Leggendo Sennett
Lettura di Richard Sennett, La cultura del nuovo capitalismo (Mulino, pp. 145, traduzione Carlo Sandrelli)
fatta da Antonio Donghi
Iniziamo con il chiarire che questa nuova cultura è limitata ad una ben definita fascia di popolazione dell’occidente ricco. Il problema – parliamo di problema perchè riteniamo che questo tipo di cultura sia un grave danno per tutti – è che anche chi da questa cultura non è direttamente toccato non può fare a meno di risentirne gli effetti. Nel nostro mondo, tutto è connesso.
Un breve cenno storico. Il capitalismo delle origini, quello delle fabbriche inglesi descritte da Marx o dell’officina dove lavora Charlie Chaplin era un capitalismo largamente inefficiente. Non c’era alcuna forma di controllo sul prodotto nè in termini qualitativi nè in termini quantitativi; non parliamo di bilanci pubblici: il 70% delle nuove imprese falliva in breve termine. Questo capitalismo non era prevedibile, era un incitamento alla rivoluzione, come il buon Marx intuì.
Ma i limiti di questo proto capitalismo erano palesi anche ai suoi sostenitori, che così provvedettero alla burocratizzazione della produzione. Questo avvenne con l’assunzione di regole militari per la gestione del ciclo lavorativo. In questo modo, subentrò una relativa stabilità sia per quanto riguardava il lavoro sia per quanto riguardava il profitto. Ma il capitalismo è un mostro che divora se stesso e così attorno agli anni ’70 si assistette ad un passaggio epocale. Il controllo delle aziende passò dalle mani dei manager a quelle degli azionisti.
Scopo degli azionisti è guadagnare (far fruttare i soldi, dicono) il più velocemente possibile. Qui si verifica lo scontro di due paradigmi. Occorre infatti del tempo per sviluppare competenze lavorative, fedeltà all’azienda e affidabilità nella produzione, mentre la new economy, il nuovo capitalismo, ha bisogno dell’opposto; poco tempo per imparare a fare le cose e facilità ad abbandonare un posto di lavoro (i lavoratori flessibili, poveretti).
Questa nuova economia è il paradigma vincente. Per assurdo però, applicato con modalità esasperate questo paradigma ha portato alla perdita della controllabilità dei processi. Ha cioè permesso al sistema una tale libertà di movimento che il controllo delle singole parti è sempre insufficiente per predire la direzione del tutto. A questa dimensione oggettiva, di funzionamento sociale, si interseca una dimensione più soggettiva, seppure con ben definite conseguenze a livello del comportamento; parliamo del problema del talento e lo spettro dell’inutilità, come recita il titolo del secondo capitolo del libro.
Se si è parte di una struttura che richiede velocità di cambiamento diventa difficile, per chi possiede un talento, svilupparlo. Il talento è infatti una capacità più o meno innata ma che deve essere sviluppata con l’applicazione – richiede tempo – e trovare un luogo stabile – non esiste un talento al lavoro flessibile – e condizioni favorevoli per essere esplicitata. Invece, le strutture produttive moderne, implicitamente disincentivano lo sviluppo dei talenti, preferendo spostare l’attenzione sulle potenzialità.
La potenzialità è un concetto psicologico mentre il talento è un concetto pragmatico. La potenzialità richiama alla colpa individuale – non hai le potenzialità – mentre il talento si basa, per essere giudicato, sulla produzione di oggetti che vengono valutati in base a ben definiti criteri. Inoltre, dato che le potenzialità sono sempre definite da chi giudica, il giudicato è sempre in balia di un’autorità più forte di lui, senza nessuna garanzia che questa autorità giudichi correttamente.
L’indebolimento delle masse di lavoratori che devono confrontarsi con questo idealtipo di lavoratore ottimale della new economy ha come conseguenza il loro diventare vittime del consumo. Il consumo diviene cioè la nuova, e forse unica, forma di libertà concessa alla molecola della macchina neo capitalista. Il consumo diviene l’unico momento in cui al singolo sembra di potere dotare di senso la propria esperienza, senso che non può più sviluppare con il lavoro flessibile, che non gli richiede un talento nè gli garantisce che fra sei mesi sarà ancora in quel posto; magari ci sarà, sì, ma con un’altra funzione.
