La pelle di Darwin
di Matteo Serpente
vogliamo vedere
Uno dei giorni più felici della mia vita è stato quello in cui per la prima volta non ho dovuto chiedere aiuto.
Era poco più di un anno fa, allora avevo all’incirca sedici anni e da quanto mi ricordo la logica delle cose aveva abbandonato il mondo, o almeno così si leggeva sui giornali e nelle pagine delle maggiori riviste nazionali. Il mio patrigno, uomo di grande sensibilità ma incapace di legami profondi, mio tutore in sostituzione del mio padre naturale morto in un incidente aereo quando avevo dodici anni, mi ripeteva in continuazione che un cammello poteva anche passare attraverso la cruna di un ago ma se accadeva, in nessun caso (e ci teneva davvero molto a ribadire con braccia piedi e testa quel suo “in nessun caso”) si trattava di vita reale, quotidiana, concreta, quella vita per capirci fatta di uomini in carne e ossa. Nella vita reale, mi ripeteva il mio patrigno, i miracoli e le rivoluzioni quotidiane non accadono mai. Davanti al tv color che aveva deciso di regalarsi per il suo compleanno, mi ripeteva sempre che: “La realtà è come una pietra durissima e pesantissima, fino a che la guardi non hai problemi, il brutto inizia quando decidi che ti appartiene!”
E pensare che non volevo credergli. Non che adesso gli creda, questa cosa della realtà e della pietra, insomma può anche funzionare ma secondo me non è una trovata sua, deve averla letta da qualche parte e deve essergli piaciuta così tanto che ne ha fatto la sua bandiera. Sarò uno stercorario senza cervello ma non sopporto chi cita le cose che legge, chi vuole farti credere che ne sa più di te soltanto perché ha letto qualcosa di fico che può citare in qualunque momento, a suo piacere. Mia zia Mary, ad esempio, veniva spesso a casa nostra a citare le sue citazioni, era così brava zia Mary che sembrava una persona davvero intelligente ma le sue erano solo citazioni di citazioni, quelle sul coraggio e quelle sulla felicità, quelle sulla lotta per la vita e quelle sulla furberia della gente e io che non vedevo l’ora che se ne andasse, mi inventavo delle scuse per tapparmi in camera e allora zia Mary attaccava con le sue citazioni di citazioni sull’educazione e sugli adolescenti e sul crearsi il proprio spazio nella vita e insomma altre cose così. Però, anche se zia Mary si può dire che la odiavo, non aveva completamente torto perché prima della condanna del tribunale di sorveglianza io ero un autentico credulone. Il giorno che la sentenza della Cassazione mi ha tolto dalla scuola per mettermi in questa cella a espiare la mia pena (si dice così, dice l’assistente sociale) la mia vita è cambiata di molto. A dirla tutta, il giorno che il giudice del tribunale dei minori ha deciso di mandarmi all’istituto di pena e mi ha condannato come un criminale vero senza neanche guardarmi per un secondo negli occhi, quel giorno il giudice mi ha fatto un favore. Prima ero un credulone che credeva a tante cose senza sapere perché, un po’ come la zia Mary che cita le sue citazioni anche quando potrebbe farne a meno. Credevo ad esempio che nella nostra assurda città ci fossero appartamenti brulicanti di famiglie con padri di famiglia responsabili che la mattina si svegliavano presto per andare a lavorare e la sera tornavano a casa pieni soltanto della felicità di riabbracciare i propri figli, credevo che ci fossero mogli che partorivano per mettere al mondo bambini che amavano i loro padri, credevo che le autovetture venissero fabbricate con quattro airbag perché la vita umana ha un valore e che sotto le pensiline alle fermate degli autobus e dei tram la gente si stringesse il più possibile per fare spazio a chi aveva più bisogno di sedersi. Inoltre credevo che il mio patrigno mi volesse bene e che mia madre si fosse risposata perché si era profondamente innamorata di un uomo che le voleva bene. Insomma credevo che al di sotto della vita fatta di cambiamenti ci fosse un nocciolo duro e consistente come l’acciaio o come il cemento capace di funzionare da principio per ogni forma di vita organica. Adesso non ci credo mica a cose del genere. Adesso sono un ragazzo in espiazione di pena e se domani esco è soltanto perché, come dice la mia assistente sociale, mi sono dimostrato meritevole di scontare il resto della mia espiazione di pena in una casa vera, non come questa che lei chiama casa ma una casa non è. Anche se, a dirla tutta, nel caso mio, meritevole non ho ancora capito che vuol dire.
Così è per questo che sono qui a raccontare, perché se è vero che domani esco è vero anche che domani inizio una vita nuova e secondo me chi inizia una vita nuova ha diritto ad un ultimo desiderio come qualcuno che è stato condannato a morte. Così io domani esco e oggi sono qui per esprimere l’ultimo desiderio della mia vita precedente, la vita che non ero io. Allora frequentavo il terzultimo anno alla scuola superiore ‘Dante Alighieri’ e le giornate passavano secondo il ritmo che ci imponevano i proff, in particolare mi ricordo di quello di italiano, un signore dall’aria indifesa che barcollava tra i banchi e sorrideva al modo di Tintin, un uomo sulla quarantina che del personaggio di Hergé aveva anche quell’aria da simpatico disadattato, capace di sciorinare per ore la forza dell’immaginazione e la magia della letteratura rispetto alla brutalità e alla violenza della storia. Un uomo che ci teneva in classe per più di un ora a ragionare sulla centralità di Dante nella scena culturale attuale, forse la persona più violenta che abbia mai conosciuto. Ma c’era anche la prof di storia che aveva una irrefrenabile e probabilmente volontaria erre moscia e adorava parlare francese perché era dell’idea che la Francia fosse l’unico paese libero al mondo, o il prof di biologia, di cui vi dirò poi anche se potrei anticiparvi che amava gli animali più dei suoi stessi alunni.
