Croniche Pavesiane/E la classe operaia va
immagine da www.urbanskin.org/classe.html
Del maestro francesco forlani
Quando Annamaria mi accompagna alla fermata dell’autobus per Torino, alle porte di Torre Pellice, è da poco passato mezzogiorno.
Fortunatamente i fumi dell’alcol non hanno superato, proprio come certe nebbie, le prime ore del mattino per quanto i falò della serata e le conversazioni illuminate, siano stati alti almeno quanto quegli altri,famosi di qui, del 17 febbraio.
Sulla strada che dalla casa di famiglia porta in centro, Annamaria me ne ha fatta vedere una di quelle pire, che il popolo di questa valle prepara giorno dopo giorno per un anno intero accatastando legni ed erbe cattive. Fino a farne una vera montagna di futura cenere messa come un gigante in capo alla festa del ritorno. Perché il diciassette febbraio 1848, il re Carlo Alberto aveva stabilito, con un editto, la libertà di culto e così la gente protestante dai fitti boschi poté fare ritorno ai villaggi.
Dove passava la corriera, me l’ha indicato il libraio, sporgendo il capo appena dalla barriera di libri – molti di essi sulla riforma protestante e sulla comunità valdese. E aspettando che si faccia l’ora indicata sulla tabella ripenso a quanto ci siamo detti, la sera precedente. E’ passato un anno ormai da quando sono rientrato in Italia. Torino non è ancora Italia ma un’ Italia senza Torino è inimmaginabile. Ho lavorato per la città, con la città perché si ripensasse diversa. Non come altre tutte intente a rifarsi una verginità – quella che gli operatori chiamano turismo- mentre tutto intorno risuonano le grida dell’inferno – quello che gli operatori chiamano sistema- e di un puttanaio.
Torino, no. Ha deciso di vedersi diversa e così ha divelto le proprie piazze per mandare le macchine in cantina, ovvero in parcheggi sotterranei che rispondano alle esigenze di una metropoli dal volto umano di pedoni e ciclisti. E nell’avventura a cui ho partecipato, quella del raccontare una storia differente di Torino, a partire dai suoi abitanti, ho visto mattone per mattone le fabbriche scomparire per diventare aree, settori, poli.
Con una messa in campo di energie notevoli, di contraddizioni di scontri generazionali. Come quello che ha prodotto una bellissima gioventù figlia di operai, gente di facce e mani grosse, di denti larghi e mandibole da ring, e sono donne di grazia ed eleganza. E pensare che per molti non c’è più la classe, operaia.
L’autobus arriva. Mostro il biglietto all’autista e lui mi dice di accomodarmi in fondo. Siamo una decina appena ma man mano che prosegue la corsa ne salgono altri. Sono solo uomini, compiti, che salutano tutti entrando ed alcuni si stringono perfino la mano. L’esatto contrario di quanto si dice che accada nei condominii torinesi, dove a stento non si volge lo sguardo altrove incrociando un vicino, figurarsi poi il saluto! E così ci avviciniamo a Torino facendo capolino alla Palazzina di Stupinigi e attraversando ampi corridoi di strada, quasi sfiorando l’autostrada.
Parlano sottovoce i miei compagni, di viaggio. Quello che mi colpisce di più è che non hanno borse, cartelle, porta cellulari . Tutto il contrario di certi manager frequentati durante le Olimpiadi e che come alberi di Natale portavano sospesi al collo e al braccio ogni sorta di contenitore in pelle. Roba da farsi freddare senza alcun preavviso ad un check point arabo israeliano, da kamikaze moderni, insomma. Il tono pacato – non sommesso- un’eleganza sobria- non povera- e la durezza della pelle guarnita di rughe e sudore, accampata su larghi sorrisi e modi gentili, ne fa quasi orfanelli in gita, a bordo di strampalate corriere direzione:il mare.
Entriamo a Torino attraverso il cartello Centro. E percorriamo quartieri che mi sono sconosciuti. La voce ormai non annuncia nomi di strade, di corsi e quartieri ma solo numeri che seguono alla parola porta. Porta uno, porta due…
Quasi inquieto – ho un treno per Asti che parte poco dopo- chiedo ad uno che mi sta davanti se ci manca tanto per la stazione, E lui strabuzza gli occhi e mi dice che siamo al capolinea. A Mirafiori. Che l’autobus che ho preso è una linea speciale della Fiat. I passeggeri: operai. Al di là dei vetri,la fabbrica è una fortezza che sembra un oceano anche se poche navi ne ricalcano le onde, e il personale ridotto ormai a nemmeno un quinto, di quello che fu.
