I lager sono tra noi
di Franz Krauspenhaar
“Trovarmi in un Cpt è stata l’esperienza forse più traumatica di tutto il mio percorso di vita. Non solo per le botte. C’è di peggio in quanto a traumi. Però intanto partiamo da quelle. Te ne racconto una…”, così racconta Jihad, palestinese con alle spalle l’esperienza di ventun anni passati a Rebibbia, in una delle storie che in parte compongono Lager Italiani, Bur pagg. 283 euro 9,80, di Marco Rovelli, cantante e autore nel gruppo musicale “Les Anarchistes” e poeta.
Un libro, questo Lager Italiani, con Premessa di Erri De Luca e Postfazione di Moni Ovadia, che fa accapponare la pelle. Abituati (o forse sarebbe meglio dire assuefatti) a vedere di tanto in tanto certe immagini di vera desolazione umana in brevi inserti di telegiornale, in qualche “speciale” consegnato alla poca audience delle ore tardoserali, questa specie di “verbalizzazione narrativa” operata da Rovelli può rappresentare per il lettore (assieme ad altre opere recentemente uscite di altri scrittori italiani impegnati nella registrazione del reale) un salto in avanti rispetto al potere ormai spesso divenuto defatigante delle immagini documentarie quotidiane.
Perché il potere delle parole, usate in una narrazione come in una trattazione saggistica, (e il libro di Rovelli, diviso in più parti, è sia l’una che l’altra cosa) può essere più forte e incisivo ancora di più oggi- se si stabilisce con l’oggetto libro un patto di soccorso all’intelligenza- della pioggia di immagini filmate elettronicamente che ci ha quasi imposto una saturazione, mentre l’anestetizzazione delle coscienze è sempre più presente nella nostra collettività, data in maniera considerevole proprio da quella moltitudine di immagini dalle quali veniamo quotidianamente bombardati, come succubi di una playstation impazzita.
Rovelli, con genuina passione civile, agisce nel suo libro su un doppio binario: all’inizio, percorrendone il primo, fa il narratore di storie tutte vere che gli sono state raccontate dai migranti protagonisti del singolo episodio – ogni volta raccolto in capitolo- o da testimoni molto attendibili e vicini al protagonista stesso; tutti questi racconti sono stati raccolti dall’autore lungo un intero anno di peregrinazioni alla ricerca dei migranti, da cacciatore di storie esemplificative sullo scottante benché poco conosciuto argomento. E così ecco inanellarsi queste storie-ritratto, una dopo l’altra, come capi d’accusa a chi fin troppo spesso volge la testa dall’altra parte: storie di esseri umani e di soprusi indicibili, di assurde ingiustizie, di tragici destini.
I Centri di Permanenza Temporanea, scopriamo una volta per tutte leggendo il libro di Rovelli, sono in un certo senso dei lager a norma di legge, sono enclave di un Far West all’ europea e legalizzato poste come enormi orinatoi all’interno della nostre molto imperfette democrazie; sono non-luoghi nei quali la persona diventa una non-persona, in una sospensione apparentemente irreale fatta invece di realissimo dolore: una sostanza che diventa tangibile, spesso, nel sangue.
Dopo la parte narrativa, il libro scorre sul suo secondo binario: dopo le storie vere e crudeli trattate da Rovelli con la sua scrittura sempre vigile e pacata, senza ricerca del facile effetto, ecco le “Note deperibili”; e in queste l’autore ricostruisce dei Cpt la storia, illustra le politiche migratorie, quali sono, uno per uno, i Cpt in Italia, con esaustive descrizioni sulla genealogia dei centri e sui principali, più eclatanti soprusi commessi. Una parte fatta di dati, questa, che correttamente va a seguire tutto il rosario doloroso di racconti narrati nella prima, come a spiegare con chirurgica esattezza, ora, una volta che si è consumato il sacrificio avvincente di una lettura drammatica quasi come se si fosse stati lettori di storie inventate ( ma il fatto è che esse sono soltanto assurdamente vere) che quei campi hanno nomi, località nei quali sono ubicati, hanno una storia, una memoria; la memoria, appunto: quella che questo libro, a mio avviso importante, estrae a viva forza dalle vite spesso conclusesi tragicamente di questi uomini e di queste donne colpevoli soltanto di essere disperati e senza patria, e li restituisce alla collettività, cioè ai lettori di questo stesso libro.
Il finale è costituito da un’appendice, nella quale Rovelli compie un excursus chiarificatore partendo dal concetto di biopolitica nel Novecento; si parla dei profughi, i senza patria della seconda guerra mondiale, degli apolidi, questa massa che Hannah Arendt, nel suo saggio L’origine del totalitarismo del 1951, vede come il “tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani”.
Anche attraverso lo studio del pensiero di Agamben, più volte citato, Rovelli arriva a mettere in relazione i lager nazisti e i Cpt: ma, ovviamente, è bene specificare che questa relazione non è data dalle condizioni di vita, ma dalla struttura dei campi, nei quali sopravvivono di male in peggio quelli che l’autore chiama gli “espulsi trattenuti”, cioè i migranti, i clandestini: persone prive dei diritti dei cittadini di uno stato sovrano ma espulsi dallo stesso, e – qui sta evidentemente la perversità- lo stesso trattenuti. A essere trattenute, in sostanza, non sono altro che le loro vite così come si trovano, senza diritti, nude, spesso inermi. Un concetto portante – quello che si riassume nel termine biopolitica – che mostra in maniera chiara la mancanza di collegamento tra lo stato-nazione e la vita naturale; venire al mondo, quindi, non porta necessariamente a un riconoscimento giuridico dell’individuo, e dunque, nel caso dell’individuo migrante, egli “sopravvive”, nella sua “temporanea” vita priva di diritti, in questi luoghi di transito che a volte sono di non ritorno.
(Pubblicato su Stilos -04.07.2006)
Reclusive Pynchon finishes new novel
Los Angeles Times Service
Thomas Pynchon, the reclusive, award-winning author of Gravity’s Rainbow, V, Mason & Dixon and Vineland, is finishing up a novel, and the book will go on sale in December, his publisher announced.
”There is not yet a title, and we’re not releasing information about the subject matter at this point,” said Tracy Locke, associate publisher for Penguin Press. “At this point, that’s really all I can tell you.”
Pynchon’s new novel, his first since 1997, is shrouded in mystery, as were many of his previous books before publication.
The author, born in 1937 in Glen Cove, Long Island, N.Y., has long avoided publicity, and his books have acquired a cult-like status among many readers.
Franz, hai scritto una gran bella nota a commento di un gran bel libro, un libro importante. Grazie.
p.s.
Frega ‘na beata fava di Pynchon e del suo ufficio stampa. Soprattutto in questo momento.
Grazie, Cato. Sono d’accordo, quello di Marco è un libro importante. Gli auguro successo.
Con Pynchon, come si suol dire, ho già dato.
Si dice beata minchia!
no, no. Si dice anche “beata fava”, confermo!
Pynchonalia: è vero o è una bufala?
Oppure: è vero o è una sòla?
Mi sono fatto l’idea che nel contemporaneo stato anestetico di massa, tutto ciò che non ci tocca direttamente, che non ci coinvolge fisicamente, come si dice, in prima persona, ci intrattiene.