A dirla tutta, in quel periodo, si stava effettivamente ore su ore a guardarsi negli occhi con signore e signori che sapevano niente di noi, ma nessuno ci faceva caso. In sintesi cercavamo di far passare il tempo con quello che avevamo a portata di mano, per il resto si trattava di adeguarsi alle fesserie che ci toccavano, anzi, diciamo che la bravura, tra quelli di noi che frequentavano la seconda classe a metà del corridoio del primo piano e quelli dell’ultima sotto il finestrone prima del laboratorio di chimica (più grandi di un anno), stava proprio nel riconoscere dietro una fesseria l’evento che avrebbe interrotto lo scorrere della mattinata: una particolare brillantezza dell’aria, qualche rapida occhiata furtiva o semplicemente un insieme di presentimenti personali. Non ci importava gran che, purché si potesse fare il comodo che volevamo. C’era un mondo di cose da suggerire, ossessioni e convinzioni sul futuro, come se l’intera nostra vita in quelle cinque ore fosse regolata da un principio supremo di causa ed effetto che influiva su tutto. A distanza di anni non ho ancora dimenticato la volta in cui ci piombò in classe un evaso dal carcere di M. e ci prese tutti i soldi che avevamo e riuscì a filarsela senza farsi beccare, o del giorno in cui la mamma di Gipi del primo banco si presentò in lacrime e si portò via Gipi senza dire una parola lasciandoci con la convinzione che fosse successo qualcosa di assolutamente terribile che nessuno però ci rivelò mai (neppure lo stesso Gipi), né ho dimenticato il giorno in cui nevicò e nessuno di noi riuscì ad uscire per andare a toccare la neve fresca e Ella, che allora era la mia migliore amica, per la rabbia decise di legarsi alla cattedra con i lacci delle scarpe e si tappò la bocca con le pagine strappate del libro di biologia e noi a fare il tifo per lei che poi alla fine tutta la classe fu sospesa e così via. Quella volta la neve cadde senza lasciare traccia né sulle strade né sulle macchine, sembrava che fosse stata disegnata da qualcuno che non voleva sporcarsi troppo e si fermava sempre a pochi centimetri da terra prima che gli si macchiassero i polsi con la polvere grassa che ricopre l’asfalto di questa nostra assurda città. Esattamente in quella stessa settimana mio fratello Radar si prese la briga di scomparire, cancellato letteralmente dalla faccia della terra. Se lo ricordano tutti perché tutti gli volevano bene, anche il mio patrigno che quando parlava di lui sembrava che parlasse di un figlio suo ma a dire il vero non si erano mai neppure conosciuti (se lo immaginava alla perfezione solo perché amava spulciare l’album fotografico della nostra infanzia con l’insistenza di un castoro che si fa la tana nell’acqua). Perfino Ella con Gipi e il Riccio gli volevano un bene che neanche a me, e parlavano di lui come una star, uno magnetico davvero, uno che era sparito solamente perché non voleva diventare famoso. Spassarsela sì, il più lungo possibile, lo desiderava come nessuno aveva mai fatto. Ma famoso no, decisamente no. I suoi piani erano veramente diversi, una spolveratina al talamo, una lucidatina all’ipofisi e via in strada a inseguire il bene supremo del metacarpo, la soddisfazione del dito mignolo o la felicità dei polpastrelli sinistri, così fino alla fine, fino a morire per ultimo, dopo tutti gli altri, in qualche anfratto baciato dal sole.
Di quei giorni ho solo nostalgia, eravamo una famiglia e non lo sapevamo, ci volevamo bene anche se non ce lo siamo mai detto, come se nel dirselo ci fosse un qualche tipo di pericolo, l’esplosione simultanea di quelle cose che ci erano più care e che magari a non parlarne sarebbero rimaste integre fino alla fine, per sempre. Questa mattina mi sono svegliato molto presto perché è l’ultimo giorno di carcere che mi resta, il giudice mi ha revocato una parte della pena, l’assistente sociale dice che in questi mesi mi sono comportato bene, che non ho fatto capricci, che sono riuscito a raccontarle tutto per filo e per segno, insomma dice che sono cresciuto, sono più maturo e responsabile di quando sono entrato. Secondo la mia assistente sociale oggi sono migliore di quanto non fossi il giorno in cui sono entrato nel suo ufficio al piano di sopra, quel giorno, dice lei, ero solo un ragazzino nervoso che non sapeva neanche starsene seduto su una sedia, un adolescente pieno di problemi insomma. Può darsi, effettivamente potrebbe essere che la mia assistente sociale ha ragione, ma se è così allora c’è qualcosa che non riesco a capire. Se davvero mi sono trasformato, quando è successo? Perché di quella famiglia che eravamo, in tutti questi mesi, nessuno è venuto a trovarmi tranne il Riccio? È possibile che l’esplosione simultanea che avevamo cercato in tutti i modi di evitare, alla fine ci sia stata eccome? Ma quando è successo? E perché io non me ne sono accorto?
Comunque sia, anche se potrebbe sembrare il contrario, non tornerei indietro neanche per un secondo, neanche se mi assicurassero che non ci fosse più quel disadattato del prof di italiano a insegnarci Dante, neanche se mi garantissero che il mio patrigno smettesse di passare tutto il tempo davanti al tv color o se mi promettessero che mio fratello Radar tornasse a vivere a casa, insieme a noialtri. Non tornerei indietro perché quando hai ucciso qualcuno non puoi tornare indietro e io ho ucciso. Tutte quelle storie sul luogo del delitto sono balle. Nessun omicida ci torna sulla scena del suo delitto perché ci troverebbe solo spazzatura che la morte chiama altra morte e basta. Cosa? Pensate che si può parlare ai morti? Vuol dire che non ci avete mai provato sul serio, che io ci ho provato e vi dico che non ci si parla con i morti, coi santi magari, con la Madonna, ma coi morti comuni, quelli di normale amministrazione, con quelli nessuno riesce a parlarci, tanto meno se morti ammazzati. Se sei fortunato al massimo ti degnano della loro attenzione, ma ti osservano senza coinvolgerti perché di parlarti non gli interessa proprio. Li ossessiona il ricordo, l’idea di scomparire senza lasciare traccia, per questo si fanno vivi, vogliono essere notati e l’unica emozione che gli rimane è l’amore di te che sei ancora vivo. Da me ci vengono spesso. Si accompagnano ai muri con le mani in grembo, seguono tutti la stessa scia come le formiche. Hanno le guance rigonfie di una pelle slabbrata che gli cade sotto il mento, i lobi delle orecchie laceri, gli abiti unti di grasso. Quando arrivano resto sospeso allora a me sembra di stare come davanti al mio patrigno che neanche lui vuole saperne di parlare con me se si esclude il discorso del cammello che non passa per la cruna dell’ago, e io in tanti anni non ho mai capito chi dei due era il cammello e chi l’ago. Mi chiedo se non sto perdendo il filo e non vorrei perché ci tengo a raccontare come sono andate le cose quel giorno in cui la mia vita è cambiata, questa che viene è l’ultima notte che mi costringono in cella e domani sono fuori e ho promesso a me stesso che parlerò tutta la notte e le promesse mantenute, come dice quel tipo di mio fratello Radar, allungano la vita.
