Anteprima Sud 7 /Pasquale Panella e Lucio Saviani
foto di Silvano Forte
Il testo di Lucio Saviani precede le prime pagine dell’opera di Pasquale Panella. Il dialogo sarà pubblicato sul prossimo numero di Sud (ottobre)interamente dedicato al tema della musica e dei resti. Cosa resta della canzone italiana dopo Pasquale Panella?
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Dialogo presentato in occasione del Festival della Filosofia, Instability, a cura dell’Associazione culturale Multiversum e dalla rivista Micromega, svoltosi a Roma all’Auditorium Parco della Musica dall’11 al 14 maggio 2006
Resti e Musica
di
Lucio Saviani
Il dialogo di oggi seguirà delle modalità, dei tempi, diversi da quelli che l’hanno preceduto. Questo, probabilmente per la natura stessa del tema che ha per oggetto. Ed è una natura doppia. E’ un dialogo doppio. Doppio è anche l’ospite, doppia l’altra voce di questo dialogo.
Il dialogo è con Pasquale Panella, che fa parlare Riccardo III.
Come dice Panella, è un Riccardo III da Shakespeare e da se stesso; in uno strano dialogo, oggi, come può accadere in certi lavori di Beckett.
Pasquale Panella: una delle voci più eversive della poesia italiana contemporanea. Panella fa brillare le parole, ma come fa un artificiere; le parole le fa brillare nella loro miniera.
Alcuni anni fa, a proposito dei suoi testi per canzoni, si scrisse che ormai era chiaro: era in atto un lucido disegno eversivo nei confronti della forma canzone. Fatto sta che poco dopo uscì un album dal titolo irriguardoso, per la canzone, “Hegel”. Scritto per uno dei più geniali compositori e interpreti della recente storia musicale italiana.
Nei giorni scorsi, io e Pasquale Panella, parlando del dialogo di oggi, parlavamo di un atto doppio.
Proprio perché qui si parlerà di versi , e in versi, lo pensavamo come una doppia con-versazione. In cui si cerca di non rispondere per le rime, o di non fare il verso, come accade in tanti dibattiti.
Insomma: qui si parla del rapporto, del dialogo tra filosofia e poesia, e in particolare del rapporto tra le parole, i nomi, e le cose. E qui, come vedremo, c’è un Riccardo III ossessionato dalla potenza dei nomi e delle parole. Ma questa è un’antica ossessione, che sta proprio sulla soglia tra filosofia e poesia.
E’ una soglia instabile, accidentata. Ripassando certi versi di Panella: è come “bussare su una porta che non c’è per niente, la spingi che era aperta”.
E’ una soglia che invita. Invita a “fare testo”, a rendere testimonianza, a dare una versione dei fatti. Ma una versione avventurosa, se i fatti da riportare sono parole, sono versi. Sono fatti di parole.
Come dice Beckett: “Quello che accade, sono delle parole”. La nominazione: la vocazione della poesia all’eversione; il carattere eversivo della parola poetica: quando si dice “averci il verso”, “essere versato”.
Una soglia instabile, insomma. Instabile, accidentato, è Riccardo III. Lui l’instabilità la nomina: “Io sono l’instabile”. Lui oscilla come il suo braccio, come un pendolo, ancheggia, è come quelle figurine che girano di una punta di spillo. Ma qui, il suo punto fermo è l’attrazione della fine, la stabilità della fine.
La “guerra in sé”, di cui parlano Panella e Riccardo III, è questa: non una guerra-noumeno, ma proprio in sé, dentro di sè, stabile. E intanto Riccardo III sembra ricordarsi di Benjamin e della percezione distratta, e invece ricorda distrattamente, indifferentemente, una canzone napoletana: pensami distrattamente. E intanto fa tante cose, cioè fa tanti nomi. Per noi e per Riccardo III il tragico nasce dal fatto che ci sia una nominazione (le storie di Edipo, di Prometeo…)
Ed eccoci al punto, finalmente.
In filosofia, il rapporto tra la parola e la cosa viene da lontano: Protagora il sofista, gli universali, il flatus vocis, Roscellino, Tommaso, S.Anselmo, ante rem, post rem, in re ipsa; le res, le cose del panta rei, dello scorrere come scorre un reuma, il dolore sopportabile del corso delle cose da chiudere in un dis-corso.
“Nessuna cosa è dove la parola manca”, così dice il poeta Stefan George. Ascoltando la sua parola, Martin Heidegger scrive: “parola e lingua non sono come dei cartocci che servono unicamente ad avvolgere le cose per il commercio del parlare e dello scrivere. E’ solo nelle parole e nella lingua che le cose divengono e sono”.