Come ci ha intrattenuto la mafia e la camorra (di Saviano e di altri e non per colpa di Saviano e di altri) e le vicende di malavita, così ci intrattiene la triste sorte degli immigrati (prefata da due intrattenitori come De Luca e Ovadia) dentro e fuori i Ctp-Lager (fuori dei Ctp ci sono i campi di pomodori e d’altro, i cantieri edilizi, ogni sorta di lavoro degradante, la strada, eccetera).
Tutto ciò di cui ci viene comunicato l’accadimento diventa fiction e serve a massaggiare le coscienze, occupate in altre e più lievi faccende: allora c’è il ritorno ciclico di Harendt e Agamben eccetera, (ma non di Marx, che non si porta più) che sono anch’essi, strucca strucca, puro intrattenimento narcissico.
Ciò che non ti tocca direttamente e ti giunge come libro (attanagliato da pre-fazione & post-fazione), se non hai un partito preso molto politico e molto ideologico, deformato e fazioso e violento, se non hai un terreno di condivisione autentica ed esasperata, un interesse diretto nella vicenda, se non hai una spinta personale estremista alla modificazione, diventa “denuncia”, alimenta er dibattito, si fa fiction, sta in libreria, appunto coi libri.
E coi libri resta.
Una volta a chi era depresso si diceva: “Mangiati una bella bistecca e beviti un bel bicchiere di vino”.
Ora, addirittura, si danno gli psicofarmaci anche ai bambini di otto anni. Ora però a un depresso gli di danno, giustamente, gli psicofarmaci (a stomaco pieno, dopo la bistecca).
Voglio dire, Tash, che di certe cose, a furia di parlarne, magari si intrattiene pure, ma, a mio avviso, soprattutto si informa.
Oggi solo un coglione totale direbbe a un depresso “mangiati una bistecca”, nemmeno mia nonna, guarda, che lo diceva a mia madre negli anni 50.
Il libro di Rovelli informa, quello di Saviano pure. E’ ovvio che gran parte dei lettori se ne fotte, in ultima analisi, e come dici tu s’intrattiene. Io però, che non ho “un partito preso molto politico e molto ideologico”, dal libro di Rovelli sono rimasto profondamente colpito. E molto informato.
Altrimenti, per onestà intellettuale, non avrei scritto nella recensione che Lager italiani, fa accapponare la pelle.
Scusate i refusi e le virgole andate “a farfalle”.
Aggiungo questo: un conto è informare in maniera schizofrenica (sui giornali e alla televisione) tra tette, culi, commissari tecnici che dovrebbero vergognarsi (e vive la France); un conto è informare in un’unica soluzione, nella compattezza senza scampo di un libro. L’oggetto col quale possiamo fare un “patto di soccorso all’intelligenza”.
Saviano, per esempio ovviamente non preso a caso, ci racconta come stanno le cose dalle sue parti in un unico percorso letterario e umano; è il libro, come oggetto compatto e contudente, che dà la possibilità a lui di dire quello che sa e a noi di capire e di informarci, uscendo dalle pastoie del giornalismo, dalla pubblicità, dalle immani stronzate di cui sono pieni i nostri quotidiani-tabloid, cioè a due facce, una da Frankfurter Allgemeine e l’altra da The Sun.
Tash, un giorno o l’altro avrai la bontà di spiegarci in base a quali criteri, o a quali conoscenze personali, arrivi a sostenere che le tematiche trattate nel libro di Rovelli sono puro intrattenimento per coloro che commentano. Che ne sai, invece, in base a quali considerazioni io, ad esempio, posso affermare che si tratta di un libro importante? Come fai a misurare il mio coinvolgimento anche fisico in questa materia? Come fai a conoscermi così bene da sapere dove vado e cosa faccio quando non scrivo cazzate sui blog? Secondo me, guardando al tuo curriculum indiano e al contributo intelligente che quando vuoi sai dare, questa grandissima stronzata di commento potevi anche evitartela.
rovelli e gli altri (e tutti noi) sono in perfetta buona fede e il loro lavoro è meritorio, essenziale.
non mi fraintendete.
tuttavia la sensazione – è solo una sensazione che cercherò magari di precisare meglio nei prossimi giorni – è che esista una società dei protetti, in modo diverso e a titolo e condizioni diverse, della quale facciamo parte, che, benché in buona fede si sforzi di partecipare e forse fare qualcosa per il vasto mondo dei non protetti, tuttavia resta sostanzialmente estranea a quest’ultimo ed assiste alle sue vicende come da dietro un vetro o uno schermo de televisione.
come fiction, insomma.
altrimenti metterebbe a rischio le basi della protezione di cui gode, o crede di godere.
ma posso sbagliare.
Prima della tua recensione, a dire il vero, il libro mi era sfuggito.
Ora, riprendendolo dalla pila dei “sospesi”, mi sono tuffato in una realtà che conoscevo, ma solitamente scritta sotto “dettatura”…
Quello di Rovelli mi ha, invece, ingurgitato la notte.
Diverse volte mi sono occupato per Repubblica, esulando dal mestiere di critico, di quei “non luoghi” come la ex Falck e la Magneti Marelli di Sesto o certi capannoni fatiscenti della Bovisa che sono, a tutti gli effetti, auto- lager illegali ma di cui nessuno ama parlare.
Anche se la mia idea rimane che i veri lager siano altrove: i nostri appartamenti di indifferenza, i nostri televisori che sono “studi aperti” da spegnere a (tele)comando, i letti matrimoniali, gli asili nido, le scuole, gli stadi comunali, le urne elettorali. Questi, per me, sono alcuni esempi di campi di concentramento in cui, senza accorgercene, siamo rinchiusi in un “mondo nuovo” alla Huxley. Quella che chiamano democrazia ci ha ridotto, attraverso una sorta di ipnopedia perenne, non a schiavi ma a bambini. Prigionieri controllati non con il randello, ma coi piaceri.
Gian Paolo Serino
Il sabato deve essere il giorno delle grandi riflessioni. Così, riflettendo riflettendo, ho finalmente capito perché il q. f. è in quelle condizioni pietose.
Posso leggere il libro solo a patto che non mi induca nel transfert provato quando ho visitato Ellis Island, dove tutt’ora l’angoscia dell’ emigrante trasuda dagli oggetti, dalle immagini, dalle parole qui depositate.
La frontiera come topos di confine e di richezza, ma sino ad ora, è stato solo luogo di disperazione,surreale limbo esistenziale.
@Gian Paolo.
Io me ne sono accorto, di quello che tu dici. Ma ho l’impressione molto forte che i nostri lager quotidiani con materasso a molle, caffè caldo, tre pasti al giorno, gadgets e possibilità di scelta di passare da uno all’altro (hai detto niente?) siano uno scherzo rispetto ai lager descritti da Rovelli, o delle prigioni. Se stiamo a parlare di “letti matrimoniali” e di “appartamenti di indifferenza” è soprattutto, a mio parere, perchè questa vita vuota ce la siamo voluta e meritata. Chi finisce nei lager veri di solito ne è stato spinto a forza bruta.
@Tash.
Siamo tutti i buona fede, certo. Meglio specificarlo, hai fatto bene, perchè il tuo precedente commento mi era parso sottilmente ambiguo.