Così dicevo vediamo, quella mattina di più di un anno fa Ella era al mio fianco e come tutte le mattine prima di entrare in classe discutevamo di cose fatte la notte prima, sogni e qualunque altra fesseria che ci aiutava a mettere in movimento un po’ di materia grigia. Ormai sono quasi due anni che non la vedo, da quel giorno che vi dico infatti non ha più voluto vedermi o forse i suoi genitori le hanno impedito di farmi visita ma allora era la mia migliore amica nonché una femmina coraggiosissima, la più coraggiosa che abbia mai conosciuto. Il padre e la madre sono medici e allora lavoravano al pronto soccorso (se nel frattempo hanno cambiato lavoro non lo so), si erano conosciuti in ospedale, evidentemente tra un turno e l’altro. La versione ufficiale dice che si erano ritrovati spalla a spalla durante una vasectomia e nello stesso giorno avevano fatto l’amore su uno di quei lettini bianchi per malati. Ciò aveva comportato che Ella, cullata da infermiere coi camici sporchi di sangue, allattata nei reparti di terapia intensiva era praticamente cresciuta in una situazione d’emergenza e a dieci anni aveva già assistito a un centinaio di interventi chirurgici. Roba da film e infatti da quanto mi ricordo per lei era tutto un po’ come un film, alta e magra che pareva un maratoneta altissimo e magrissimo, girava sempre come se dovesse passare la notte fuori casa, un paio di pantaloni di velluto da uomo e un maglione blu, era sempre pronta a battagliare per qualunque cosa, il male andava estirpato a mani nude prima che si diffondesse e l’ho vista con i miei occhi saltare al collo di un borseggiatore sul 37 barrato che ci portava a scuola. Detto questo quella mattina Ella era davvero in forma e portava quel suo maglione blu tirato fino ai gomiti che a portarlo sempre a quel modo si era completamente slabbrato e doveva rivoltarselo sulle maniche più e più volte, in continuazione. Avevo preso a descriverle la trama di un racconto degli Urania (il mio patrigno adorava collezionare antologie di racconti di fantascienza anche se non adorava altrettanto leggerli) che parlava di un piccolo pianeta al confine col sistema solare in cui le persone avevano la pelle trasparente e fatta di vetro e mi ricordo che Ella mi disse: “Un vetro non respira, stupido!” perché Ella era così, riportava tutto sul piano personale. “È un idea che non tiene neanche per un secondo, dovresti dirglielo al tuo patrigno” non so perché ma Ella mi diceva sempre di dirglielo al mio patrigno. Io col mio patrigno ci parlavo solo dei racconti della sua collezione Urania che non leggeva mai, erano discussioni sul bene e sul male e sul futuro della specie umana, discussioni filosofiche del tutto inutili. Il mio patrigno era fatto così, non voleva parlare del suo lavoro, non voleva parlare di mia madre, non voleva ascoltare discorsi su quello che era il normale corso delle cose, né delle mie né delle sue di cose. Quando si decideva a parlarmi attaccava col suo discorso del cammello e della cruna dell’ago che ormai comincio a pensare che neanche lui sapesse chi tra noi due fosse il cammello e chi l’ago. Adesso posso dire che sul mio patrigno Ella aveva torto, se anche gli avessi parlato non sarebbe cambiato niente, dove mi trovo ora ci sarei finito comunque.
La cosa importante davvero è che davanti al cancello della scuola quel giorno mi avviavo a dare un svolta alla mia vita e non ne avevo ancora neanche il minimo sentore. Ho letto da qualche parte che quando non ci accorgiamo di respirare è allora che abbiamo i polmoni pieni zeppi d’aria, ma se è così perché ci dicono sempre di fare attenzione, di concentrarci al massimo? Se potessimo gonfiarci alla meraviglia e respirare tutta l’aria che ci serve, così, senza sforzo, semplicemente facendo finta di niente? Non lo so, ma insomma non è importante perché nelle due ore che stavo per vivere sapevo soltanto che avrei dato torto a Ella (che a quei tempi era il passatempo che preferivo) e che avrei bluffato su tutto il resto pur di riuscire a concentrarmi tra me e me su qualche fantastico e insensato ciclo di idee ricorrenti. In effetti a quel tempo ero un sedicenne sereno e ironico ma ossessionato da alcune idee ricorrenti, ad esempio credevo che cinesi e americani fossero la reincarnazione moderna di troiani e achei e che presto o tardi avrebbero dato vita a un epica moderna in cui la distinzione tra bene e male si sarebbe fondata su aspetti del tutto secondari come la cucina, l’arredamento d’interni o l’abbigliamento, credevo che l’Europa fosse destinata inesorabilmente alla guerra civile e ad un imbarbarimento generalizzato che avrebbe portato a scegliere gli uomini politici tra le schiere dei più famosi giocatori di calcio e gli imprenditori tra le mandrie sempre più numerose degli uomini politici corrotti, credevo che le temperature negli anni sarebbero aumentate come e quanto il numero delle crisi finanziarie e che il traffico nelle città sarebbe stato prima o poi spostato tutto sotto terra lasciando spazio a interi quartieri di centri commerciali e alberghi e banche e maxi schermi che mandavano pubblicità 24h al giorno. Effettivamente credevo che la vita fosse un’invenzione della televisione e che il futuro non avesse niente a che fare con la speranza o la volontà di cambiamento ma piuttosto con una facoltà come la memoria perché il futuro era qualcosa che non si poteva costruire o alterare in nessun modo, qualcosa di ben definito, già predisposto anche se alla grossa certo, che al massimo si poteva rivivere come i Natali degli anni passati sfogliando mazzetti di vecchie fotografie.