L’operaio – ma come si chiama?- mi dice di scendere con lui. Restiamo in piedi sotto la pensilina quasi bruciata dal sole e mi offre una sigaretta. Quando vede apparire un autobus da lontano alza la mano e fa un cenno. Quello si ferma e l’autista,un compagno, mi prende a bordo nonostante mi trovi fuori fermata. E salendo mi volto e lui mi fa cenno col braccio. Dal finestrino lo vedo sparire oltre il cancello, insieme ad altri.
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Ogni due anni quelli di Torre Pellice eleggono il loro Papa, un tizio come tanti. Capita solo a Torino, città antitaliana e calvinista, dove un re bigotto confisca beni ecclesiastici ma La Feroce significava Fiat.
Giuseppe vi fu assunto da ingegnere, lo affidarono a un quadro intermedio che gli facesse da tutor per un anno. Un giorno aprì La Stampa e lesse che lo avevano gambizzato. Quando riprese servizio non era lui, Giuseppe raccontava che rispondeva assi per figure. Erano i tempi. Ogni mattina al gabbiotto di ingresso c’era il volantino delle bierre. Così, raccontava Giuseppe, mentre firmi te lo leggi pure, che ci vuoi fà? Giesù, e nessuno lo toglie?, inorridivo. Ma no è normale, diceva Giuseppe, che pensa sempre e solo alla carriera.
Città antagonista, dove il manovellismo di spinta necessita di magia per espiazione. Una volta parlavo in treno con un tizio che era stato male, roba di esaurimento o giù di lì, adesso era guarito e faceva il postino. Ora non lo so se fosse uno strascico dell’esaurimento, però mi disse che apparteneva a un’associazione di parapsicologia. Cose così, insomma, ma a Torino è normale, come il volantino bierre al pass di Mirafiori. E lei ci crede a ste cose, alle fatture dico?, chiesi al postino quando eravamo a Gaeta. Ma guardi – fece proprio così, con lo stesso tono di quel tizio famoso- se una fattura me la fa uno qualsiasi dormo tranquillo, ma se ci prova quello là, se lo ricorda in televisione? Come no, ero ragazzo. Ecco, con lui non c’è affatto da scherzare.
Città di bizzarrie. Una volta cercavo un miscelatore di polveri, non uno qualsisasi, ne volevano del tipo a Vu. Mai coverto. Il miscelatore a Vu non è un mescolatore qualsiasi, come se ne trovano a migliaia per foggia e cinematismo, lui no, consta di due coni comunicanti ai vertici nel basso che un motore fa oscillare secondo strane traiettorie: prima da un verso e poi da un altro. Ma dico io, sacramentavo scartabellando brochure, funzionano così bene quelli normali, proprio ‘sto cacchio a Vu dobbiamo usare? eccerto, solo lui fa zing e zang, capisci? così i grani entrano in intimità. Intimamente sacramentai a lungo, fin quando zing, scovai l’unico produttore italiano. Che si trovava a Torino e li produce solo così, zing e zang.
@ Lapo
La chiave, ‘a Stella?
@ ©arlo
zing e zang, il tao della fisica
@carlo
bravo.
Furlan sono contento che non ti sei autosospeso, sei l’unico di NI2.0 che non vorrei cuocere in salsa piccante.
Però non sono er soldier blou come dici tu, io mi sento il fantasma azzurro e qui c’è una mia foto http://art.supereva.it/artemoderna/wols.jpg
Grazie Roberto, ma un grazie anche al Maestro Forlani: fa certi assist che chiedono solo di essere convertiti in rete.
Io amo Torino principalmente perché ci vive Voltolini, che insieme a Moresco e Scarpa è uno dei miei autori preferiti.
So che non gliene frega niente a nessuno, ma a me frega.
Comunque mi piace anche Mozzi, anche se meno di un tempo.
Torino mi ricorda Voltolini che è uno dei miei autori preferiti.
bello, o furlèn,
io a Torino ci sono nato ci sto parzialmente e non è male
come posto per abitarci, eccetto che per smog polveri fini,
cose così, e poi ha la collina sopra da cui vedi tutte le montagne coperte di neve, d’inverno per 270 gradi crica: più le guardi e più le riguardersti. C’è chi dice che le montagne gli fanno venire la malinconia:
io non li capisco, una mi ha detto montagne = Cogne = posto terribile.
