorgere semiferine forme d’uomini, e talora alti rami spuntare da un corpo vivente, e molte membra di animali terrestri connettersi a parti di animali marini, e per le terre, che ogni cosa generano, la natura pascere Chimere spiranti fiamma dall’orrida bocca. Ma è manifesto che nulla di ciò accade, giacché vediamo che tutte le cose, da semi determinati, da determinata genitrice procreate, possono conservare crescendo la loro specie. Certo ciò deve prodursi secondo una legge determinata.
Chiedo scusa a tutti, ma sto andando a “lavorare” e fino a stasera tardi non potrò rispondere alle sollecitazioni, tutte di forte impatto, che stanno emergendo.
@ Dr. Jekyl
Non te ne facevo assolutamente una “colpa”, anzi, se rileggi anche il commento precedente, ci trovi l’accettazione piena della tua ipotesi, proprio perché la ritengo “una” possibile, e io, nel mio piccolissimo (detto senza nessuna retorica o falsa modestia), in un rapporto ormai quasi trentennale con la scrittura poetica, non scarto assolutamente nulla, attraverso e mi lascio attraversare da tutte le “suggestioni” possibili, guardando con profondo rispetto tutto ciò che non mi appartiene, o non mi appartiene “più”. Senza usare perifrasi roboanti o formule teoriche che lasciano soltanto il tempo che trovano, io penso, oggi, qui e ora, che la poesia stia tutta, “tutta”, nel tratto di matita con cui tuo figlio (permettimi di citarlo perché è come se citassi i miei, che hanno più o meno la stessa età) disegna il mare; sta tutta in quei fili sottili, mobilissimi proprio perché rimangono per un tempo infinito sospesi nel vuoto o appesi all’aria, con cui fino a poco mesi fa faceva fiorire voci e volti dai deserti del foglio, creando universi leggibili solo alla sua pupilla vergine e senza sintassi. E quando, osservando un suo segno, ci ha detto “questa è acqua”, noi sapevamo che era proprio così: perché quella era (ed è) l’acqua delle origini, e l’alveo la terra della prima volta, l’atto della prima pronuncia.
@ fm
Grazie per il bell’intervento, ma sono veramente imbarazzato, non per quello che hai scritto, di cui condivido parecchio, ma solo e unicamente per il fatto che, fino all’anno scorso, quando intervenivo talvolta su queste pagine, mi sono sempre firmato con la sigla “fm”. Quindi, lasciami rassicurare i presenti che non sto rispondendo a me stesso: sarei da ricovero immediato alla neuro.
La dialettica tradizione/innovazione, con tutti i rischi e gli abbagli che le etichette comportano, resta il perno, non solo concettuale, intorno a cui ruota ogni discorso: la prima, pur rimuovendo spesso, e non sempre dialetticamente, direzioni alle quali non si è dato mai abbastanza peso, perché fuori quadro e fuori canone, non l’ho mai rinnegata (è tu stesso hai ben notato il lascito di alcuni possibili “attraversamenti”): anzi, credo che sia ancora tutta da esplorare, soprattutto in quegli angoli in ombra (Emilio Villa per tutti) dove riposano, esclusi dal novero delle antologie e della cultura/retorica ufficiale, voci incredibili, portatrici di sensi e di prospettive altre, lasciati a marcire proprio perché non inquadrabili, irriducibili alle logiche della museificazione e della scrittura/poesia da premio letterario o da supermercato (il che, oggi, molto spesso, è la stessa cosa).
Raimo, Voce, Raos e altri che ho eventualmente citato e che potrei citare, sono esemplificazioni di direzioni di senso e di ricerca che, nel loro insistere su registri e modalità frastagliate, a prescindere dai presupposti da cui muovono, danno un’idea dell’insopprimibile pluralità di voci, di sguardi, di accenti, che la poesia da sempre è. Io li leggo tutti con profondo rispetto, alcuni li “amo” proprio per la loro lontananza dal sentiero che percorro, ma tutti mi sono “indispensabili”, non potrei mai farne a meno, perché solo grazie alla loro scrittura la diversità e la singolarità della mia “voce”, cioè quella che fa la specificità di ogni poeta, può riconoscersi, capire qualcosa in più degli alfabeti che la abitano.