Però io non sottvaluterei la fiction, ché qui gli scrittori che inventano le storie (magari cavandole dal proprio vissuto o perlomeno dal proprio sentire, insomma dal proprio sangue) sembrerebbero finire di punto in bianco nella retroguardia della letteratura.
A parte che al Premio Strega.
@franz
@tash
@cato
La recensione di Franz è una goccia d’acqua nel deserto informativo della comunicazione neutrale. E quindi evviva i pugni in faccia al network, se illuminano quei ‘non luoghi’ che stanno riempiendo la Terra.
Le parole, però, hanno sempre un peso, un valore, sono il deposito di un’esperienza.*** Voglio dire che dobbiamo fare attenzione alla scelta delle parole, al loro ‘senso’, ai poteri che le mascherano e che le rappresentano.
“Rovelli arriva a mettere in relazione i lager nazisti e i Cpt: ma, ovviamente, è bene specificare che questa relazione non è data dalle condizioni di vita, ma dalla struttura dei campi”. Insomma, i CPT sono dei lager? Sì o no?
Un po’ prima, leggo “…in un certo senso sono dei lager a norma di legge”. Ma in che senso? Qual è il tono di questa affermazione? Franz sta ‘ironizzando’?, sta estremizzando? (gli “orinatoi”), oppure il legislatore ha davvero riaperto Dachau?
In realtà i CPT non sono dei “campi di lavoro”. La “permanenza temporanea” riflette una condizione esistenziale diversa dall’universo concentrazionario, una condizione che richiama alla mente la precarietà attuale, la difficoltà del soggetto di trovare un nome, conservare un’origine, costruirsi un’identità. Non l’azzeramento delle camere a gas.
Forse, in questa ‘sospensione’, in questa indefinibile condizione di ‘transito’, c’è (almeno) la promessa di una libertà che dovrebbe arrivare. Vivere attaccati a un filo, in una condizione fatta di soprusi e di botte. Ma fino all’ultimo queste voci non perdono il diritto di (ri)avere la parola, di esprimersi e raccontarsi. Una chance che non è prevista dalla statica, sistematica eliminazione dell’Olocausto.
Le osservazioni sui meccanismi dell’industria culturale non mi sembrano così sconclusionate. E’ possibile vendere più copie se parli di campi di sterminio? Non sto dicendo che Rovelli l’ha fatto, sto dicendo che è un meccanismo possibile, anche concreto. Che ne è, allora, della ‘memoria’?
E il titolo del libro di Rovelli, mi rivolgo al suo editore, è al riparo da qualsiasi insinuazione? Se le parole contano, se “hanno un potere”, allora dobbiamo calcolare il loro effetto retorico, il ritorno dell’onda d’urto, cioè l’enfasi che vogliamo dare alle nostre tesi, ripeto, anche alle idee più giuste e condivisibili. Quanto possono essere amplificate, e modificate, dal marketing? (titoli, quarta di copertina, trailer, ma anche recensioni, segnalazioni, premi, presentazioni).
Credo che per essere ‘credibili’, ‘obiettivi’, dobbiamo tornare indietro nel tempo, a cavallo tra il XIX secolo e il XX secolo, prima del diluvio. Intendo tornare al vecchio senso giornalistico, veristico, dell’analisi oggettiva.
Un metodo che i profeti della stampa cazzona di oggi considerano una parolaccia, sostituendo all’osservazione storica il giudizio soggettivo, ai dati empirici la presa di posizione individuale, alla realtà le parole d’ordine di una ideologia irrazionalistica ed estetizzante.***
Franz non è caduto nella trappola degli schematismi. Nemmeno Rovelli, credo (leggerò il libro). Altre volte, però, mi sembra che l’effetto propagandistico risuoni come una fanfara nelle fila della sinistra democratica, radicale e antagonista.
Qualche esempio. Il caso di Abu Omar. Il sequestro confezionato dalla Cia con ambienti consenzienti della intelligence italiana. E’ giusto difendere i giornalisti di Repubblica intercettati. Ed è stato fatto, in sede europea.
Ma sabato pomeriggio, il Tg3 ha definito il signor Abu Omar “una vittima”. Chissà quante ne avrebbe da raccontare Omar sui ‘non luoghi’ in cui è stato ‘trattenuto’ (dalle prigioni egiziane a non so dove). Ma quante ne ha combinate lo vogliamo dire? Definirlo una “vittima” è una disattenzione più che un errore, una locuzione menefreghista tra lo sbrigativo e il consolatorio più che un gesto informativo.
Prima di finire nelle mani degli spioni americani, Abu Omar è stato sotto osservazione Digos. Era considerato uno dei colonnelli quaidisti in circolazione in Europa, un reclutatore, un elemento in grado di organizzare attentati.
Certo, mi direte che viviamo nel mondo del Terrore, della Paranoia della Sicurezza. Che la Digos è fatta di agenti alla Michele Placido in “Arrivederci, amore, ciao”. Vi chiedo di dimenticare per un attimo l’epica noir dello sfascio, le travagliesche corruzioni della società, di lasciare i romanzi agli scrittori come Carlotto e gli esercizi critici sulla fine del poliziottesco all’amatriciana nelle amorevoli mani di Lipperini.
Detto questo, ogni caso fa storia a sé. Abu Omar è cresciuto nella Jamaa Islamyah egiziana, era già stato arrestato e poi rilasciato in Albania negli anni novanta.
“Omar è arrivato in Italia ottenendo l’asilo politico. Nella moschea di Viale Jenner ha preso il posto di Anwar Shaban, il quale era andato a combattere in Bosnia rincorso da un mandato di cattura per terrorismo della procura di Milano”.*** Forse non è un carnefice come vogliono farci credere, ma giudicarlo “una vittima” è un po’ pericoloso, almeno in termini di sicurezza interna.
Il secondo esempio. Leggo sul sito di Indymedia che il Generale Leso, l’inventore delle MSU, sarebbe implicato nelle torture di cui furono accusati alcuni soldati italiani in Somalia.
C’è una commissione parlamentare che ha stabilito che quelle torture, in qualche modo, ci sarebbero state, anche se poi, come succede nel Belpaese, i militari colpevoli l’hanno sfangata e ce li siamo dimenticati. Pagina nera ma vera.
Dal sito di Indy si intuisce che Leso sarebbe stato non dico l’artefice ma almeno il committente di quelle atrocità. Ma perché Leso avrebbe dovuto ‘lasciar correre’ sui comportamenti devianti della truppa?
Perché avrebbe dovuto farlo con dei militari che, effettivamente, sul campo, nel ‘teatro delle operazioni’, non poteva dirigere né controllare? Leso, infatti, era un ufficiale dei Carabinieri. Invece i soldati incriminati appartenevano all’esercito. Qualcosa non torna in questa ricostruzione.
Al liceo, se avessi scritto una frase ambigua come quella di Indy, il professore di italiano mi avrebbe corretto il compito con un bel punto interrogativo. Come a dire, spiegati meglio, non è chiaro cosa vuoi dire.
Per caso è un modo di costruire il nemico? Nel sito, Leso riappare a Genova: suoi gli ordini che portarono a Piazza Alimonda, sue le ‘squadracce’ sperimentate durante il G8, ‘prove tecniche’ della futura gendarmeria europea.