Quando il prof di biologia ci passò a fianco sul suo furgoncino Volkswagen sorridendo come se avesse vinto un mucchio di soldi a un concorso a premi capii che quell’uomo mi metteva sicurezza. Viveva da solo con un labrador dal pelo lungo e scuro (forse il risultato di un incrocio con un cane lupo) con cui parlava come ad un figlio e sull’avambraccio destro aveva tatuato un collare antipulci. Diceva di aver passato gran parte della sua giovinezza a combattere per i diritti della razza canina, un vero militante non come tanti millantatori da salotto diceva. Durante l’estate del 1977, mentre mezza Italia era sull’orlo di una rivoluzione intergenerazionale, il prof di biologia (e vi assicuro che ci sono almeno una decina di videocassette amatoriali a testimonianza) aveva salvato da solo la vita a più di cento cani abbandonati sull’autostrada del sole nel tratto tra Melegnano e Cinisello Balsamo. A differenza degli altri insegnanti lui era un uomo d’azione e per tutti noi un modello di comportamento.
Quel giorno alla prima ora c’era proprio lui. Stava spiegando il fenomeno delle maree e alla lavagna aveva disegnato una specie di ellissi che avrebbe dovuto rappresentare il legame esistente tra mondo naturale e specie umana. La pelle trasparente non l’aveva mai immaginata mi rispose quando mi alzai in pedi per parlare. Ma dal punto di vista teorico poteva pure esserci, come poteva esserci che ci saremmo estinti o che avremmo perso il predominio sul resto del mondo organico, magari a favore di qualche specie animale insospettabile, magari a favore della razza canina, è solo questione di farci la mano, di abituarsi disse qualcuno dai primi banchi mentre io mi rimisi seduto al mio posto.
Questa cosa della pelle trasparente non c’era nel racconto dell’Urania. In quei racconti non ci trovi mai le cose che cerchi, non come sul libro di biologia che ci trovo tutte le spiegazioni che mi servono. La pelle trasparente veniva da un libro che avevo trovato in biblioteca qualche giorno prima (insomma non mi ricordo il titolo ma era una specie di antologia con le migliori teorie scientifiche degli ultimi dieci anni). Così un certo Clemanceau o Clermanceux, un giovanissimo scienziato francese vivente, sosteneva che prima di respirare l’uomo era stato miriadi di cose, alghe monocellulari, pinne caudali, branchie, artigli, e poi ancora molluschi, pesci, uccelli e così via altri mille organismi poco o molto specializzati. Secondo quel francesino tutti quanti erano da considerarsi antenati dell’uomo, e fin qui tutto bene. Ma la cosa più interessante era che secondo quel tipetto di Parigi, un bel giorno, uno di quei mille esemplari, presumibilmente uno tra quelli dotato di grandi masse muscolari e artigli e polmoni, si era arrampicato fino alla cima di un albero e si era ricoperto di peli dando vita allo scimpanzé, ovvero l’ultimo anello della catena della vita organica prima della comparsa dell’homo sapiens sapiens. Da ciò il giovane scienziato ne deduceva che il mistero della nascita dell’uomo stava tutto nella crescita dei peli. Ebbene, la cosa mi aveva talmente colpito che avevo fotocopiato l’intero articolo e me ne portavo dietro delle parti che, senza farmi vedere, appendevo sui muri della scuola come un vero e proprio rivoluzionario che diffonde la verità. Mi ricordo alla perfezione una tirata di domande sul perché eravamo così e così, era la parte in assoluto che preferivo, l’avevo appesa praticamente ovunque, diceva cose così: “All’incirca qualche milione di anni fa l’uomo, peloso come un gorilla, si aggirava per le savane infuocate a cibarsi di radici col suo cervello della dimensione di un grosso limone, presumibilmente senza farsi troppe domande. Poi, un giorno, questi peli erano cominciati a cadere come cade una pera matura da un albero di pere e di lì a poco quello scimpanzé si sarebbe ritrovato con le dimensioni del cervello triplicate.” Adoravo questa cosa del cervello che si gonfia e cade come una pera matura e lascia al suo posto un secondo cervello più grande e più potente del primo. Adoravo anche la parte delle domande, “Destino evolutivo, errore biologico, evento inspiegabile? Ci eravamo ripuliti? E di cosa? Eravamo lentamente usciti allo scoperto? E prima cosa ci costringeva a nasconderci? Perché da gorilla peloso l’uomo era arrivato, alle soglie del terzo millennio, a soffrire di mali cronici come l’alopecia, altrimenti detta calvizie? Si trattava di un processo irreversibile? Tra qualche milione di anni avremmo potuto essere del tutto privi di peli, con la pelle trasparente che ci si poteva vedere attraverso? Dal futuro si sarebbero ricordati di noi semplicemente perché avevamo avuto pelle e peli? Su qualche libro di storia i figli dei figli dei nostri figli avrebbero letto che Dante Darwin e Maradona erano appartenuti tutti a quella stessa classe di mammiferi, ordine dei primati, che verso la fine del terzo millennio aveva subìto una drastica trasformazione della pelle che da rosea e rugosa si era fatta cinerea e levigata come un vetro opaco?” Effettivamente, sarò pure uno stercorario privo di materia grigia, ma devo confessare che adoravo tutto quello che aveva scritto quel tipetto francese, non lo capivo per filo e per segno ma lo adoravo lo stesso e anche se nel racconto degli Urania non si parlava di peli, non ho mai avuto dubbi sul fatto che quel francese la sapesse più lunga di qualunque scrittore di fantascienza. Ma a parte questo, nel racconto che dicevo, il cosiddetto (almeno da me) popolo di vetro non conosceva altro che la trasparenza, mai conosciuto altro da scienziati e studiosi di quelle parti. Si parlava di una specie nata vissuta e cresciuta così e basta, niente che alludesse ad una storiografia fatta di pelle e peli, niente che facesse pensare a fasi evolutive precedenti, antenati barbuti o roba simile, la fase epidermica e pelosa in quel racconto non importava a nessuno. A sentire quel discorso Ella era scoppiata a ridere, ma la cosa non ha una particolare importanza visto che Ella scoppiava a ridere tutte le volte che le raccontavo le mie teorie. In effetti lei era l’unica in grado di smontarmi e di riportarmi coi piedi per terra e non voglio lamentarmi per questo, anzi, questo mi piaceva anche se mi lasciava sempre con il desiderio di darle contro. Quello che voglio dire è che quando mi rimisi seduto al mio posto, non fu per Ella che ci rimasi male ma per il fatto che il mio intervento fu completamente ignorato dal resto della classe e non ho problemi a dire che quando finì la lezione in testa avevo una gran voglia di menare le mani.