Per me Cogne è uno dei posti più belli del mondo, ecco.
C’è chi dice di questi posti: “sabaudi”.
A me fa venire un nervoso boia, ‘sto cazzo di “sabaudi”
che ci accomuna a ‘sti boia dei Savoia.
Poi c’è della gente in giro che gli dici Torino e subito storce la bocca naso muso e pensa Fiat Agnelli gente scura seriosa noiosa antipatica.
E non è mica vero.
Che poi Torino è la terza città meridionale in Italia, per dire.
Noi siamo piemontesi poi canavesani, eporediesi, monferrini, cuneesi, valsusini, mandrogni etcetera
Io, modestamente, sono di sangue monferrino e mi sento un po’ extracomunitario in Torino, cioè extramoenia, perchè il sangue mi dice di colline e venti e vigne orizzonti lontanissimi blu e di un Marchesato che durò per 7 secoli e poi quei boia dei sabaudi ci hanno spento.
Te li dò io i “sabaudi”,
boiafàus
MarioB.
e io a Torino ci resterei ancora un pò, caro O Mario e passare al tuo atelier di via Belfiore, per rifare il mondo.
@carlo. Furlen Maradona Tu Careca. Bel gol
effeffe
ahahahahahahaha
Devo aver dato fastidio a qualcuno da qualche parte su lipperatura e ora è nato il mio inseparabile alert-ego “andreina barbieri” che sarebbe la mia parodia. Bello bello, quando tocchi le idee di certuni succede sempre così, magari non sono loro, sono i loro amichi, amicetti che si mobilitano.
Vediamo di placarli un po’: ei raga a me piacciono gli infinocchiatori, los infinocchiatores bolougneis, ho letto anche qualche livros, giurin giurello, sono come voi, vi offro un birrozzo a tutti…
hahhahahahaah
a torino c’è anfiosso.splinder.com
i cui programmi attuali sono + o –
1. Devo finire la carta che ho. Da adesso fino a quando non avrò esaurito la carta che ancora non ho scritto non credo posterò più sul blog. Non c’è un particolare significato, in questo, è giusto per il gusto di darmi delle direttive. (Ho poca carta, però, quindi non andrà guari che sarò di nuovo qui a rompere i coglioni. Oddìo, se fossi così entusiasta di scrivere sul blog, darmi questo limite servirebbe ad incrementare la mia produzione media, ma non smanio per il blog come non smanio per nient’altro). [[L’unica cosa che mi è venuto in mente che potrei scrivere è una sciapita ode cimiteriale dal titolo Alla statua / di Maria Des=ciuloja / Pautasso / Ved. Mangioyra / al Cimitero monumentale di Torino. Oda. Lo dico solo perché in cantiere, al momento, non ho altro, ma non è escluso che lo trovi]].
2. Devo finire un poemetto in ottave sugli esperimenti relativi alla digestione compiuti verso il 1770 da Lazzaro Spallanzani. Volendo, potrei finire di compilare alcuni inutili schemi e grafici cavati da Dalla vita di un fauno dello Schmidt, di cui ancora non so che cosa, sostanzialmente, dire. C’è un piccolo studio sull’iperbole nel Basile, diverse notazioni sul Marino, descrizioni brevi o sfoggiate di eventi di cui sono stato spettatore, resumè ragionati su La terra sotto i suoi piedi, L’arcobaleno della gravità e It, quello che posso di un poema in ottave dal titolo Le ombre, che dovrebbe prolungarsi, in teoria, all’infinito (quindi può finire anche sùbito). Ho, terminati, una specie di saggino a volo d’uccello sui romanzi (quasi tutti, ma devo vedere se trovo quelli che mi mancano) della Nothomb, e idem con patate su Moresco, e altre e simili cose su altri autori. Ho una cosa abbastanza lunga su Dhalgren e una molto lunga, testo + commento, relativa ai Capricci serii delle Muse di Gio. Battista Vidali, e un’altra di medie proporzioni su alcune rime del Murtola (dalle Canzonette del 1608). Alcune considerazioni sparse sul Frugoni, il Sagro Trimegisto (con annesse riflessioni sulla predicatoria appena precedente e sul ‘buffone del pulpito’) e l’Eroina intrepida in specie. Tutte queste cose non sono terminate. Mi stavo interessando anche al saggio della germanista Ursula Bavaj Mythoscopia romantica sulla teoria del romanzo in Germania 1629-1698 [di qui la piccola riproduzione qui sotto, che è tratta da un romanzo di tal Bohse, detto “Talander”, 1661-1770]. Nulla, come si vede, di particolarmente avvincente, tutt’altro.