Possiamo discutere se le MSU, la nascente gendarmeria europea, i nostri carabineiros d’esportazione (lo dice l’ONU), siano meglio o peggio della fanteria atlantica impegnata a Falluja. Ma trattare Leso come una specie di criminale di guerra mi sembra eccessivo.
Chi lo conosce, e l’ha intervistato, mi parla di un uomo con le palle quadrate, e questo può dare fastidio a chi è allergico ai celerini. Ma anche di una persona in grado di ragionare con la sua testa, e capace di farsi rispettare in ‘scenari’ critici.
Archiviarlo tra i Goebbels della storia, come fanno gli Indy-boys, è improduttivo ed inutile. Creare dei mostri non serve a capire come sono fatti gli uomini, le loro azioni, quello che fanno, perché decidono di comportarsi in un modo o nell’altro, nel bene o nel male. Pensiamoci prima di riaprire i lager.
***Ne abbiamo parlato con Gina a margine del post su Cristina Giudici, riesumando la definizione di “informante nativo”. Jihad, 21 di carcere passati a Rebibbia. Cos’ha fatto?
***Tutto è una questione di osservazione, di punti di vista, di inquadrature. Pirandello, prima di Deleuze.
*** “Il concorso in lotta al terrorismo non è una colpa ma un dovere”, il Foglio, 8 luglio 2006
@tashtego
@cato
@franz
@roberto
due citazioni. apparentemente solo sul titolo del libro (che leggerò anch’io, forze permettendo).
la prima, da ‘i sommersi e i salvati’, p. levi. con la quale le amarissime riflessioni di tashtego prendono, se posso, una luce più in profondità, ugualmente ‘sinistra’ (il PROBLEMA del racconto, e dell’ascolto, della ‘comprensione’ delle ‘tragedie’ altrui: dico problema, non scacco: contraddizione, non aporia).
‘Nei suoi limiti, mi pare che l’episodio illustri bene la spaccatura che esiste, e che si va allargando di anno in anno, fra le cose com’erano “laggiù” e le cose quali vengono rappresentate dalla immaginazione corrente, alimentata da libri, film e miti approssimativi. Essa, fatalmente, slitta verso la semplificazione e lo stereotipo; vorrei porre qui un argine contro questa deriva.
In pari tempo, vorrei però ricordare che non si tratta di un fenomeno ristretto alla percezione del passato prossimo né alle tragedie storiche: è assai più generale, fa parte della nostra difficoltà o incapacità di percepire le esperienze altrui, che è tanto più pronunciata quanto più queste sono lontane dalle nostre nel tempo, nello spazio o nelle qualità.
Tendiamo ad assimilarle a quelle “viciniori”, come se la fame di Auschwitz fosse quella di chi ha saltato un pasto, o come se la fuga da Treblinka fosse assimilabile alla fuga da Regina Coeli. È compito dello storico scavalcare questa spaccatura….’
(ricordo qualche ‘subbuglio’ leviano, e non solo, quando negli anni ’70 lo stesso accostamento e lo stesso titolo-slogan, ‘lager italiani’, veniva adoperato per parlare di fabbriche o di manicomi).
[un accenno al paradigma biopolitico, che consentirebbe in questo caso il ricorso al ‘confronto’, mirato come si vuole, tra i Lager e i CPT viciniori…: a rischio di divenire pass-partout per leggere fenomeni lontani, sovrapporli a quelli ‘epocali’ del nostro presente: e quindi, ancora una volta, come per tutte le ‘narrazioni’, secondo quanto dice roberto, da adoperare con cautela e con spirito sempre critico, vigile…].
la seconda citazione, @ franz, è una frase apparentemente en passant di a. cortellessa, da una recensione recente alla ristampa di ‘procida’ di f. cordelli:
‘non meno che provocatoria, l’evocazione dell’ “avventura”: in quello che riappare oggi, proditorio, quale controveleno ideale per l’ideologia letteraria oggi dominante – la quale non chiede altro che “fatti”…’
‘l’ideologia letteraria oggi dominante’. mah.
chi ha paura dei ‘fatti’? perchè?
(sto parlando in generale): si presta il fianco ai detrattori di ‘storie’ cavate “dal proprio vissuto”, come dici tu, se e quando si innervano insidiosamente nella scrittura che si ‘apre’ ai ‘fatti’, alle ‘esperienze’ osservate, tracce di postulati retorici, dispositivi solo emotivi (slogan o titoli a effetto per alimentare, tra il pubblico interclassista e ‘distratto’, lo sdegno e lo scossone alla nostra falsa coscienza); teorie approssimative fra storiografia e biopolitica: quando, nelle migliori intenzioni, si piega lo ‘sguardo pacato’, al massimo obiettivo, a documentare ‘i fatti’, verso il coinvolgimento solo emotivo (ideologico), che cade nello stereotipo (nello slogan), a detrimento dello ‘studio’ (della ‘osservazione’)..
è inevitabile, forse, ma resta che il presente ci chiama a mettere in atto o a sperimentare nuovi ‘metodi’, e soprattutto nuove ‘parole’, incominciando dalle nuove parole, per parlare di cose vecchie e nuove, ‘viciniori’. il ‘contravveleno’ alla semplificazione (e alla censura dei ‘fatti’) è dunque la scrittura ‘coinvolta’ nelle ‘esperienze’ altrui, ma anche la sua affilata ‘affidabilità’ (antieconomica)…
spero di trovarne traccia nel libro (a parte il titolo)…
sul tema dell’immgrazione ricordo che è anche appena uscito il libro di Alborghetti che si intitola L’OPPOSTA RIVA. Sembra – cosi è scritto nel libro – che l’Alborghetti abbia vissuto per 3 anni coi clandestini (parecchi dei quali sono stati nei CPT) e ne abbia fatto un libro di poesie. La definisce una Spoon River dei vivi e per me che l’ho letto, dico che è vero, che è ben fatto, specie per il tema, anche se trattato con la poesia invece che in un altra maniera.
Ennio
Devo dire anch’io, con Franz, pur non potendomi di certo definire un’ottimista, che gli inferni “comodi” o interiori sono, seppur legittimi, diversi dagli inferni assoluti e reali. Il discrimine è innanzitutto questo: volendo da quelli se ne può uscire. Spesso mi sono chiesta cosa vuol dire vivere o morire in un campo di concentramento, in un carcere, in un reparto psichiatrico, in un C.P.T.. Il primo tipo di prigione è la costruzione più orribile che la storia dell’uomo potrà mai “vantare”. Stimo con tutta me stessa chi, negli altri, ci entra per portare raggi di vita e fiducia e amore, chi si avvicina in modo non bestiale alle persone che, recluse in quei posti, vengono ridotte spesso a vivere come bestie, ciò che non è di certo propedeutico al recupero. Quanto ai C.P.T., infine, lavorando in Tribunale, posso (devo) sentire anche la versione di chi sostiene che i giornali esagererebbero quando parlano della disumanità dei C.P.T., devo ascoltare il razzismo e il disprezzo dei colleghi che guardano quei “delinquenti” stranieri sfilare ammanettati e diretti all’udienza…
Nel libro “Harold e Maude”, di Colin Higgins, Maude a un certo punto dice questa frase: “Una volta avevo l’abitudine di fare irruzione nei negozi di animali e liberare i canarini, ma poi ho rinunciato perché i tempi non sono ancora maturi per un’idea simile. Gli zoo sono pieni e le prigioni traboccano. Dio, Dio. Che amore sviscerato ha il mondo per le gabbie”. Maude è una settantanovenne così ottimista e piena di amore per la vita da sembrare una squinternata. Si scopre poi che è stata in campo di concentramento, per dirne solo una…
@roberto
@fabio
Il titolo Lager italiani è ovviamente il sintomo di una forzatura mediatica. Il titolo è chiaramente a effetto, la copertina del libro è rossa, i caratteri cubitali. Un pugno in un occhio che dovrebbe equivalere a un pugno nello stomaco visivo. Gli editori fanno il loro mestiere. Ora, non so davvero se il titolo è stato trovato da Rovelli o da un editor o dall’ editore. A me frega meno di zero. A la guère comme à la guère.