Si scrive utilizzando le parole affinché dicano, in definitiva, qualcosa di “noi”; io oggi scrivo utilizzando il mio corpo “malato” per permettere alle parole di dire qualcosa di sé, di liberarsi dalla “malattia” che l’universo reificato nel quale siamo immersi gli trasmette: qualcosa che le salvi, e mi salvi, dall’omologazione, dalla resa, dall’asservimento e da tutto ciò che, se pure non nasce come tale, diventa poi funzionale solo alle logiche del potere, del dominio, del mantenimento dello status quo. Io sono, e vado, da un’altra parte, battendo strade poco frequentate, dove mi perdo, e mi sono perso, e voglio perdermi, cosciente che solo in questo modo, da poeta, posso morire esattamente come sono nato: libero e senza padroni, fossero anche le strutture di un verso.
@ Marco Saya
Grazie.
mi permetto di esternare i miei complimenti più vivi all’artista francesco marotta, i cui versi ho trovato magnifici.
consiglio al dottor tashtego, persona peraltro colta e attentissima, 80 mg di krematon, 150 mg di suterol e 50mg di enzepatomina superforte al dia, il tutto dopo i pasti.
nel caso, aggiungerei 180 mg di haldol e 120 mg di alprazolam forte. è una cura, questa, che sto somministrando anche alla dott.ssa temperanza con pieno successo. la dottoressa tornerà presto a prestare la sua preziosa opera di commentatrice di questo blog rivitalizzata e rilassata dopo gli stress di sovraeccitazione da commento ossessivo-compulsivo.
quanta carne sul fuoco
col beneficio del tubbio
la poesia, come ogni altra forma di espressione artistica , è talmente definitiva da potersi dire distruzione(?)
ci si salva tentando di degenerarsi in essa (?)
@ a michele
dove avvisare?
(delirio uno)
la poesia sarebbe di tutti se non si pretendesse di tutti a priori e la si smettesse di censurarne l’autoreferenziale apporto di chi l’ha scritta.
@alla minuscola minoranza di quelli che non hanno finito il liceo
fin
ci siamo perduti, respinti
ai bordi di un beckgammon strausato,
in qualche lettera,
in calligrafie inclinate e gonne troppo corte.
ci siamo perduti nei dintorni delle ginocchia
scarabocchiando infermi cerchi nel caffè,
prostituiti alla tolleranza e senza finire il liceo
saluto
paola
Condivido i flash di Marco Saya.
dimenticavo:
“La poesia controllata? Assolutamente si, tutti vogliono controllarla e soprattutto imporla!”
In che senso? Dov’è l’osso del contendere? La poesia in realtà non conta nulla nella nostra società, non smuove nulla. Alcuni la scrivono, altri pensano di scriverla, pochissimi la leggono.
Non è un farmaco, non può essere usata come farmaco. Semmai è la ricetta. Per gli “avvisi”, da me apostrofati se ricordi “esorcismi” (senza sminuire nulla) hai provveduto. Comunque insognarobino@libero.it equivoci esclusi. P.S. Intorno al 38, Paul Valéry scrisse:” La storia della letteratura non dovrebbe essere la storia degli autori e degli accidenti della loro carriera o la carriera delle loro opere ma la Storia dello Spirito come produttore e consumatore di letteratura. Una simile storia potrebbe essere condotta a termine senza menzionare un solo scrittore.” (E’ quello che ho sempre pensato anch’io. I libri dovrebbero essere anonimi e senza diritti.)
dunque.
la poesia non smuove nulla.
non conta nulla nella società.
poesia come inutile eccedenza… un po’ come tutto il sesso non fatto a scopo bioriproduttivo ?
paola
Buonasera. Michele scrive: “I libri dovrebbero essere anonimi e senza diritti.).
Io, presidente della A.A.A. grido con tutto il mio sdegno: A CHIIIIIIIIIIIIIIII?????????
Caro Francesco,
tu dici: “gli autori francesi presentati da Raos”. E da Inglese, aggiungo io. Scusa la precisazione, ma sai com’è: tengo alla pelle. ;-)
E complimenti per le poesie, ovviamente, come già sai.