Nell’ora successiva avevamo il prof di italiano. Cominciò a parlare più svogliato del solito, sembrava uscito da un incubo, pallido come un foglio a4 estratto da una risma, l’ombra di se stesso. Da dietro la cattedra cominciò a dire: “Cerchiamo sempre quello che non abbiamo, è quasi una difesa biologica che ci guida verso il cambiamento e la novità. È una forza tutta particolare che ha solo la specie umana, una forza decisiva”. Ero seduto al mio posto e lo ascoltavo senza fiatare.
Erano trascorsi quasi tre anni da che io mio fratello Radar era scomparso, sparito nel nulla per inseguire qualcosa che non aveva, qualcosa che lo tormentava e non gli dava tregua e ora un paio di baffetti neri con gli occhialini tondi come due biglie e una vocina tutta nasale da soubrette alle prime armi, senza volerlo mi stava dicendo qualcosa sul suo conto. E mentre stavo lì seduto che nessuno poteva dirmi niente che sembrava che seguivo la lezione per filo e per segno anche se pensavo ai fatti miei, il prof di italiano si lamentava che i suoi studenti non capivano l’importanza dell’educazione e dello studio e della concentrazione, che alla vita da adulti, diceva, bisognava arrivarci piano piano, senza forzature, ma non sapeva che lui (secondo il nostro giudizio) alla vita da adulti non ci era mica arrivato per niente anzi si era fermato ad un universo posticcio che aveva la stessa consistenza di un fumetto. E mentre ci parlava così, col suo ciuffetto biondo sempre incollato sulla fronte, si era improvvisamente alzato dalla cattedra e con un solo unico passo rigido si era piazzato di fronte alla lavagna dandoci le spalle, poi, come se stesse su un prato a cogliere fiori, come se non stesse in quella dannata classe con un’intera schiera di ragazzini che pendevano dalle sue labbra ma stesse su un fottutissimo prato a cogliere fiori aveva cominciato a scrivere. Deviando la sua attenzione maniacale verso un’ignota (almeno per noi) perfidia, produsse con tratto pieno e morbido la seguente scritta: l’abitudine è tutto e successivamente la inserì all’interno di un sistema di assi cartesiani che aveva sull’asse delle x una serie numerica compresa tra zero e cento e sull’asse delle y una scala da uno a dieci. La prima segnava la variabile anagrafica dell’età, la seconda, almeno così disse lui, il livello di insoddisfazione personale.
Nell’ipotesi di un accoppiata dei più alti valori positivi di entrambe le coordinate si aveva a che fare (quanto meno nella sua testa da peter pan compulsivo) con un individuo totalmente piegato alla routine, dedito senza alcun rimorso ad assecondare una lista consolidata di comportamenti abitudinari, quelli a cui la vita lo aveva costretto. E io che la davo a bere a tutti fingendomi attento, ascoltando quel discorsetto e osservando il grafico capii all’improvviso perché mio fratello Radar era scappato di casa. Il dolore di quel momento non fu niente rispetto a quello che provai un’ora dopo. Intanto il Riccio che stava sulla mia stessa lunghezza d’onda si alzò dagli ultimi banchi e con uno stridio che si appiattì in una voce da corvo ferito disse: “Ma lei che fa l’insegnante, perché non si è ancora abituato ai suoi studenti?” Il Riccio era un tipo alto e butterato che stava indietro di due anni ed era finito nella nostra classe per le pressioni di un assistente sociale. Sapeva bene che se lo bocciavano ancora finiva a fare l’apprendista in qualche ditta edile e così si era rimesso nelle mani di questa assistente che gli aveva promesso di aiutarlo purché – così si diceva in giro – lui si impegnasse a dedicarle qualche minuto in privato da trascorrere nei bagni delle ragazze. Il prof naturalmente non rispose e riprese a leggere delle strofe in rima del sommo poeta.
Arrivò la ricreazione di metà mattinata. Con quel ciuffetto biondo ancorato sulla fronte pensava di essere un campione del mondo, un olimpionico da prima pagina; quelle sue parole sul senso del dovere e della responsabilità. Chi ci credeva! Come i muri del corridoio che venivano giù a calci. Sotto i miei occhi quell’aria di famiglia cominciò a sgretolarsi. Sono sicuro che se avessi avuto il Maveral con me l’avrei previsto il terremoto che mi aspettava. Quella sensazione che provo ancora adesso è cominciata quel giorno, una sensazione a cui non sono riuscito a dare un nome ma ho imparato a descrivere. Esattamente quando quel ciuffetto biondo si è rimesso a sedere al suo posto ignorando il Riccio e quella sua domanda così banale. Esattamente allora ho cominciato a capire perché il mio patrigno passava tutto quel tempo piantato davanti al suo tv color senza leggersi neanche uno dei libri Urania che accumulava per casa. Mi ci volle però ancora una buona mezz’ora prima che di sentirmi come mi sento ora. All’inizio pensai che fosse solo una conseguenza momentanea, poi ho provato sulla mia pelle che la cosa poteva durare, e non era tanto male. Anzi più riuscivo a farla durare e più mi sentivo meglio. Il Maveral è venuto dopo e certo ha fatto il suo, ma se dovessi dire ha solo accentuato quella sensazione di portarsi a spasso il cervello che ho cominciato a provare da quel giorno. Succede più o meno così: ti senti rimpicciolire, una parte del busto si allunga fino al collo e poi la senti schizzare dentro al cervello, a quel punto qualcosa ti preme sulla testa e si crea un effetto ‘teca di vetro’, ovvero una parte o tutta (non l’ho ancora capito) della materia grigia che ti ritrovi nella calotta cranica comincia letteralmente a ballarti davanti la faccia come una ballerina dell’avanspettacolo. A quel punto, come un Frankenstein di me stesso, mi rendo conto di potermi comandare a bacchetta. Sono nella stanza dei bottoni. Ti fai un giro? Emisfero destro e emisfero sinistro, lobo frontale, cervelletto, a sei anni hai scoperto che si può anche rubare ma poi hai smesso di farlo, a dodici avresti potuto fartelo succhiare se solo avessi saputo quanto fosse piacevole, a tredici hai rischiato di morire in un incidente di moto ma ci hai riso sopra, a quindici davanti al campetto di calcio della scuola hai capito per la prima volta che quelle macchine che andavano su e giù per il vialone come in un flipper e il vivaio con le azalee turchine sempre fresche e quelle spalle magre sotto gli zaini invicta, le pance sudate e quelle ore che scorrevano tutte uguali come uno yoyo meccanizzato che resta acceso o si spegne e non conosce vie di mezzo, che tutto (davvero tutto) ti poteva appartenere. Ci sei? Mi senti? L’hai capito che posso fare? Capito chi sono? Devi imparare a tenermi in giusta considerazione? Dove hai lasciato le tue pasticche di Maveral? Non penserai di farne a meno? Non esisti senza quelle pasticche, ficcatelo in testa! Quando hai preso l’ultima?