Ovvio che Levi non gradisse l’accostamento lager-manicomi. Ci possiamo arrivare, noi, con l’immaginazione, per fortuna non con l’esperienza. Ma Levi ci ha consegnato pagine che valgono più di mille documentari. Le immagini scorrono, il cinema (anche quello documentario, voglio dire) è più che altro illusione. Io questo lo dico, lo affermo, in questo ci credo perchè il cinema l’ho studiato molto, l’ho amato molto, e adesso, come succede con certi grandi amori, m’ha nauseato molto. Le immagini che ho visto sono diventate troppe, si sono confuse tra loro, Dreyer si confonde con Bergman, Bunuel con Levin, Tarantino, dopo Kill Bill I e II per me ha mostrato la sua vera faccia da troia, quella di un noleggiatore di homevideo. Ha rotto il cazzo, completamente, definitivamente.
La letteratura ha una, due, tre marce in più. Non chiedete a me perchè, è così e basta. La faccia di Buster Keaton in “Film” non spiega Beckett; ma Beckett “spiega” Buster Keaton, Chaplin, tutti quanti.
Arriviamo alle domande di Roberto, che seguo da tempo qui su Ni con stima: tu mi citi:
“Un po’ prima, leggo “…in un certo senso sono dei lager a norma di legge”. Ma in che senso? Qual è il tono di questa affermazione? Franz sta ‘ironizzando’?, sta estremizzando? (gli “orinatoi”), oppure il legislatore ha davvero riaperto Dachau?”
Lo sai meglio di me: recensire un libro come questo in 4000 battute (questo è lo spazio che mi è stato concesso) non è facile. Stavo estremizzando, è ovvio; anche un imbecille capirebbe che il legislatore non ha riaperto Dachau. (E tu sei il contrario di un imbecille).
Sono a norma di legge in quanto posti come “orinatoi” (immagine un po’ letteraria e di seconda scelta, ma tant’è) all’interno delle nostre molto imperfette democrazie. Anche qui, se il lettore non è un imbecille, pare chiaro – a me come al lettore – che i Cpt non sono delle ricostruzioni di Dachau ma “enclave di un Far West legalizzato”. Posto che esiste una nettissima differenza tra la nostra democrazia e il regime hitleriano di cui il lettore non imbecille ben sa .
Per il resto, @Fabio, a me è parso molto evidente che, al di là di certe forzature (il titolo, la copertina, le cose di cui ho parlato prima) il libro ha una sua forza documentaria e informativa molto importante, molto robusta. Ritorno al discorso che facevo prima a Tash, il libro ha una compattezza contundente che i giornali – anche i migliori – non possono avere, sono molto meno deperibili; e le immagini televisive (quelle cinematografiche sono ormai solo storia, il cinema come arte è al 90% finito da anni, secondo me) scorrono negli scarichi dei cessi come piscio di pixel.
Ma sarebbe bello riparlarne, anche con Rovelli, quando avrete letto il libro.
>tashtego, senza troppo giri di parole devo dire che sostengo il cuore della spigolosa questione da te sollevata (sperando di aver interpretato bene il tuo pensiero e nulla togliendo ai luminosissimi lavori di Rovelli, Saviano.. )una sola domanda, mi si impone rileggendoti attentamente:
“Marx chi ?”
@F.K. : Ecco, io non sono convinto che i nostri lager, quelli che Carmelo Bene, chiamava parziali, siano diversi dalle prigioni presenti e passate. Certo abbia libertà di pensiero (ma manca il pensiero), possiamo cambiare, ma solo canale, le camere a gas sono il cielo e il lavoro, consuma crepa non è lo stesso che IL LAVORO RENDE LIBERI?
Gian Paolo Serino
Gian Paolo, perchè manca il pensiero? Non facciamo altro che pensare, a volte persino con saggezza. Comunque d’accordo, la nostra società dei consumi fa schifo. Tra un po’ ci toglieranno anche gli amati call center, li sposteranno tutti in Albania, dove con un euro all’ora “ci campi” una famiglia.
Certo che sarebbe “divertente” leggere questa scritta davanti alle Standa e alle Esselunga: “CONSUMA, CREPA!”
Buona domenica.
Serino, prova a chiedere a uno qualsiasi degli “abitanti” dei lager, quelli veri, se cambierebbe la sua posizione con la tua, visto che per te sempre di lager si tratta.
A me sembra che giocare con le parole, parole dietro le quali si nasconde tutta la miseria e l’orrore di identità espropriate e di diritti negati, ieri come oggi, e utilizzarle, queste parole, per definire anche solo il tedio, o il rovescio, di una condizione comunque da garantiti e da privilegiati, sia un’operazione di dubbio gusto, per non dire altro, soprattutto per un intellettuale.
La citazione di Arbeit macht frei, mi sembra poi un vero tocco en artiste: geniale! Credo che ci sia una bella differenza tra la redazione di un giornale e il “luogo” dove una ragazzina di quindici anni lavora per due euro all’ora per dodici ore al giorno, il “luogo” dove viene assassinata: quello è il lager. Sarebbe bene non dimenticarsene, se no si finisce, anche contro le migliori intenzioni, per lapidare anche i morti.
Chiaramente la mia era una provocazione. Quello che intendo dire, però, è un’altra cosa. E’ innegabile l’orrore dei lager, dei gulag, dei campi di concentramento giapponesi negli Stati Uniti, delle scuole prigioni per minorati (dove tutt’oggi, negli USA, sono ancora rinchiusi più di 40 mila ragazzi con un Q.I. non soddisfacenti agli standard a stelle e strisce) o di Abu Grhaib o dei nostri CPT.
Quello che intendo dire è che comunque non viviamo in una democrazia.
E’ una dittatura democratica che al randello ha sostituito i piaceri (vd Aldous Huxley, Il MOndo Nuovo). “Non c’è più un Grande Fratello che guarda noi, ma siamo noi a guardare noi” (Neil Postman, Divertirsi da morire).
La differenza è che in un lager ti rendi conto di essere prigioniero, hai un filo spinato al quale aggrapparti per cercare la libertà. Qui no: la libertà è omeopatica e del tutto opininabile. Siamo schiavi e non lo capiamo. E’ questo il dramma.