Non è che uno è sempre al 100% . Io mediamente al 20%, forse 15, intendo a scopo riproduttivo e non. Comunque le uniche conte che avevano senso le ho fatte a cinque sei anni. Paola, quale risposta vuoi? Mic, baci
caro Francesco le impronte, queste parole che lasci nell’acqua, sono la cifra del tuo allungamento e distanziamento concentrico delle parole poetiche. ogni volta che leggo i tuoi versi ciò che in un primo momento mi si conferma immagine solida, corpo solido, volume-metria del discorso, in un secondo momento, alla svolta di qualche riga più in basso (o cerchio acqueo più in là), mi si trasmuta… e cerchi insensati si intersecano a righe di sensi e il discorso in involuti enigmi (materie prime delle metafore).
c’è poesia statica e poesia di movimento. la tua è poesia del vortice. aspetto altri tuoi versi.
Ieri avevo accennato alle Klangfiguren, fenomeni particolari, anzi indotti coll’artificio, che fanno scorgere connessioni inaspettate e labili. Spira qui aria di cosmogonia, e più in su dei romantici, verso gli antichi. Cassata la Bibbia, dove la genesi è tutta dalla parte del fattore, a imporsi è il De rerum natura di Lucrezio, dove s’impone la fattura, degli elementi tra loro che compulsivamente passano dal kaos a un kosmos. Se è vero quanto dice Freud, che il mito di Edipo, dispiegato nel gran teatro greco, rivive in epoca moderna nel teatrino privato della psiche, così pure la gran genesi degli antichi rivive nel cosmo del singolo poeta. Questa di Marotta mi pare insomma una piccola cosmogonia portatile (non nel senso della parodia di Queneau), svolta su un registro di minimalismo cosmico. Il mondo si ricrea a piccole ondate con riflusso, quasi da disco incantato (nel senso anche della puntina che s’inceppa, eppur produce suono). C’è come un orientarsi della materia varia ed indistinta verso un ordine proprio, che però si dissolve. Così avviene anche del “tu”, che in queste poesie compare chissaperché e subito scompare chissadove. L’autore dev’essere piuttosto intimo di questo altalenare, perché dai versi non che tragedia compare un placido assecondare, senza tante paure e solo un po’ di speranza.
(dove il verso si spezza e salta giù, lì è dove la puntina salta)
Wie gesagt, ich untersetze, d.h. ich übersetze die Versen darunter:
Gli in-
sepolti, non contati, lassù,
i fanciulli,
sono pronti a lanciarsi –
A te,
Notturna di notturna fonte, io
non somigliavo:
a te, Gioiosa, che
ora così ti libri,
fa da sostegno l’invisibile, secondo,
stabile incendio.
A Paola, grazie della lettera, naturalmente si, certo. Rimango in attesa del nuovo vere. Michele
“Studia prima la scienza, e poi seguita la pratica, nata da essa scienza.
Quelli che s’innamoran di pratica senza scienza son come ‘l nocchier
ch’entra in navilio senza timone o bussola, che mai ha certezza dove si
vada”
LEONARDO
A nome degli eredi della dott temperanza, data per dispersa con strazio della famiglia, comunico che la succitata non ha è mai stata in cura dal dott. Gerardo Marotta che diffido formalmente dal diffondere notizie false e al solo scopo di allargare la sua clientela in un momento doloroso e difficile per i miei assistiti.
Dott. Avv. Elio Giusti
Sono stata appena licenziata dal dott. Giusti per l’errore di persona dovuto ai ritmi di lavoro disumani impostimi.
Non al poeta Marotta si riferiva il mio ex-principale, ma al dott. Carotenuto.
L’errore è mio. Ma chiedo a tutti, basta un errore dopo tanti anni di onorato e fedele servizio per essere licenziata sui due piedi?
Al poeta Marotta che ho avuto modo di conoscere grazie a questo equivoco tutti i miei rispetti, io sono forse una persona semplice, ma a me i suoi versi sono piaciuti.
Cordiali saluti
Adelina Arrivabene
Sono appena ritornato dal “lavoro”…
@ Gerardo Carotenuto
Grazie, esimio dottore, per le sue belle parole. Mi saluti la dott. Temperanza e cerchi di curarla al meglio, come del resto fa sempre con tutti i suoi pazienti: abbiamo bisogno di riaverla in gran forma.
@ Andrea Raos
Grazie Andrea, spero tu abbia apprezzato (uno de)gli “aggiustamenti”.
Scrivere senza avere possibilità di rileggere, mi ha impedito di citare Andrea Inglese: pensi potrà mai perdonarmi? ;)
@ Paola
“Ci siamo perduti in calligrafie –
inclinate”.
!!!
