In margine al film Time di Kim Ki Duk
di Marco Rovelli
Time non è uno dei film migliori di Kim-Ki Duk. Non ho visto Ferro Tre, ma mi si dice che aveva un impatto visivo ed emozionale assai più forte.
Time non scuote particolarmente, è vero. Lascia più freddi. Ma fa pensare. Il suo impianto narrativo pone questioni, apre sentieri di pensiero. Magari al di là di se stesso, ma fa pensare. E questo è un merito innegabile.
Time non è un film d’amore. Non è nemmeno un film sull’amore, se non secondariamente. E’ invece un film sulla natura umana, e questo sin dal titolo, che ne è la chiave. A quale tempo si riferisce Kim-Ki Duk? Al tempo dell’uomo; all’uomo in quanto tempo. A quello scarto che lo costituisce, a quella incoincidenza con se stesso che l’essere umano è.
Il linguista Gustave Guillaume, richiamato da Giorgio Agamben ne Il tempo che resta, lo chiama “tempo operativo”: ovvero il tempo che la mente impiega per realizzare una immagine-tempo. Il tempo che la mente ci mette per esprimer-si, tempo che fonda il pensiero stesso e che non può essere a sua volta rappresentato nella rappresentazione che lo implica.
L’immagine dell’uomo come scarto, come incoincidenza con se stesso (come impossibilità, dunque), è presente, articolata con un altro alfabeto, anche nell’hegeliano Lacan: è uno scarto a costituire l’uomo in quanto soggetto, perché il soggetto è anzitutto soggetto allo sguardo. Ciò che fondamentalmente mi determina nel visibile è lo sguardo che sta all’esterno, scrive Lacan: l’uomo è un soggetto che è gia da sempre fuori di sé.
Nel film il tema si pone subito. Perdonami di avere la stessa faccia noiosa, See-hee implora il suo fidanzato Ji-woo. E poi gli chiede: Sei stanco del solito corpo? See-hee, insomma, è a chiedere conferma all’oggetto del suo desiderio del suo proprio essere soggetto.
See-hee sa la verità, in fondo. Ha l’intuizione del fatto che il soggetto è sempre fondato fuori di sé. Ma non la vuole guardare in faccia, quella verità: non vuole guardare nel fondo senza fondo della verità, nel fondo senza fondo del suo proprio volto, del suo proprio sguardo. See-hee si rimanda all’altro. Chiede all’altro uno sguardo che sia sempre lo stesso. Chiede che lo sguardo dell’altro sia il proprio stesso sguardo. Chiede che l’altro colmi quello scarto che la fonda. Chiede all’altro l’impossibile.
See-hee e Ji-woo sono a letto. Fanno l’amore, dopo che See-hee gli ha chiesto di immaginarsi una donna di cui lei è gelosa. Poi lei si copre la faccia con la coperta, non vuole essere guardata: Fatti vedere, le dice lui, Guardami in faccia e smettila di essere paranoica.
Ma lei non può smettere di essere paranoica, perché sa la verità: e la verità è che si è sempre guardati dall’altro, che è lo sguardo dell’altro a dare un nome, un senso, una stabilità. E’ lo sguardo dell’altro che produce il soggetto.
La paranoia di See-hee, allora, non è che l’eccesso di verità, da cui lei non riesce a distogliere lo sguardo. Non riesce a distogliere lo sguardo dallo sguardo che la fonda, ma nel fissare quello sguardo è presa in un gorgo senza fondo. See-hee sa la verità, ma c’è una cosa che non sa, una sola, ed è la cosa necessaria alla salvezza: non sa che la verità ha bisogno di una misura, e che dev’ essere il proprio sguardo a dare la misura alla verità, pur senza ragione. Lei non conosce misura, il suo sguardo è totalmente altrove, è profondato nell’eccesso. E per questo non si salverà, perché non prende le misure all’insalvabile.