A dirla tutta in quel periodo il Maveral non lo prendevo ancora e non credo che sia solo per una strana coincidenza che mi ricordo alla perfezione la sequenza delle cose come accaddero. Insomma, dopo la ricreazione avevamo due ore di laboratorio con il prof di chimica, un tipo che faceva ogni tipo di sport per tenersi in forma. Un uomo abituato ad aver ragione, uno di quei tipi che parlano mostrando bene i denti e sono in grado di fraternizzare con la facilità di un venditore di aspirapolveri porta a porta. Indossava completi spezzati per risparmiare sui soldi della lavanderia, si cambiava la giacca una volta alla settimana ma i pantaloni, quelli, ruotavano giornalieri al punto che qualcuno giurava di averlo sentito dire: “L’uomo come tutto il resto del creato vive di reazioni chimiche che bisogna assecondare. L’igiene intima è la prima cosa! Pantaloni e mutande ben puliti sono meglio di un esperimento in laboratorio, generano reazioni chimiche a catena! Il resto viene da sé.” Quella mattina il prof di chimica doveva fare la sua apparizione e illustrarci le fasi di un esperimento chiamato ‘il grido dell’idrogeno’, ma quella mattina il grand’uomo non venne. Nessuno seppe altro se non che qualche minuto prima del cambio dell’ora arrivò una telefonata che convinse il signor preside ad alzare finalmente quel suo culo dalla sedia per precipitarsi in sala professori e per chiedere, dopo una panoramica sulla stanza vuota, all’unico che fu in grado di ricambiargli lo sguardo qualcosa del genere: “Potrebbe? Anzi. Dovrebbe,” e l’uomo senza alzare lo sguardo si rese immediatamente conto di aver commesso un errore a non andare con gli altri al bar all’angolo per un caffè. “Il professore di chimica non può venire. Dovrebbe andarci lei.” Dovete sapere che tra la stanza professori e il laboratorio di chimica ci sono l’una di seguito all’altra l’atrio della scuola, le tre rampe di scale che portano alle classi ai piani, l’aula magna, la biblioteca e la saletta autogestita. Se sommate il tempo per percorre i trecento metri di corridoi al tempo per accettare l’ordine senza dare in escandescenze al tempo di condividere qualche lamentela con la signorina G. bibliotecaria anarchica della scuola, si capisce che quando il prof di italiano mise piede nel laboratorio di chimica l’ora ufficiale di lezione era già iniziata da un pezzo e quello che trovò non fu l’ordine che si aspettava.
A quel tempo nessuno di noi era capace di stare con le mani in mano. Ora ci so stare senza far niente, ho imparato che bisogna mandar giù. Non bisogna pensare altrimenti ti viene voglia di fare qualcosa e ne combini qualcuna, ma a quel tempo non ne volevo sapere di mandar giù, così non appena il prof ci vide a me e al Riccio che eravamo sulla porta a smuovere qualche costoso aggeggio nel verso sbagliato, ci prese per le spalle e ci disse che era sul punto di sbarazzarsi di noi. Io afferrai quelle parole solo molto tempo dopo, me le riferì il Riccio in persona quando venne a trovarmi dentro la cella in cui mi trovo ora. Ma appena furono pronunciate non riuscii a coglierne il senso e reagii come reagisce un ragazzino preso alle spalle. Sgomitai come un scimpanzè impaurito fino al midollo che neanche il mio padre naturale mi aveva mai spaurito così eppure il mio padre naturale aveva della mani da pugile così grosse che ho sempre pensato all’eventualità che prima di fare il pilota di linea avesse fatto la boxe di mestiere (e non era solo una mia idea visti i pugni precisi al millimetro che tirava). Così mentre il Riccio scompariva dietro le mie spalle e si approfittava di quella mia sgomitata furiosa senza sapere a cosa mi avrebbe sottratto, io mi ritrovai faccia a faccia col mio prof. In quel preciso istante cominciai a scontare la mia pena e contemporaneamente smisi di credere.