@ Davide Racca
:-)
@ Dr. Jekyl (1)
Ironizzare su una persona che prende tempo alla sua vita per leggere quello che scrivo, è un “crimine” che non commetterò mai. Ho solo risposto, riportando dei versi di Paul Celan, a una richiesta del Dott. Doch Gebrochen (!!!: un giorno scoprirò da dove cavolo tira fuori quei nomi) in merito a un possibile “utilizzo” ( a fini di traduzione) dei miei versi: ci vorrebbero quattro post di analisi stilistica, retorica ed ermeneutica per dare conto di quello che ha scritto in tre righe.
@ Dr. Jekyl (2)
La frase leonardesca contiene un consiglio che seguo da almeno una trentina d’anni. Comunque ti ringrazio per avermelo ricordato, non fa mai male ripeterselo.
@ db
Sono commosso: non tanto per quello che scrivi su questi testi, che pure mi gratifica, quanto per la tua profondità di sguardo e la capacità di sintetizzare un percorso di anni a partire dalla conoscenza di non più di cinque testi. Non ho parole!
@ Doch Gebrochen
Vedo che sta prendendo sempre più dimestichezza con la nostra lingua: la sua traduzione della seconda parte del testo di Celan che le avevo rilanciato mi piace davvero molto.
p.s.
untersetzer???
überübersetzer!!!
Klangwasserspuren?
@ Tutti
Grazie di cuore, davvero. Anche se, parafrasando Dario Fo, mi verrebbe da dire la verità: “Siete un pubblico prezzolato e di sinistra, pagati per ridere e applaudire. E domani lo scriveranno tutti i giornali”. :-)))
Obrigado.
@ Dr. Jekyl
“In che senso? Dov’è l’osso del contendere? La poesia in realtà non conta nulla nella nostra società, non smuove nulla. Alcuni la scrivono, altri pensano di scriverla, pochissimi la leggono. ”
Verissimo, sul controllo mi riferivo a un ben definito mercato editoriale. C’è solo da sperare che la poesia nel senso di “impegno” inizi , come altre forme culturali, a far sentire in modo organico e costruttivo la propria voce.
Ciao
Marco
@ Francesco.
grazie a te.
paola
Per Marco Saya
“c’è solo da sperare che la poesia nel senso di “impegno” inizi , come altre forme culturali, a far sentire in modo organico e costruttivo la propria voce.”
Magari! Ma temo sia un’eventualità difficile in un mondo di “grandi fratelli” e “isole dei famosi”, ci vorrebbe una rivoluzione, dovrebbero cadere molte teste, si dovrebbe ricominciare da capo.
Pensa che da anni non pago il canone Rai! Sta a noi far cadere le teste se ci riusciamo…
carissimo prof.marotta, grazie a lei! la sua umanità, la sua generosità, il suo essere uomo (i tedeschi dicono mensch, come lei ben sa, che vale per essere umano indipendentemente dal sesso) e artista, artista-uomo, direi, mi ha fatto stare meglio. le prescrivo di resistere, di rimanere la persona che è, a qualsiasi costo.
attendo che il baldo franz krauspenhaar – che ringrazio e al quale prescrivo 30 gocce di alprazolam forte al dia, trattandosi di grandissima persona ma a volte umorale- pubblichi presto qualcos’altro di suo.
con grande stima.
suo,
prof.dott.gerardo carotenuto – specialista in psichiatria.
Un ringraziamento particolare a Dr. Jekyl che con tutti i suoi commenti (tranne l’ultimo, troppo relativo) ha permesso anche ai miei pensieri di essere presenti in questa sezione del sito e che io non ho potuto scrivere per mancanza di tempo. Mi si permetta questa aggiunta, senza alcuna critica stavolta per il testo di Francesco Marotta (sto cercando di mettere i piedi piano piano sulle sue impronte): dunque, alla fine, tutta la poesia ha ragione d’essere. Ma allora le critiche se le prendono tutte i lettori. Il problema della licealità non vale soltanto per la poesia e/o letteratura italiana, ma anche per il resto delle materie. È un problema dato da programmi sbagliati e da mancanza di mezzi (tempo incluso) di conoscenza. Per uno studente che abbia appena ottenuto la maturità la Poesia è una sequela di nomi che termina con Montale; essa (la Poesia) ha determinate caratteristiche di metrica, musicalità, rime (e quello studente ha imparato persino che dove non trova rime, può darsi che vi trovi un’assonanza se legge con più attenzione!) e quant’altro. Punto. Ora, venutosi a trovare al di fuori del sistema scolastico, questo studente prova a muoversi in un mondo talmente sconosciuto da restare spaesato. Questo mondo è la poesia di oggi. Il poeta non è mai stato vicino alla concezione moderna dell’artista come avviene oggi. Le realtà molteplici di laboratorio della parola, giocoliere della parola, architetto del testo, pittore del verso designano tutte quante la figura del poeta. Ne sono sinonimi. E le domande sul testo (un testo qualsiasi) sono tante: il titolo è dipendente dalle parole? Le parole sono dipendenti dal titolo? Perché sono state usate proprio quelle parole? Servono ancora i critici? Basta scrivere in versi per essere poeta? E poi, per riprendere spunto da Impronte: dovrò afferrare il senso di quelle parole utilizzate o dovrò afferrare il senso della loro disposizione?