La poesia è “oltraggio”, come diceva Dante. Va oltre, oltrepassa i significati istituzionali delle parole.
L’instabilità e il terreno della poesia, la sua terra sotto i piedi. La poesia si accanisce sulla parola, mai contenta, mai soddisfatta. Il suo terreno è un campo flegreo, ribollente, mobile, friabile. Se ne avvertono eruzioni, smottamenti, scosse, faglie, infiltrazioni, emergenze, falde, voragini improvvise…
La poesia comincia ad essere prima, quando ancora le cose non ci sono. A volte diciamo che per alcune cose ci mancano le parole. Il carattere eversivo della poesia ci costringe a dire che spesso per le nostre parole mancano ancora le cose. E allora, come si dice?, “non c’è verso”. Non c’è nulla da fare. Allora bisogna tacere, dice la filosofia. E allora: la parola a Pasquale Panella e a Riccardo III.
Riccardo in sé
Riccardo Terzo
da Shakespeare e da se stesso
di
Pasquale Panella
TRAGICO AMOROSO
Non ci si ama che in scena, quando il pubblico crede
di vedere qualcosa: un inizio, una fine, una storia. Ma non
succede niente, chiacchiere, eventi inventati. In realtà, tra
equivoci, fraintendimenti, confessioni, civetterie e lamenti,
noi facciamo davvero l’amore. Oppure siamo soli, come
Riccardo terzo, scena prima, atto primo, Londra, una strada,
entra Richard, duca di Gloucester, solo: Adesso sì che
l’inverno del mio dispiacere… Cosa devo dire? Ah sì! Adesso
sì che la malinconia, noia, non so, scontentezza, malumore,
irritazione, disgusto, anzi inquietudine, turbolenza, instabilità
eccetera eccetera… Adesso sì che il gelo della nostra nullità
s’è sciolto al caldo del nostro sole. Adesso sì che l’inverno…
quale inverno?… Adesso sì che la nostra fronte… ma quale
inverno diventa estate, una bella estate?… quale inverno?…
quali nuvole dalla mia fronte sono adesso sprofondate
nell’oceàno? Adesso che i nostri armamentari sono appesi in
immobili composizioni, le nostre attrezzature, i nostri strumenti
critici tutti ammaccati… e i nostri rigorosi allarmismi si
liquefano in risibili meetings, focus, newsgroup, newsletter,
blog… e la nostra combattività si leviga, si spiana, pareggia,
si appiattisce e scivola in una cloaca con sottofondo di scoli
cordialmente musicali… Ma io non mi diverto, non sono fatto
per questo… Perché?… come son fatto?… Posso chiederlo a
uno specchio? No, non posso, non voglio… non sarebbe
tenero con me uno specchio, né io stesso. Io vengo fuori da
un progetto grezzo, scomposto, storto, storpio, vacillante… di
che sto parlando? Della copula che agitando, mescolando,
torcendo e contorcendo, mi formò a sua immagine… se io
sono così è perché voi sognate, ossia vi rigirate nel sonno…
io no, io mi rigiro da sveglio… la stortura che vedete in me è
stortura di un corpo, sotto, sopra, accanto a un altro corpo
che al mio si attorciglia, e io a quello… e io a lei… Così
sembro sciancato… Nessuno è più instabile di me, che
dondolo per una zoppia che sarà un giorno considerata
romantica quindi ancor di più ancheggiante… e nella mia
schiena pare che l’onda di una gobba non stia mai ferma e
si muova come un’onda del mare… ovviamente: del mare…
E, sotto la bella schiena di lei, alle volte, un mio braccio, una
mia mano muore, diventa insensibile come fango secco con
dentro un formicaio, che corre nei nervi e nelle vene… quel
mio braccio che poi oscilla come un pendolo, o un ruscello
afflitto da una moria dei pesciolini della sensibilità…
d’argento, ovviamente… ma io sento l’assedio delle mie
costole ai miei polmoni, dei miei muscoli al sangue, della sua
bellezza ai miei pensieri… Non posso essere simmetrico, ossia
fare qualcosa per ottenere, stupidamente, qualcosa. E se
devo essere tragico, voglio esserlo così: dicendoti subito
‘Anna, fai di me’… E tu vorrai… vorrai fare di me… e disfare,
piegandomi il braccio perché ti fa piacere, chiedendomi “e
tu?…”. Anch’io, sì… anch’io t’abbraccio, anch’io ti
deformo… Allora sì che l’inverno, o quel che sia, diventerà
estate o le tue cosce… quell’annaspare… la nostra
scompostezza, quasi che noi zoppichiamo distesi, oppure
no, poi sì, secondo slogamenti d’anche e di giunture
travagliate meravigliosamente… sarà quella l’estate?… sì