Ma sono lager mentali, G.P! Questa è la differenza. Enorme. Possiamo distrarcene! Ugolino Conte ha ragione, stiamo attenti nel giocare con le parole. Non facciamo anche noi come la maggior parte degli scrittori, che ballano, danzano, giocano, eticamente fottuti dal loro egocentrismo.
@FK
Dici:
Certo che sarebbe “divertente” leggere questa scritta davanti alle Standa e alle Esselunga: “CONSUMA, CREPA!”
Dico:
in Germania oggi c’è la catena dei DM, il cui fulgido motto è: “Hier bin ich Mensch! Hier kauf ich ein!” (Qui sono un essere umano! Qui compro!).
‘Spetta, c’è dell’altro, tu guarda. Il motto è un’allusione a Goethe: “Hier bin ich Mensch, hier darf ich’s sein!” – Faust I, Vers 940
Nella versione Fortini: Qui sono uomo. Qui posso esserlo.
Sul DM, sulla catena di vendita dal volto umano, si stende l’ombra del padre delle lettere.
@Miku.
Beh, non fa (quasi) una piega. Se non compri non vivi, a meno che non fai il calciatore professionista- ché la Porsche te la recapita direttamente il concessionario gratis.
E poi c’è il riferimento a Goethe. Splendido.
I tedeschi sono sempre all’avanguardia anche quando vanno a pescare dal loro grande passato; nel bene e… nel male…
;-)
appartetutto, a parte tutto quello che si può dire a commento dei commenti (dei commenti) riportati qui sopra, interessanti et spesso penetranti, devo dire che la definizione di “NON LUOGO” (Augé) – nata per identificare metti una stazione di servizio, metti un terminal degli autobus, metti lo spazio residuale di uno svincolo stradale, vale a dire tutti quei luoghi non-significanti, dalla spazialità incerta e non-identitaria – si attaglia male ad un campo di permanenza temporanea, che non è affatto neutro.
D’accordo, Tash.
Non sono mai stato in un Cpt. Spero di non andarci. Sono contento di essere italiano perchè ho potuto festeggiare sentendomi Campione del Mondo, Re per una Notte. Per me tutto è incerto. La spazialità di questo condominio nel quale abito, quando sono ubriaco o fatto di Xanax, mi pare incerta. Ma sono cazzi miei, appunto. Sono un uomo fortunato, in definitiva. E grazie, rettificherò appena possibile, per i nipotini, sai:-)
non pretendevo rettifiche, franz, figuriamosci.
dicevo così, tanto per dire.
l’intuizione di Augé mi è molto cara, la trovo necessaria e decisiva in ogni procedimento di analisi della città contemporanea.
dell’ambiente contemporaneo.
del mondo contemporaneo.
i non luoghi sono tutto sommato amichevoli, disponibili, proprio in quanto neutrali, non voluti in quanto spazi (ma solo in quanto funzioni) e spesso non voluti e basta, cioè residuo di operazioni tese ad altro che alla produzione di spazio.
però mi accorgo che, se intendi i non luoghi anche come conseguenza di operazioni tese ad altro, come sfrido e scarto spaziale, allora li vedi riavvicinarsi anche ai Cpt che sono conseguenza spaziale di una politica, servono a porla in essere, ma non sono il fine di quella politica.
lo scopo della Bossi-Fini e con essa dei Cpt (come non luoghi-prodotto della legge) sta nella mente di noi cittadini, sta nel rassicurarci, di fronte a un fenomeno epocale che prima o poi ci travolgerà comunque.
@franz
@tash
@fabio
“enclave di un Far West legalizzato”
Cos’è un “non-luogo”? I lager erano ancora “luoghi”, unici e irripetibili, avevano mura solide, gas e cinghie per non farti scappare, lavoro e detenzione (come i manicomi o il carcere). Invece come funziona un non-luogo? Che significa in termini di coordinate spaziali? Se non è l’annullamento, cos’è? Lo spaesamento? La sospensione? Il varco?
Cosa mi unisce all’immigrato dei CPT? La permanenza temporanea. Non parlo in termini personali, esistenziali, contingenti, lo so che adesso sto scrivendo qui, al sicuro, in salotto. Faccio un discorso teorico generale e più astratto: che significa questa ‘sospensione’? Come cambia la nostra percezione della realtà? Qual è lo spazio d’azione delle nostre ‘democrazie imperfette’?
Sono “di passaggio”, in una casa che non è la mia, con tanti lavori da cambiare senza trovarne uno, nelle mani di un potere che ti sposta, qua e là, in altre case, su e giù, un’intensità fluttuante che può diventare sopruso fisico, repressione. E’ questo il non-luogo? Il soggetto senza dimensione che ha tutte le posizioni di partenza e nessuna di arrivo? (altri preferiscono ‘tornare a…’, ed è tutto un fioccare di ‘ritorni all’ordine’ e al disordine intellettuale).
Leggo molti commentatori che risponderebbero di sì, è Orwell, è Ballard, hai visto come sono progredite le camere a gas? Mi limito a sottolineare che questo nuovo spazio dal capitalismo transitorio, che si realizza proprio nella sua insicurezza e problematicità, anche nella sopraffazione, è nello stesso tempo uno spazio di opportunità (anche per Jihad), una scommessa e una scelta, come diceva Sartre.
Ben venga, quindi, la discussione con Rovelli e gli altri. Ma il discorso resta l’azione democratica che vogliamo intraprendere per trasformare i CPT da campi di transito in campi di accoglienza. Da un (non) luogo all’altro, nella speranza che gli ultimi siano meglio dei primi.
Il santone di “Kim” a questo punto avrebbe indicato la sua Ruota, scuotendo la testa divertito.
E’ un luogo di sospensione dell’identità, secondo me. Nella mia modesta recensione dovrebbe trapelare, questo concetto, Roberto.
@Franz
Rileggo un pezzo di Marco Rovelli uscito sul manifesto della settimana scorsa. “A Lamezia Terme, nel cpt ‘peggiore d’Italia’”. Mi aspetto il lager dei lager, e invece trovo l’eterno malgoverno del paesello, le storie di portafogli bianchi e rosei, gli inghippi e gli inguappi che facevano incazzare Salvemini. Quella “forma di assistenzialismo erogato sulla pelle dei migranti” che Rovelli inquadra così bene nel tandem Conte-Giovanardi.
L’azione democratica è composta da: 1) un ‘testo’, in questo caso l’inchiesta giornalistica (il lavoro itinerante di Rovelli); 2) un ‘gesto’ politico (la presenza del deputato Caruso); 3) una condivisibile battaglia per la legalità.
Pensate a quella leva di avvocati neolaureati, meridionali, con un futuro incerto, che se prendessero coscienza della grande battaglia civile che li aspetta forse non finirebbero a pelare 740 (in questo senso, la liberalizzazione voluta da Bersani credo che li aiuterebbe).
Non serve il Rapporto Pelican per immaginare che verminaio si scoperchierebbe se richiamassimo al lavoro queste forze inoccupate della nostra società. E perché no, quotidianamente.
L’articolo di Rovelli dimostra che è possibile: informazione + indagine = accoglienza. Serve una falange serrata di professionisti che combattono per i diritti civili (degli altri), giornalisti, medici, avvocati, assistenti sociali.