Mi perdoni sig. Marotta ma nel mio primo commento ho peccato di superficialità. Ecco, mi sono avvicinato alle sue poesie come mi avvicino tutt’ora ad una esposizione di arte contemporanea, io che amo tutta l’arte fino all”800. E ho avuto paura di non riuscire a cogliere l’arte sotto i Suoi scritti. Scrissi che secondo me quel testo in prosa avrebbe reso di più. Niente di più sciocco, e chiedo scusa per aver preso sottogamba anni del Suo percorso. C’è un abisso tra lo studio di Montale e il muoversi attraverso i tanti poeti che si scoprono giorno dopo giorno oggi, un abisso fatto di percorsi personali, sperimentalismi, laboratori di parole, arte spacciata o vita d’artista elitaria, e tutto questo allontana ancora di più la poesia da tanti singoli (non uso volutamente il termine “massa”) che escono freschi freschi dal liceo.
Esaudito
dalle faville deviate
dell’odoroso fuoco attorno
al pungolo del candelabro.
Tutte
le vie sono libere.
Diverse terre
ti passo nell’accecamento –
le due
bianche trattieni, una
per mano.
Gli in-
sepolti, non contati, lassù,
i fanciulli,
sono pronti a lanciarsi –
A te,
Notturna di notturna fonte, io
non somigliavo:
a te, Gioiosa, che
ora così ti libri,
fa da sostegno l’invisibile, secondo,
stabile incendio.
Sono contento di aver stimolato Vittorio Eremi.
Scolpito in fervidi rami
non era ghiaccio a
dislocare le mie suture
mano nascosta in rovi
-attendo lo zero assoluto-
epidermidi sottratte ai cuori
vento e ozono
in parodia di respiro.
Quale destino tu sei?
La necessaria sete è
placata negli occhi
si perde
resterà incompiuto
quel che resta?
E’ ora, lentamente.
Successiva al giorno
è la sua definizione
di scomparsa
nell’ora staminale
della storia.
John Dorn (University of WA, Seattle-USA)
Non mi fa impazzire, ma un amico americano mi ha chiesto di spedirla.
@ Vittorio Eremi
Leggo solo ora, purtroppo, il tuo intervento (tendo, molto naturalmente, a escludere il lei/voi: spero non ti dispiaccia, è un modo per azzerare distanze che, per quanto mi riguarda, non hanno ragion d’essere): ti ringrazio, ma ti assicuro che a me il tuo primo commento non era affatto dispiaciuto; se non altro, mi dava la misura esatta di una percezione “a pelle” di quei testi, di una ricezione da parte del lettore che poteva benissimo fermarsi a quel tipo di impatto. E non ci sarebbe stato niente da obiettare. Ma io continuo a credere che il “lettore” di poesia non sia un lettore qualsiasi; che andare in libreria e comprare l’opera di un poeta non sia la stessa cosa che chiedere l’ultimo best seller; che soffermarsi, in un blog, su dei testi poetici, risponda a un bisogno “diverso”, a volte radicalmente diverso, rispetto a quello che spinge alla lettura di un saggio. Guardo a me stesso: quando leggo un post di architettura, ad esempio, io mi avvicino con la disposizione di chi vuole apprendere, cosa che, nel mio caso, significa colmare parecchie lacune, acquisire un linguaqggio specifico, farsi un’idea della storicità dei percorsi che mi vengono proposti, prima di potermi esprimere, sia pure in modo approssimativo, sulle tecniche e sul “linguaggio” della disciplina; cosa che non mi succede, invece, quando approccio un testo poetico (e parlo da lettore onnivoro, non da poeta, in questo caso): lì il mio atteggiamento, non solo mentale, è quello dell’ “ascolto”, che non è una posizione passiva, tutt’altro, è il rischio (e la relativa accettazione) della “metamorfosi”, è lasciarsi attraversare dalla voce dell’altro nella piena consapevolezza che essa parla “per-me”, e grazie a me, e dice nient’altro che la sua libertà di essere-in-quanto-tale. Perché ho tenuto a distinguere il “me” lettore dal “me” poeta? Semplice, perché il me poeta, di fronte a un testo altro, non è mai “nudo”, è sempre rivestito della sua formazione, delle sue consuetudini di