sarà… ma non ci importerà che sia l’estate. Adesso passo il
tempo guardando la mia ombra fatta dal sole,
modificandola secondo varianti e mutazioni… come se
anche lei eccetera eccetera… Farò l’innamorato, ossia per
ammazzare anch’io, per ammazzare il tempo… e allora farò
per intanto il cattivo, odiando i ridicoli divertimenti del mio
tempo. Ma a lei io voglio dire a te: angelo mio, mio angelo
rabbioso, tu sei un angelo. Hai una lingua bellissima, tanto
bella come tutta intera tu sei, ma tanto tu lo sei, bella, che
nemmeno la tua lingua saprebbe dire quanto… così come
tu non riuscirai mai a leccarti tutta… Io invece, fuori di te, son
tragico, finché non entro in te, nell’amoroso. La tua bellezza
fu la causa di quell’effetto atroce, la tua bellezza mi
tormentava e mi sgualciva la veglia anche quando doveva
essere sonno. E io vorrei sgualcire me… con te, non con un
sogno… politico. Avrei fatto morire il mondo perché restasse,
vivo e mio, solo il tuo corpo. La tua bellezza che per me è il
sole (ovviamente: il sole), che mi fa fare le ombre, sapessi,
con te, eccetera, le forme… in variazioni… i tuoi occhi,
sweet lady… insomma: gli occhi eccetera eccetera… gli
occhi… gli infiniti due occhi tuoi… Ma cosa sarà mai, alla
fine, questa tragedia? Sono stato io a far fuori Enrico Sesto?
No, non sono stato io… Sì, sono stato io, come dire?,
didascalicamente, non so… E se dicessi che non sono stato
io? Va bene, va bene, va bene, si può anche dire che sono
stato io. Va bene… E che sarà!… Ma, insomma, lasciamo
perdere questi intellettualismi, queste finezze del pensiero,
questa filosofia… mi fa male la testa a furia di essere così
cerebrale. Le premature morti di questi Plantageneti, degli
Enrichi, degli Edoardi, questa prassi tragica, insomma è l’uso,
è la procedura corrente, cosa devo dire? Che mi fa
piacere? Anche le bestie, anche le più feroci, provano
pietà. Allora la faremo provare a un animale la
compassione, perché io non provo nulla. A volte si ha
soltanto bisogno di un cane che soffra da cane… ma
perché? I cani come soffrono?… Allora liberatevi di questo
peso, mettetelo giù… set down, set down, set it down…
mettetelo giù questo teatro, che è un morto… mettete giù la
salma del re… un applauso alla bara… Non è meraviglioso
che io sia un assatanato che dice la verità? Così come tu sei
un angelo, un angelo rabbioso, divina perfezione di una
donna? Non è meraviglioso? Ma sì, sì, ma sì, non ho mai
pianto per un regicidio, però butto fuori tutte le mie lacrime
che sa strapparmi questa tua bellezza, tutte le mie lacrime a
parole, che è più che piangere. Io non metto davanti al mio
pianto il limite degli occhi… Le mie lacrime, se tu sbattessi
come ciglia, mi uscirebbero da te… Adesso sì che posso
dirlo: uccidimi. Come quando, abbracciandoci, ci diremo:
uccidimi, mi stai uccidendo, amore. Più forte uccidimi…
Uccidimi e non fermarti… Uccidermi da vivo vuol dire
continuare a uccidermi… vuol dire: non fermarti…. Sono
stato io, distrattamente, a far cadere qualche soprammobile
regale per raggiungerti? Può essere. Ho fatto traballare un
mobile pomposo, solenne, con la corona in cima? Cos’è?
S’è sfasciato un re, un centrotavola da cerimonia? Allora
uccidimi, continua, come quando ci diciamo eccetera
eccetera… uccidimi e continua, non ti fermare… A
provocare il mio inferno fu il tuo paradiso, questa bella
faccia… Se non lo farai tu, lo farò io… è così che si dice… ma
devi dirmelo tu, adesso, dolcemente. Dimmi quello che vuoi.
Vorrai che tutti gli uomini ossia io… che io viva così… così
come un mio teorico anello stringerà il tuo dito: così tu, sei
già tu il mio anello… e io non sono che un dito… adunco…
No, non piangere, non piangere tu… che pianga chi si
commuove… Regalami un addio, che è più di quanto
merito… regalami un addio ma non a lungo… ritorna presto,
subito… Adesso sì, adesso sì, l’estate… le nostre belle mosse
disossate, le belle lussazioni dell’amore. Uno specchio, uno
specchio, uno specchio! Che io possa vedere la mia ombra
così… come io passo così. Così tragico nell’amoroso…
Storpiato dalle mosse di un amplesso…
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w panella!