Se mi vedeste ora in questa cella che casca a pezzi capireste, le incrostazioni verdognole alle pareti che non riesco a ancora a decidermi tra sudore piscio o vomito, le mani callose per tutto il lavoro che mi hanno fatto fare in falegnameria e nella cava, i piccoli tagli sulle labbra e sotto le unghie per le infezioni che mi sono preso, se mi vedeste mentre mi tappo le orecchie per non ascoltare gli urli di quelli che sono qui da poche ore, che non vogliono guardare le crepe nei muri e le macchie marroni a terra e quella roba nera che ogni tanto si muove sui soffitti. La mia assistente sociale continua a dire che la cella è pulita, la cella è pulita, la cella è pulita, ma lei qui ci lavora e basta, non ci vive mica. Per lei è come una seconda casa, decide lei se la casa è aperta o chiusa, decide lei se è sporca o pulita e decide lei anche cosa vuol dire sporco e cosa vuol dire pulito, ma lei non ci vive mica in questa casa. Lei la sera passa ad una ad una tutte le celle, si affaccia da dietro le sbarre con un sorriso da clown e ci da la buona notte ma poi lei non ci dorme mica in una cella come la nostra, lei dopo che ci ha salutato sale in macchina e torna alla sua prima casa, quella dove vive veramente, quella dove tiene tutte le maschere per fare bene il suo lavoro da assistente sociale. Ma è di notte, soprattutto la notte, che il silenzio ci viene a trovare. Sale da sotto la terra, dai marmittoni di granaglia ocra slavati che ricoprono il terreno come una sabbia dura e piatta. Non ti ci abitui subito. Se mi vedeste ora capireste perché ho smesso di credere. Prima credevo a molte cose, ma da quando l’ho ucciso quel ciuffetto biondo non ci credo più. Stabile che sia stabile e con principi non ci credo più, che invece ha molto di magmatico, un mastino senza nervi né muscoli e gli occhi cerchiati e infilzati sopra una fisionomia da budino, o piuttosto una grossa lumaca anche, un essere che ti sale sulla schiena e la sua bava incolla, ti stacca via i peli se ci provi a tirarla e quasi diventa una seconda pelle perché il trattamento, anche se ripetuto, non ha effetto. In realtà non è verissimo quello che dico. A morire non è morto nessuno, voglio dire che non l’ho veramente ucciso quel Tintin col ciuffetto. Io non sapevo, nessuno mi ha detto, poi un giorno è venuto il Riccio e mi ha raccontato come sono andate le cose e io del Riccio mi sono fidato che io e il Riccio siamo simili, ce la caviamo da soli noi, non abbiamo bisogno di aiuto. Così è stato il Riccio che mi ha raccontato che quel bel tipo di Hergé non l’ha mai neanche odorata la morte. Semplicemente, ha detto il Riccio: “Gli è toccato qualcosa di peggio, qualcosa che se ci entri dentro rischi di passare il resto della tua vita a sperare di uscirne!” Insomma per farvela breve ho mandato il mio prof in coma, eccola la verità. Così io domani esco e lui è ancora in coma, io magari mi trovo un lavoro e lui è sempre in coma, io mi sposo e lui instancabile ancora assolutamente in coma, io magari muoio e lui sempre lì nel suo coma a fare il morto per finta. Se ci penso mi dico che il Riccio ha proprio ragione sul coma, anche se preferisco non pensarci visto che domani esco e voglio pensare solo a mia mamma perché sono sicuro che lei appena mi vede mi abbraccerà e io ho tanta voglia di abbracciare mia mamma.
Io domani esco, mi vado a riprendere l’aria, quella vera, mica questa che arriva già respirata da tutti i secondini del piano di sopra. Domani alle sette mi aprono la cella e mi mandano a casa. Firmo tutto quello che vogliono ma se pensano che mi hanno persuaso si sbagliano. Io a casa ci vado di corsa ma se pensano che mi hanno cambiato si sbagliano. Voglio abbracciare mia madre, tranquillizzarla, farle vedere che sto bene, che mi sono alzato di quattro centimetri e la camicia che portavo quel giorno mi va stretta. Voglio dirle quello che non le ho ancora detto e cioè che mi sento bene, malgrado tutto mi sento bene. Lei mi bacerà mille e mille volte perché mia madre mi ama alla follia e perché crede che l’amore è un bacio sulle guance ripetuto all’infinito ma poi smetterà di baciarmi e mi guarderà e mi capirà. Mi sento bene dirò, mi sento davvero bene dirò, non mi sono mai sentito così bene e lei mi guarderà e mi capirà.
Intanto sono qui e devo arrivare fino a domani. Si sta facendo notte e io fino a domani sarò come un fantasma che non potrà essere visto da nessuno se non dai morti, che di notte solo i morti vengono a trovarmi in cella. Di notte quando il silenzio sale dal basso nessuno ci viene qui dentro se non è costretto, perché il silenzio quando ti sale dalle caviglie in pochi secondi ti lascia da solo. Ma stanotte ho deciso che non voglio rimanerci da solo. Stanotte è l’ultima notte e non ci resto come un idiota a dormire, stanotte parlerò, racconterò tutto quello che mi ricordo di quel giorno e dei giorni che sono venuti dopo, e di quella mattina in cui ho fatto quello che ho fatto e della mattina che mi hanno portato in tribunale e racconterò ogni dettaglio che mi viene in mente. Ad esempio racconterò di quanto sorprendentemente quel Tintin col ciuffo steso a terra ai miei piedi assomigliasse ad un bambino addormentato su un fianco e del bisogno che provai di carezzargli la fronte per sentire la consistenza rigida di quel suo ciuffetto biondo che gli colava sul naso, di come mi si chiuse la bocca per un tempo lunghissimo e del dottore che dopo avermi visitato disse che a furia di mordere avevo rischiato di staccarmi la lingua, o ancora racconterò delle parole che mi si ammucchiarono nella testa come cavallette, /stupido come tuo fratello/tuo fratello è morto/credi che tornerà/non tornerà più/piccolo stupido/ e di come divenne normale dopo i primi due mesi di cella parlare a questo muro bianco come se potesse rispondermi. Racconterò di come per lungo tempo, subito dopo che era accaduto il fatto, avessi sperato con tutta la forza che mi si avverasse un desiderio, uno solo per la verità, ma fortissimo, un desiderio contro natura ma talmente forte che la natura avrebbe anche potuto esaudirmelo e invece la natura è troppo più forte dei nostri desideri e non ne vuole proprio sapere di starli a sentire. Tutte le volte che mi portavano la ciotola della cena io ci pensavo al mio desiderio fortissimo, tutte le volte che la voce del secondino mi diceva: “Eccotela la tua cena. E ricordati che sei fortunato!”, tutte le volte io mi ricordavo. Mi tornava in mente ogni cosa, esattamente come se qualcuno avesse ripreso con una videocamera tutta la sequenza. E io allora tutte le volte ci sputavo dentro a quella minestra e non la toccavo fino al mattino seguente. Il diavolo ci era finito in quella minestra. Non riuscivo a dormire dalla fame ma non la toccavo. Poi al mattina mi toccava sempre mangiarmela quella porcheria e scansare il mio sputo che avevo troppa fame per rendergliela e qualche volta, specialmente quando di notte aveva fatto molto freddo, mi è toccato mangiarmelo il mio sputo perché si era aggrumato e per toglierlo dovevo scansare oltre alla minestra anche la carne che ci stava dentro e allora non valeva più lo sforzo. Così è stato per molti mesi e il mio desiderio fortissimo è sempre stato lo stesso, per molti mesi, annidato nella mia testa, ma la natura è troppo più forte dei nostri desideri. Adesso nella ciotola non ci sputo più perché l’unico desiderio che mi è rimasto è quello di tornare a casa. Adesso la notte non dormo lo stesso, ma non è la fame che mi tiene sveglio.