scrittura, della “sua” consapevolezza del “proprio” percorso individuale: tutte categorie all’interno delle quali, fosse anche in modo inconscio, tende a iscrivere l’alterità con la quale si confronta e, in silenzio, dialoga. Mi immagino (e mi auguro), ma è solo un mio sentire, che l’unica critica possibile nei prossimi anni sia il resoconto che deriva non dall’analisi/inquadramento operata dal “sé” poeta, ma dalle operazioni che il “sé” lettore si trova a gestire nel momento in cui dialoga con la “diversità” testuale, utilizzando la lingua dell’ascolto e non quella, concettualmente già definita in categorie, stilemi, canoni, scelte retoriche e lessicali e quant’altro, che si trova ad abitare, magari, proprio in quanto poeta o studioso egli stesso.
…
Qualche precisazione (non richiesta, forse). “Liceali”, “licealità”, “licealizzando” non erano termini ironici, o offensivi, nei confronti dei ragazzi: facendo l’insegnate da quasi trent’anni, continuo a ritenere, esattamente come il primo giorno, che gli studenti sono la parte migliore di tutto l’apparato, a volte l’unica; solo che il loro “bisogno culturale” rimane inespresso, nella stragrande maggioranza dei casi, non si tramuta in prassi, in voluntas sciendi concreta, perché trova un ostacolo in pratiche, didattiche ed etiche, affatto castranti, inibitorie, che li portano a odiare, nel nostro caso specifico, la poesia, ridotta a un cumulo di formule, alla ripetizione di astratte formulazioni di poetica, mai provate al fuoco della lettura dei testi. So che sto generalizzando, e tacendo di percorsi didattico-formativi improntati a tutt’altre logiche (ma sono la minoranza, purtroppo), ma non sono infrequenti, anzi, i casi di chi inizia un corso, mettiamo, su Leopardi, non introducendo alla “lettura” degli strumenti della sua officina (cfr. Zibaldone), ma parlando della sua infelicità legata all’incipiente e precoce cecità o alla famigerata “gobba”: come se l’ultimo mezzo secolo di analisi e studi su una delle più importanti esperienze poetiche della modernità fosse scivolato come acqua sulla pelle dei pinguini. Intendevo, quindi, con quei termini, in quel contesto, l’atteggiamento di chi, tirando fuori una reminiscenza di cose soltanto orecchiate, si sente di pontificare su tutto, senza dubbi e senza incertezze. Solo questo.
p.s.
Sul rischio di discorsi autoreferenziali o sulla possibilità di finire invischiati in pratiche di etichette o cenacoli comunque “convenzionati” (un problema che qualcuno, adesso non ricordo chi, paventava nei giorni scorsi), chiedo, con beneficio di prova, di essere creduto sulla parola: è l’unico che non correrò mai.
Grazie ancora.
Dici bene Francesco (non mi dispiace affatto il tu e spero di poterlo usare anch’io). Ci sono testi di poesia a cui ci deve avvicinare nello stesso modo in cui tu ti avvicini ad un post di architettura, ed è inevitabile sacrificare/inflazionare parte di quell’essere-in-quanto-tale. Il problema, come ho scritto in un altro commento ad Andrea Inglese, è che la letteratura “scolastica” (penso che nessuno o quasi abbia usato qui il termine licealità in tono ironico) si fermerà sempre a Montale. Occorre quindi un liceo che duri sei anni? No. Occorrono testi Francesco, come lo è stato il tuo per me, che vengano smangiucchiati, rosicchiati un po’ qua e là per sentire la parte più morbida, messi un attimo in disparte, riavvicinati con curiosità o perfino con disprezzo (nel senso buono), consumati con gli occhi prima che col cuore. E tutto questo affinché gli “inquadrati” usciti dalle scuole sappiano vivere da soli nel nuovo mondo poetico che è quello contemporaneo, sappiano compiere la metamorfosi di cui parli, che non può essere immediata per ovvi motivi. I tuoi testi, assieme ad altri, avranno il pregio di godere di una seconda vita, più avanti.