Il passo successivo, nella discesa in questo abisso di specchi, è il ricombinamento del volto: See-hee si ri-vede come pensa che l’altro voglia vederla. Cambia volto per compiacere lo sguardo dell’altro. Decide di andare in una clinica estetica e rimodellare il volto, essere-altra. Intuisce che la verità di sé è sempre altrove, e ha l’illusione di afferrarla. (Ha l’illusione di salvarsi; per dirla con Agamben, di essere Messia di se stessa, colmando il resto). Così lo specchio che il dottore le mette sul viso quando è già sulla tavola operatoria, “l’ultima occasione per ripensarci”, non serve, non può servire: certo, sarebbe stata lì la salvezza, nel guardar-si in faccia, nel prendere coscienza del proprio senza fondo, della essenziale duplicità del proprio volto, del fatto che l’essere umano è tutto lì, in quello scarto: ma il problema – la tragedia – era (proprio) che lei non voleva farlo, perché non poteva distogliere lo sguardo dall’altro, dal Signore/Uno che immunizza dalla propria insussistenza.
(E’ oggi, lascia intuire Kim-Ki Duk, in questa società dello spettacolo – della merce – che il problema si pone così radicalmente, perché “ci si stufa dello stesso corpo facilmente”, perché c’è un eccesso di stimoli, e l’eccesso di stimoli produce noia.)
See-hee sparisce. Decide che dovrà riconquistare Ji-woo con il suo volto nuovo (e il suo nome nuovo: Seh-hee, la differenza è giusto in un soffio, uno scarto infinitesimale), senza che lui sappia chi è davvero. Ma in questo davvero c’è già tutta la tragedia, perché lei è davvero sia il volto che non c’è più sia quello che ha adesso. See-hee cercava un volto che fosse lei stessa a determinare, per sfuggire allo sguardo dell’altro che la determinava in quanto soggetto. Cercava di salvarsi dalla condizione insalvabile dell’esser soggetti allo sguardo, e così facendo ha moltiplicato la sua tragedia, perché non ha fatto altro che raddoppiare lo sdoppiamento.
Ji-woo, il Signore, non dimentica il servo che gli si è sottratto. E’ preso nel gioco sadico, impossibile, dell’amore antico, e in quello, altrettanto impossibile, dell’amore nuovo, di Seh-hee: Mi hai dato uno schiaffo! Sì. Perché? Perché ti amo.
Ed è preso, a sua volta, in un gioco di comparizioni e di sparizioni, che trovano la loro icona nella figura tremula di una bambina in veste di “amorino” che gli consegna il biglietto, con scritto Ti Amo. E’ un biglietto che viene da See-hee. Che nel biglietto successivo gli dà appuntamento al solito bar.
Tutto diventa sempre di più una messa in scena. Finché lei rivela la verità – e la rivela con la maschera. Seduti a un tavolino del bar Room & Rumour, See-hee si presenta con addosso la maschera del suo vecchio volto, del volto che non c’è più. Pensate di essere a teatro?, dice un ragazzo seduto a un tavolo accanto, infastidito – è un ragazzo rozzo e volgare, e non può che essere infastidito da quella messa in scena della verità, dalla verità come messa in scena. La verità non può essere esposta se non in maschera. Perché la verità è maschera.
Lui fugge da lei, consapevole del male che lei gli fa subire. Ma ne è preso a sua volta, irrimediabilmente. Decide di sottoporsi anche lui a un’operazione per cambiare volto, di scomparire come ha fatto See-hee, e i frantumi dello specchio si moltiplicano ancora. Ormai l’epilogo è vicino, See-hee cerca Ji-woo ma lui non si rivela e lei non sa più riconoscerlo, e in assenza del fondamento si perde nella follia. Nell’irriconoscibilità. Una follia già prefigurata nella scena iniziale, che è anche quella finale, e chiude metaforicamente il cerchio, spezzando il tempo lineare, rendendo impossibile la stessa narrazione. In questa impossibilità esibita è il regista stesso che si mette in scena, enunciando il contagio dello sguardo. L’uomo, dice Kim-ki Duk, è preso nella tragedia del suo essere scarto, resto, incoincidenza, scollamento da sé, specchio, maschera. L’uomo è un tra-sé-e-sé, e questo cirque non ha via di uscita, è l’anello dell’eterno ritorno.
ci sono misure per prevenire l’insalvabile umano?