Diciotto mesi che sono qui dentro ma ormai è questione di ore e finisco di scontare la pena. Io domani esco e questa è l’ultima notte che passo qui dentro e non voglio passarla da solo, altrimenti potrei pensare che assomiglio al mio patrigno che è capace di starsene da solo interi pomeriggi davanti al suo tv color senza parlare con nessuno, potrei pensare che non c’è nessuno a cui interessa quello che ho da dire, ma se pensassi così sarei uno che si è appena reso conto che respira, come mia madre che a fine giornata raccoglie su un foglietto di carta bianco le preghiere da esaudire, o il mio patrigno che cerca la posizione più comoda sulla sua poltrona di pelle davanti al tv color o come il Riccio che cerca di filare dritto e si chiude al bagno con la signorina G. Io invece non voglio pensare all’aria che mi circola nel petto, io domani esco e voglio pensare al futuro e al fatto che ho ancora molto tempo da vivere, voglio restare sveglio e raccontare quello che mi è accaduto perché le parole non vanno via subito, ti suonano nella testa e ti fanno rimanere sveglio e io a dire il vero adesso che sto parlando mi sento proprio come uno che non vuole più riaddormentarsi, uno che vuole restarsene con gli occhi aperti per i prossimi cent’anni, dovessi comprarmi una bombola d’ossigeno e un respiratore automatico o piantarmi un polmone d’acciaio nel petto, lo prometto, e come dice mio fratello Radar, le promesse mantenute allungano la vita.
@matteo
“un certo Clemanceau o Clermanceux…”, forse è questa la parte più interessante di questo giallo senza detection, a sfondo fantastico.
Chissà, potrebbe essere l’occasione di parlare del “Disegno Intelligente” e di chi, invece, crede ancora al nostro vecchio, barbuto, evoluto Darwin.
Rileggerò con più attenzione.
“Arthur Eddington ha detto una volta che non devi credere a nessun esperimento finché non viene confermato dalla teoria. Questa affermazione, benché sia una battuta, contiene una realtà di cui non si può non tenere conto. Certamente il primato della teoria è suggerito dalla storia della scienza. Bronowski osserva: ‘Charles Darwin non ha inventato la teoria dell’evoluzione, essa era già conosciuta a suo nonno. Specificamente sua è la convinzione di una macchina dell’evoluzione: il meccanismo della selezione naturale… Una volta che Darwin ebbe proposto questo meccanismo, la teoria dell’evoluzione fu accettata da tutti e così sembrò la cosa più normale del mondo chiamarla teoria di Darwin’. In altre parole i dati a sostegno della teoria dell’evoluzione – come le testimonianze fossili – erano conosciuti da tempo: ciò che mancava era una teoria convincente che spiegasse i dati. Una volta che questa fu fornita da Darwin i dati furono accettati. (Michael Crichton, Viaggi, Garzanti 2005)
ciao matteo, complimenti per il racconto, molto elaborato, pieno di immagini e colpi di scena, veri e propri aprosdoketon, come diceva la mia di prof di greco. su tutto, per me due cose: la zia mary e la caratterizzazione di questi personaggi “eh, questa è la la vita, so tutto io e te lo dico con il croce”. poi, il grafico (tutto nero) sull’abitudine mi ricorda la lavagna di scuola, è voluto? mi è piaciuto questo passaggio da una storia apparentemente semplice di scuola a questa apertura su darwin, stranissimo accostamento, all’espiazione e al coma di ciuffo biondo, con il senso di sospensione del prof (morte apparente) che perpetua il senso di colpa del protagonista. un raskolnikov più sfigato, almeno la vecchia moriva, ciuffo biondo è sempre lì, sospeso e con lui il protagonista.
bellissimo per me, davvero.
@Roberto
la teoria del Disegno intelligente la vedrei come un postulato su cui architettare nuovi metodi di ricerca, sicuramente validi, ma più narrativamente che scientificamente. La forza del naturalismo (contro il creazionismo) sta nel suo valore predittivo, e la conoscenza è sempre più ‘predizione’, know how. un treno che supera la velocità massima consentita dalla struttura binaria su cui viaggia, presumiblmente, deraglierà, causando, ancor più presumib., gravi danni a cose e persone. ecc.ecc. ecc.
Un progetto intelligente invece predice poco, svela le cause e magari qualche conseguenza, ma sui processi mi sembra che dica poco.
A me sono i processi che interessano, le scelte, le responsabilità. Diciamo un’evoluzione intelligente. Esisterà?
ottima scrittura, alla quale obbietterei solo che il pavimento della cella non può essere di “granaglia”, ma di “graniglia”.
osservo inoltre che, giunta al fatto centrale, la narrazione perde mordente.
ma soprattutto non trova un perché, cioè un motivo per tutto lo svolgimento precedente.
detto questo il racconto ha momenti notevoli.
@matteo
Sulle evoluzioni future, che a me sembrano intelligenti, ti segnalo la trilogia di Rudy Rucker, ma forse già lo conosci. La sua, più che altro, e una supervoluzione nanotecnologica.
Il matto del serraglio
Bisogna essere mentalmente disturbati» e antropologicamente diversi dal resto della razza umana per organizzare una festa off shore.
La sorpresa oltre che una sinfonia di Joseph Haydn, è un’invenzione dei telefilm americani.
Il povero impiegato dell’Ohio rientra dal lavoro e trova l’appartamento al buio.
Blackout o il solito topo da appartamento che ha manomesso i fili dell’hi-fi?
Si accendono improvvisamente le luci e dopo essere colpito da un’ischemia al miocardio, l’impiegato di Mansfield realizza di essere stato accoppato dalla moglie e dagli amici con una torta al polistirolo, lazzi, stelle filanti e cottillons accompagnati dal canto funereo dell’happy birthday .
Per non essere di meno ai Fantozzi Usa, Silvio Berlusconi ha organizzato una complicatissima sorpresa di compleanno alla moglie.
Le ha cambiato il nome.
Quello che raccontano i rotocalchi sono leggende. Marrakech, cena di lusso,aerei noleggiati e l’uomo mascherato col grembiulino con ricami a compassi e cazzuole, sono solo pettegolezzi kitch.
Da oggi la moglie del Cavaliere dopo anni di clandestinità ha riacquistato il vecchio nome dell’anagrafe ante via Rovani.
Il nome restituito alla consorte è Miriam Raffaella Bartolini.
Lei da oggi senza infingimenti; diffiderà chiunque, compreso il marito, a pronunciare l’orrido nome degli anni bolscevichi e degli incubi del regista di “Profondo rosso”.