Caro Marotta, le avevo confezionato un vestitino su misura (ma/doch rotta gebrochen), ma devo metterci ancora uno spillino. Legga dunque
Esaudito
dalle faville sparse
vede, umbetten significa letteralmente “cambiare di letto” transitivo. Da ciò due significati contigui: traslare, e cioè cambiare di tomba una salma, e deviare, e cioè cambiare di corso un fiume. Altro non c’è. C gioca perché la lingua in questo caso glielo permette. Ho controllato il Bevilacqua che traduce traslate: lei come lettore aveva capito che si trattava di faville-salme, o ha capito che erano faville traslate/metaforiche? Ché nel secondo caso andremmo male. Sparse mi dà l’idea di cenere almeno.
Diffidi dal volume dei Meridiani. Non ce l’ho sottomano, ma ricordo che “nell’accecamento” lo traduce con “accecando”, e siccome il soggetto è l’io poetico, parrebbe che sia lui ad accecare il Du – andiamo bene. Poi ricordi che i bambini (non contati, come succedeva nei Lager dove nemmeno li si contava, e non innumeri) da lassù saltano giù come dei paracadutisti e come il puer della Bucolica visionaria (e la dea Iustitia, e Astrea ecc.).
Sono preoccupato comunque per il suo avvenire: comincia la stagione fredda e questa spolverina non basterà più (io sono affezionato alla mia dolce gabbana, non mi sogno nemmeno di voltarla). Così resterà più in casa, e aumenterà la voglia di chattare. Guardi che certi ambienti sono esiziali per i poeti, perché spingono a lasciar andare la parola, quand’essa invece va tenuta, limata, costruita. Nessuno ha voglia più ad es. di costruire un commento – immaginiamoci una poesia!
La saluto, vado a terminare un abitino per Celan, cui tengo molto – nel senso che tengo molto a finirlo. Perché? Perché nessun lavoro dovrebbe essere piantato lì, specie se il cliente è di riguardo, ed anzi morto.
PS Shibbolet di Derrida è nella sua biblioteca? So che ce n’è una traduzione presso una piccola casa editrice di Bologna (l’hanno tradotto onomatopeicamente con Shorbolet).
non ho la capacità di una valida riflessione critica- forse perchè credo che questi versi consentano soprattutto un sentire per intuizione, un’adesione di pelle… versi come
“io raccolgo la
sabbia dai vetri, la polvere
rossa che rinasce nel palmo
a ogni colpo di spugna, un varco
carnale che tracima alfabeti
parole per dire riconoscimi
sono tua madre, sono
l’acqua che
grandina sete nel
l’arsura dei giorni, la risposta
che scivola via dal
le labbra in forma di rogo” –
danno la testimonianza di una radicalità oggi rara nella scrittura, una radicalità archetipica – insomma, complimenti…
Mio dolce (posso osare tanto?) Dolce Gabbana, io non avevo proposto nessuna traduzione di Celan; solo che, leggendo e rileggendo la richiesta del dott. Doch Gebrochen (!), che io considero un überübersetzer, di quelli coi fiocchi, e non un timido untersetzer, mi era venuto spontaneo postare quei versi, al solo scopo di dare il mio assenso (erano i primi che mi erano riaffiorati alla mente) alla sua opera in fieri. Infatti, riducevo il tutto a un semplice invito: Erhört. Alle Bahnen sind frei.
Per il resto, risponderò con più calma, visto che sto uscendo in questo momento e lei merita una risposta come si deve. Non mi ha detto, però, se “Klangwasserspuren” la soddisfacesse. La ringrazio, comunque, la sua lettura mi onora.