Per quanto riguarda la Bossi-Fini, io la penso così. Questo governo travicello di calciatori e pompinare ha le mani legate. Se dura, forse riuscirà a modificare o cancellare i dispositivi legislativi precedenti. Ma per caso qualcuno ha sentito parlare di voto agli immigrati, ultimamente? Io ricordo solo i distinguo del ministro Mastella.
Tornando alla scrittura di Rovelli, vorrei sottolineare che lo stile non è qualcosa di cui siamo per forza coscienti. Lo stile è fatto di parole e di cose che sono dentro, ma anche fuori di noi (le idée recues, per esempio). Come dire, la scrittura può tirarci brutti scherzi, deformare la nostra percezione (e la comprensione) di autori e lettori.
E’ come se, a un certo punto, dietro la denuncia di Rovelli giornalista, spuntasse una sorta di ‘pessimismo lirico’. Qualche parola, un paio di frasi, che però danno un tono complessivo di crisi, un po’ scoraggiante, e al limite catastrofico, alla narrazione e quindi alla rappresentazione della realtà. Una visione che non è indenne da certo irrazionalismo novecentesco italiano ed europeo (il reporter parla di “terra desolata”).
Mi riferisco in particolare all’immagine degli ulivi, che ha intorno a sé un alone spettrale, misero e violento. “La detenzione è mascherata tra gli ulivi, un cordone di silenzio…”.
Mi chiedo se questa inquadratura sia spontanea, dettata, cioè, da un’ispirazione ‘visiva’, fattuale, veristica, oppure sia frutto di una ‘logica ideologica’, per cui i cpt stanno ai lager come il centro di Lamezia Terme sta al “peggio del peggio”. E’ questa “la costruzione testuale” della realtà?
Rovelli non mi sembra il tipo del baro, lui va in cerca di racconti, è uno scrittore con le gambe lunghe. Ma non dobbiamo dimenticare che “l’informante” svolge sempre un lavoro imperfetto, lacunoso.
Lo scriba non potrà mai visitare l’intera biblioteca. E così, nel peggiore dei casi, il testo resta (volutamente) incompleto, spostandosi dal piano naturale, materiale, delle situazioni vissute, all’elaborazione creativa, poetica, che diventa un modo di puntellare stilisticamente le proprie tesi.
La denuncia prevale sull’analisi, il ‘qui e ora’, il ‘vogliamo tutto’, impediscono di guardare il resto della scena. Come mai tutti gli ‘ospiti’ del cpt sono immigrati con superproblemi? Non mi permetterei mai di ironizzare sulle storie di Rovelli, tanto drammatiche e assurde. Ma chi altro c’era a Lamezia, quel giorno?
“All’una qualcuno intona la preghiera dell’Islam”. Non riesco a intuire cosa si agita nel fondo limaccioso di questa frase. Un pericolo? Una speranza? Insomma, Rovelli è uno scrittore di “cose” o di “parole”?
Intervengo alla fine, non per chiosare, ma perché solo oggi ho l’agio per farlo.
Sono stimolato dall’ultimo intervento (non che sia l’unico di valore, tutta la discussione è stata di ottimo livello, critiche comprese), quello di Roberto in margine allo scritto uscito sul manifesto.
Roberto si chiede, in coda, se io sia scrittore di cose o di parole. Ora, io non credo sia dia cosa fuori dalla parola. La cosa è già parola, anche nella pura forma del “qualcosa”, del “questo qui”. Io guardo qualcosa, e ciò che vedo non è la cosa, ma la cosa-dello-sguardo, ed è questa che narro. Io che vedo ci sono,e “realismo” vuole che io dica la mia presenza, che esponga la forma del mio sguardo, la mia rappresentazione, e il modo in cui essa è investita, agita, trasformata da ciò che viene compreso nella sua esperienza.
Così, in merito all’immagine del cpt tra gli ulivi: il cpt di lamezia è davvero così, ma questo non è un dato bruto che solo dopo viene rivestito di senso. Il suo esser-così spazialmente significa qualcosa, e lo significa immediatamente. Dice una condizione di separatezza, di estraneità, dice di una visione sottratta.
Non direi che questo è simbolismo, non c’è un doppio livello di lettura: la duplicità sta nella cosa stessa, in virtù del suo essere immediatamente significato. Doppia è la scrittura, non la lettura. Ciò che dici “lirico”, allora, è proprio – per me – il modo per restituire questa originaria duplicità del reale. La maniera per presentificarla.
Questo risponde anche al presunto pessimismo: portare alla luce ciò che è nascosto è necessariamente un’operazione “”critica”: rivela/produce crisi. Fissare lo sguardo oltre la cortina di silenzio significa spezzare la cortina e rivelare/produrre conflitto (un conflitto che è appunto misconosciuto). Ciò che appare come pessimismo, allora, è un gesto di apertura.
(In ogni caso mi sono sempre riconosciuto nella frase gramsciana, Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà).
Infine, Roberto si chiede se sono tutti così. No, non sono tutti così. Data la limitatezza delle righe che mi erano concesse, ho dovuto fare una scelta, concentrandomi sul “tipo” (Dragan) che espone un’esperienza comune a molti lì dentro. poi ci sono altre figure, a cominciare dai molti ex-detenuti, e mi sarebbe piaciuto dirne, ma non ho potuto.
Il libro di Rovelli non l’ho letto, ho visto però che lo si avvicina a Saviano, anzi, Franz dice che il libro di Rovelli informa e quello di Saviano pure.
Ora, dovremmo forse metterci d’accordo su che cosa significa informazione, e anche qui il concetto si restringerà o si dilaterà a seconda di chi lo usa.
A mio parere l’informazione (c’è forse in questo un po’ di ingenuità, ma anche di desiderio) è quella cosa che mi mette a disposizione con dati precisi e verificabili, sia pure non con una bibliografia esaustiva, qualcosa che non so. E lo fa magari anche con uno scopo, quello di permettermi di modificare il mio pensiero con dati nuovi, di pensare in modo nuovo e migliore e possibilmente di far sì che questo nuovo modo di pensare si traduca in qualche modo, se non in azione, almeno in un “atteggiamento”, magari in una pratica virtuosa.
Ora, non so Rovelli, ma ho finalmente terminato la lettura del libro di Saviano. E sono arrivata alla conclusione che non informa. Il suo merito è un tono di urgenza, di coinvolgimento personale. Il suo difetto, ai miei occhi non piccolo, è un certo generico catastrofismo senza dati, anche se si capisce che lui, per scrivere il libro, li ha consultati. All’inizio, qualche post fa, mi ero associata all’invito a Bassolino di leggere Saviano – pur capendo dopo le prime cinquanta pagine che Bassolino quelle cose le sa lui pure, e non per nulla ha presentato il libro sulla camorra, se ho letto bene, di Isaia Sales.
Ho cambiato idea, le cose che Saviano dice non sono nuove, e certamente non sono nuove per i politici, i magistrati ecc. Il libro di Saviano causerà una fiammata di interesse per qualche tempo, e a meno che non venga tenuto in vita con altri premi o dibattiti dopo l’estate non se ne parlerà più.