niente è così contratto quanto la vita umana.
la vita di un insetto lo è molto meno.
esso nasce. sa già come muoversi. è padrone del suo tempo
per il fatto che è necessario lui viva solo quel determinato tempo.
l’uomo nasce e spadroneggia. ma non è padrone di niente se non della coscienza di non essere padrone di niente.
cervello maledetto.
l’evoluzione ci costringe a dilatare il tempo del tempo.
questa è la nostra morte iniziatica senza rito se non accettiamo il fatto che tra cielo e terra prima di esserci l’uomo c’è l’aria che è sostanzialmente la prefigura entità che ci permette di vivere, di coltivare i lassi di tempo biologico che appartengono ad ognuno.
il rendersi irriconoscibili è semplicemente una metafora del suicidio a mio avviso. l’amare irrimediabilmente la vita tanto da scampare alla morte cambiando identità. così opera anche il suicida. fotte chi lo fotte. più o meno.
p.s: questo articolo è molto bello. denso d’incuneato poesia, di cuore, di polmoni, di reni.
è un colpo ai sensi per come è scritto.
almeno per me.
un saluto
paola
(non rileggerò, mi scuso per gli errori)
Questo è uno dei tanti casi in cui penso che la recensione abbia estratto dal film molto di più di quanto Kim ki-duk volesse consapevolmente metterci.
In altre parole: meglio la recensione del film.
Oppure: chi ha la mente fertile può riuscire a trovare sensi nascosti e collegamenti sottorranei in ogni frase della sceneggiatura.
Qualcuno potrtebbe dire che è proprio dell’arte lasciare tanti spunti interpretativi. E ciò è certamente vero. Ma credo che spesso sia anche vero che sia più artista il recensore.
Comunque il film non mi è dispiaciuto e sottoscrivo in pieno il primo capoverso di Marco: molto meglio Ferro 3 (che ho visto) di questo, che pure lascia molte domande e inquieta come dovrebbe fare ogni opera d’arte.
Ma secondo me la narrazione diventa un po’ forzata nel momento in cui anche l’uomo decide di cambiare volto e confesso di aver pensato che il finale circolare fosse stato messo giusto per far il solletico ai critici, dato che in questo modo si può filosofeggiare molto sul fatto che tutta la vita è uno scorrere senza posa, che il tutto è uno ecc.
(io, per inciso, avevo intuito il finale quando alla fine la donna (e uno degli ultimi uomini incontrati) continuava a chiedere: chi sei tu?).
Comunque ringrazio Marco per avermi messo qualche dubbio sul fatto che io possa non aver colto appieno la profondità del film.
ciao Marco, mi permetto di segnalarti allora di Ki Duk, i primi film che sono straordinari e affatto imparentabili a Ferro 3 (quello che ha avuto più successo a quanto pare). Si tratta di film un pò difficili da reperire ma ci si può provare (L’isola e Bad guy) E in più ti consiglio L’arco, e Primavera Estate Autunno Inverno.
Faccio questa segnalazione perché oggi Ki Duk è davvero l’unico regista capace di fare cinema col corpo con i corpi, utilizzando la fisicità degli attori alla stregua di lettere di un personale alfabeto emotivo.
Su L’arco se ti interessa ne ho scritto qui:
http://www.alternativerivista.it/article.php3?id_article=792
Su Kim-Ki-Duk segnalo questa pagina: http://www.spietati.it/speciali/kim-ki-duk/kim-ki-duk.htm dove tra l’altro viene indicato come si possono reperire i suoi film. L’isola uscito con una rivista qualche mese fa.
E Grazie Marco per il bel pezzo.
ciao
troppe cose avete visto in questo film – è un’esercitazione scolastica per fare vedere che avete studiato. bravi sette più
Il tema del film, per come l’ho vissuto io, è il tempo: la protagonista non è in grado di vedere sé stessa nel presente del proprio vivere e per questo, alla ricerca di questa possibilità di sguardo su sé stessa, fugge da quel presente che è in grado “vedere” solo come “passato”.
si, hanno visto tante cose in questo film
e leggerli e imparare è un piacere