@ Enrico De Lea
Grazie di cuore.
ho commesso un’imprudenza dicendo che C con umbetten giocava: diciamo che è un gioco serissimo = pura poesia. chiamando infatti umgebettet le faville (ma come le chiama il Pascoli in una poesia famosa?), le paragona non a salme, ma a bambini. il significato primario infatti è spostare di letto qualcuno, ossia normalmente un bambino. se andiamo alla terza strofa, noi ritroviamo i bambini, che fanno lo stesso identico movimento delle faville: dall’alto infatti si buttano giù – via libera! perciò C parla nell’ultimo verso di secondo incendio. il primo essendo lo sfavillare tenero del candelabro, il secondo quello orrendo dell’olocausto.
tra il primo e il secondo incendio, sta la bilancia della dea giustizia che li soppesa sui due piatti (bianco è il colore estremo del fuoco). il poeta le aveva portato diversi materiali, ma lei sceglie i due incandescenti: il massimo di bellezza e il massimo di orrore. e ne trionfa.
@ Dolce Gabbana
Andiamo con ordine.
Non so perché lei mi “addebiti” una predilezione per il meridiano di C. tradotto da B.: ha i suoi indubbi pregi, ma anche, per quanto riguarda talune raccolte, una ragguardevole quantità di “derive” sulle quali non sono affatto d’accordo. Ma può contare qualcosa? Interessare qualcuno? Io posseggo quasi tutte le opere di C. in originale (perché mi piace leggere la poesia straniera nella lingua in cui è scritta, quando la conosco, o riesco anche appena a seguirla); essendomi speso per lunghi anni su quei testi (quasi sempre unicamente per me stesso), il lavoro di B. (su C.), che pure apprezzo nel complesso, ha rappresentato a lungo l’unico raffronto possibile per le mie esercitazioni “domestiche”. La traduzione doch/gebrochen-esca del testo tratto da “Atemwende”, ad esempio, la ritengo di gran lunga superiore, così come altre che lei ha avuto la bontà di regalare, insieme ad alcuni amici, a tutti i lettori del bellissimo post su C. avviato da Helena Janeczek. Non ho potuto seguire, come avrei desiderato, solo perché questo è un periodo che “butta” veramente male, per svariati motivi personali.
La ringrazio, poi, per le preoccupazioni che riguardano il mio “avvenire” e ne terrò sicuramente conto. Ma mi preme rassicurarla su una cosa: ho sempre cercato di rimanere me stesso in ogni ambiente frequentato, anche quando la cosa sembrava impossibile, e per un motivo essenzialmente, molto semplice, se vuole: perché al “silenzio” in cui la parola poetica va “tenuta, limata, costruita”, io ci sono abituato, da sempre (mi concedo l’avverbio solo perché, mi creda, mi appartiene davvero), e ci ritorno ogni volta come alla “mia” dimora naturale (esattamente come farò nel momento esatto in cui questa “avventura” sarà conclusa): chi ha ascoltato fin da bambino l’eco di “certi” canti, e la musica di certi strumenti (una “fisarmonica”, forse); chi ha imparato da subito che la “matematica” non è solo materia da libri, ma che è possibile studiarla anche “leggendo” le cicatrici degli arti superiori di coloro che ti hanno generato, sa bene qual è il suo posto: per il semplice motivo che non ve ne sono altri, per lui: “gli in-/sepolti, non contati, lassù” sono sempre pronti a ricordarglielo, qualora se ne dimenticasse.
Termini pure il suo “abitino” per Celan, le assicuro che sono in tanti ad aspettare che il lavoro di sartoria sia completato, per osservare il modello realizzato in tutta la sua pienezza, pieghe e risvolti compresi.
Non posseggo lo “Shibbolet” di Derrida, ma ricordo di aver letto da qualche parte che crea una sorta di vuoto pneumatico a tratti insostenibile intorno a quella “spiga” sanguinante: e la cosa non mi è affatto piaciuta, anche se non ho potuto verificare direttamente. Non so lei come abbia fatto, né per quale indicibile casualità abbia citato quel testo: infatti sono versi che porterò stampati per sempre in me, fino alla fine dei (miei) giorni.
Un caro saluto.
p.s.
Chiedo scusa, ad eventuali lettori, per l’estrema “oscurità” di questo commento e chiedo venga considerato come un OT. Si dice così, non è vero?
@ DG
Ho scritto senza aver letto i due ultimi commenti. Aggiungo solo che mi “confortano”.
Un saluto riconoscente a tutti.
stendo la mia dolce gabbana su di lei, ma rotte, perché un po’ di tepore ci accomuni in questa ahimè notturna traversata (ma tenga giù le mani, non faccia l’Alcibiade…)