Sono molto d’accordo con Tash (che ho imparato a prendere alla lettera, senza pensare mai che ci siano doppi fini, ironie o giochi retorici dietro le sue parole) quando dice:
“Mi sono fatto l’idea che nel contemporaneo stato anestetico di massa, tutto ciò che non ci tocca direttamente, che non ci coinvolge fisicamente, come si dice, in prima persona, ci intrattiene.”
E’ così, non c’è dubbio. Se qualcuno, dopo la lettura del libro di Saviano ha mutato il suo modo di operare mi piacerebbe saperlo, non credo che succederà.
Quanto a Rovelli come ho detto non avendo ancora letto il libro non so, anche se l’oggetto molto più delimitato, descrivibile e non mitizzabile come è mitizzabile la camorra, o la mafia, rende più probabile l’eventualità di un sostegno a un’azione poilitica.
@Temp.
Diciamoci la verità: quella frase di Tash che tu citi – cone tutta la stima che nutro per entrambi- è un po’ facile. Nel senso che lui puo’ fare di meglio. A un libro come quello di Saviano e di Rovelli si chiede un risveglio, non un intrattenimento. E non solo da libri come quelli, anche da libri di fiction, o da un Manganelli, per esempio: Manganelli riesce a intrattenere facendoti spesso divertire e pensare. Anche la migliore fiction fa questo. Io credo che la questione, in ultima analisi, sia soggettiva: l’ho scritto qui sopra con una certa irruenza e senza scegliere vocaboli raffinati, ma, se la maggior parte dei lettori con questi libri effettivamente s’intrattiene soltanto, c’è però chi s’informa, chi apre gli occhi; io di questo sono convinto. Gomorra (che ho appena iniziato a leggere) non è destinato a Bassolino, Lager Italiani non è destinato ai politici. Questi libri sono destinati a chi non puo’ fare niente. Già. A chi, come noi, puo’ soltanto votare tra due poli, più che opposti, frapposti tra loro.
@Franz
La frase di Tash a mio avviso è facile solo in apparenza.
Intanto è vera, nel senso che un libro come quello di Saviano (Rovelli, lo ripeto, non avendolo letto lo lascio fuori) è solo l’ennesimo libro sulla camorra e neppure il più documentato.
Qual’è il suo merito? Come ho detto il tono di urgenza. Ma andando avanti nella lettura si fa lentamente strada una certa insoddisfazione. E’ a questo punto che sono andata a vedere cosa c’era d’altro, e ho trovato ad esempio (cito sempre lui per comodità) Isaia Sales.
La Mondadori ha fatto bene a inserirlo nella collana Strade blu, cioè nella narrativa. Il libro di Saviano è un lugubre squillo di tromba e questo è senz’altro positivo, ma appunto, non essendo un’analisi, non essendo un reportage nel senso proprio del termine, non dando informazioni nuove se non a chi della camorra non si è interessato mai.
E qui viene a mio avviso il punto centrale della questione.
Chi non si è interessato mai come reagirà? Con una adesione emotiva seguita dal nulla. Ora, l’adesione emotiva seguita dal nulla è il meglio che ci dia l’enterteinment.
E non lo dico con disprezzo. Siamo pur vivi, sentiamo, patiamo, andiamo in caccio di emozioni e tra le emozioni c’è anche lo sdegno. Ma poi continuiamo a fare quello che facevamo prima perché difficilmente possiamo fare altro, a meno di non cambiare mestiere e di fare i magistrati, i politici, i missionari ecc.
Qualcosa mi dice che tutti i commentatori di Saviano e Rovelli continueranno a fare quello che facevano prima, avendo provato sdegno. Non c’è niente di male. Anzi, io sono per il restare vivi e anche per il restare svegli, ma un risveglio, scusami, Franz, è un’altra cosa, è un nuovo giorno.
Naturalmente preferirei essere smentita.
Vai comunque alla voce camorra su google, o anche alla voce “isais sales” camorra, vedrai.
Perché qui sembrerebbe che prima di Saviano non sia stato scritto nulla. E se invece è stato scritto e analizzato molto, come mai siamo al punto di prima? Perché ha ragione Tash.
Temp, ci vado su Google, ma io come ho terminato il mio intervento? Che questi libri sono destinati a chi non puo’ fare niente. A parte risvegliarsi (Temp, abbi pazienza, se ti fai un pennica alle 3 del pomeriggio e ti risvegli alle 5 sei sempre nello stesso giorno, no?:-)).
Ah vabbè, se frazioniamo il giorno in micropenniche ai nuovi nanogiorni non c’è fine, anche questo è anche vero.
Anzi, potrebbe essere un modo per illudersi di avere una vita eterna. Good idea:–)
Cmq, se ti interessa vai a vedere anche chi era e cosa ha fatto don Liborio Romano, tanto per dirne uno. Tutti sapevano anche allora, eppure siamo ancora qui a parlarne.
E questo non per dire che non vale la pena continuare a farlo, al contrario, ma per sapere senza illusioni dove si vive e conoscere realisticamente i limiti di quel che si fa.
“Or come salvare la città in mezzo a tanti elementi di disordini e d’imminenti pericoli ? Tra tutti gli espedienti che si offrivano alla mia mente agitata per la gravezza del caso, uno solo parvemi se non di certa almeno di probabile riescita e lo tentai. Pensai di prevenire le tristi opere dei camorristi offrendo ai più influenti capi un mezzo per riabilitarsi. Laonde, fatto venire in casa il più rinomato di essi, sotto le apparenze di commettergli il disbrigo di una mai privata faccenda lo accolsi alla buona e gli dissi che era venuto per esso e per i suoi amici il momento di riabilitarsi dalla falsa posizione in cui avevali sospinti non già la loro buona indole popolana, ma l’imprevidenza del governo il quale aveva chiuse tutte le vie all’operosità priva di capitali (…) Improvvisai allora una specie di guardia di pubblica sicurezza come meglio mi riuscì a raggranellarla tra la gente più fedele e devota ai nuovi principi ed all’ordine, frammischiai tra questo l’elemento camorrista in modo che anche volendolo non potea nuocere”.
Liborio Romano, Memorie politiche, Napoli, 1870, pagg. 19-20
E mi scusi Rovelli per questo gigantesco OT, i cpt sono un fenomeno nuovo, speriamo che tra un paio di secoli, visto come stanno andando le cose tra ricchi e poveri, non siano diventati anche loro un fenomeno cronico.
“La realtà è così abnorme, così – orrendamente – fantastica da rendere inutile o impossibile l’invenzione letteraria; la vera letteratura, nel nostro mondo, è sempre più quella che, come questo libro, si limita a ritrarre i fatti e a farli parlare nella loro terribile fantasmagoria, che può far apparire innocuo e scolastico ogni romanzo. Forse, oggi più che mai, il vero scrittore è quello che trscrive l’invivibilità del mondo e i suoi giganteschi meccanismi di smacheramento e illusionismo.”
Claudio Magris commenta così nell’introduzione del libro di Paolo Rumiz “Maschere per un massacro” e questa considerazione mi sembra appropriata anche per l’operazione di Marco Rovelli, che nel suo libro riscrive le testimonianze raccolte con intensità e partecipazione.
I lagher sono (in) noi.