Ciao DB. :-)
Grande, maestro furlèn!!!
Vedo (con piacere, ma è meglio che lo si sappia) che le persecuzioni garufiane e la contumacia non hanno fiaccato la tua vena. Anzi!!!
Mi sono “scoperto”…
… (ma è meglio che “non” lo si sappia)
@gb
cara gabretta, siccome so che non vai mai OT, sei per forza a TO: torna subito a MI!
@ff
daddy dandy, com’è Asti? beato te, che ci vai a compagni! (io dovrò andarci a fascisti)
@ db:
caro cipolla, sono a MI, sempre stata a MI. :-)
Vuoi mettere Casapulla:-)
Bart
Una costruzione incomparabile di forme chiare, che nella semplicità dell’aspetto esprimono un principio dell’ordine: questa fabbrica sembra esistere in sé come un’idea morale, come un esempio della struttura delle leggi per cui l’obbedienza trova in alto, verso il Cielo, la strada inevitabile, e ne ritorna santificata. Ogni mattina finestre enormi, grandi occhi vitrei nei quali è l’impassibilità della giustizia, fissano sciami di lavoratori: gabrette smarrite o renitenti capponi, sono un popolo ancora confuso, come un’immagine dell’umanità senza norma. Sembrano il principio della storia, e tutte le possibilità: l’ordine e il disordine, il peccato e l’obbedienza. Poi, quando fischia l’ultima sirena, gli operai all’uscita sembrano immensi battaglioni che sfilano dietro le bandiere; li guida un’invisibile bandiera sulla quale sono scritte parole inesorabili che l’uomo può scordare talvolta; ma che la volontà di Dio ha segnate in fondo alla coscienza dei popoli, vero gregge dell’ordine. Un ordine antico di obbedienza.
autunno 1928
Caro Otto, come ben sai, provai a scrivere serie riflessioni sul maschilismo circolante all’interno del partito rivoluzionario, ma ogni volta venivo mandata in cucina a lavare piatti; venni persino criticata aspramente durante il periodo di rivoluzione culturale, poiché sin da giovane lavorai all’interno del Partito per operare quei cambiamenti che ritenevo indispensabili per il riconoscimento della dignità della cosidetta “altra metà del cielo”…
saluti socialisti
Seconda sconfitta stagionale dell’Isola Liri sul campo del Pomigliano penultimo in classifica, e alla sua prima vittoria in campionato. Partenza sparata dei padroni di casa che già al 9′ sfiorano il vantaggio con Barone. L’isola Liri non riesce a macinare gioco e al 18′ rischia ancora: Koffi serve Castaldo, ma l’attaccante spreca malamente. Nella ripresa succede pochissimo, fino al 33′ quando in area Potacqui tocca il pallone con un braccio: rigore netto e gol-vittoria di capitan Capasulla. Non succede più nulla fino al fischio finale, nonostante il forcing dei ciociari sui quali inveisce il pubblico coll’ormai noto coro: “go, morra go, morra be good”. Domenica prossima si torna al Nazareth, ospite di turno l’Ostia Mare.
Cala Ding, pelché livangale il plimo amole? pelché sofflile? sculdammoce ‘o passato! come dice Confucio: W lo stluscio!
“E pensare che per molti non c’è più la classe, operaia”.
Ho trovato suggestivo il racconto, vero, Francesco, e particolarmente vera e riuscita nel suo doppio senso la frase riportata sopra, in particolare, e volevo dir(te)lo.
Gemma
Quando fai così, diventi una persona adorabile. (Cioè quello che sostanzialmente sei).
p.s.
“così” non è assolutamente riferito al giudizio espresso sul racconto (che è davvero molto bello, fuori di ogni dubbio).
Il miscelatore di polveri di Carlo Capone è un cult!
Per la sua levatura etica, lo promuoverei a must!