Ecco il punto conclusivo e centrale dell’analisi di Sennett. Per ciascuno è necessario sviluppare una continuità biografica, poter raccontare la propria vita seguendo un filo, e sviluppare un senso di utilità dalle proprie azioni. La società non fornisce però più uno schema in cui inserire queste due necessità – continuità ed utilità – e quindi l’individuo si trova perso. Sarebbe necessario opporre alla cultura del nuovo capitalismo una cultura vecchia, di tipo artigianale, in cui ciascuno si impegni a sviluppare una propria abilità, un proprio talento. Per fare questo è opportuno riacquisire in proprio la gestione del tempo, rifiutando la spinta neocapitalista ad usarlo per consumare. Siamo indotti a credere che l’acquisto di qualcosa ci permetterà di dare un senso alla nostra esperienza. Ed invece, ci si trova sempre più privi di esperienza reale.
Io credo che sia necessario porre a priori l’assunto che non sia possibile conoscere tutto, provare tutto. Occorre scegliere di fare quello che sappiamo più utile per formare i nostri talenti, accettando che ciò significa rinunciare alle nostre potenzialità, che sono immateriali. Questa scelta ci pone in opposizione ad un intero sistema, perché “la nuova cultura esercita sugli individui un’enorme pressione affinché essi non si lascino sfuggire nulla” (p. 144)
Per chiudere questo lungo intervento, cito il pensiero di un dimenticato dissidente russo, Andrej Platonov, che in una sua splendida satira del regime stalinista diceva, citando Puskin, che “la comune breve vita umana è del tutto sufficiente per compiere qualunque opera pensabile o per godere pienamente di tutte le passioni. Chi non ne ha avuto il tempo non l’avrebbe avuto nemmeno se fosse stato immortale.”
Immortali in un centro commerciale?
Ammetto di aver avuto qualche difficoltà a capire che cosa dice Sennett e che cosa il suo lettore. Eppure non dovrei.
Però concordo su questa frase, chiunque ne sia il padre:
“Inoltre, dato che le potenzialità sono sempre definite da chi giudica, il giudicato è sempre in balia di un’autorità più forte di lui, senza nessuna garanzia che questa autorità giudichi correttamente.”
Sono perplesso dopo la lettura di questo pezzo e mi rimangono in mente due diverse impressioni: o il pezzo è stato estrapolato male e risulta incomprensibile mancando degli elementi di base per consentire al lettore di trarre qualunque considerazione, oppure Sennet, da bravo sociologo, ha perso qualche pezzo per strada. Rimane sempre l’ipotesi che la traduzione del testo non sia proprio felicissima. Vedo di spiegare i miei dubbi:
1) Sennet associa la new economy (ma di cosa sta parlando?) a “poco tempo per imparare a fare le cose”. Boh, a me pare che di tempo ne serva molto, persino troppo, per “fare le cose” della new economy: scuola superiore, cinque anni di università, corsi di specializzazione e poi ancora altro tempo per aggiornarsi.
2) Associa la new economy ai centri commerciali e al solito, trito e ritrito, discorso consumista. A questo punto mi perdo: vendere mi pare tutto fuorché new economy; consumare mi pare tutto fuorché new economy.
3) Per chiudere si imbastisce il discorso del filo che lega la propria continuità biografica. Fico! Ma qualcuno mi spiega cosa cavolo vuol dire?
Ok, ok, stamattina ho un sonno bestiale e sono più rincoglionito del solito; probabilmente la spiegazione ultima è solo questa, ma il dubbio mi rimane :-)
Buona giornata. Trespolo.
Io invece l’ho trovato abbastanza comprensibile, grazie dunque per l’indicazione, che ho potuto agevolemente ampliare tramite google :-)
Wovoka: beato te. Io continuo a non capirci nulla, e sono già le due del pomeriggio. Bah, andrò a farmi un altro caffè…
Buona giornata. Trespolo.
Immortali in un centro commerciale?
centri commerciali im-mor(t)ali per mortali. meglio.
paola
Ridare spazio al pensiero al di fuori delle richieste del mercato, al di fuori delle flessibilità richieste dal mondo dei lavori a progetto, al di là delle montagne di informazioni che riceviamo quotidianamente. Come ricetta per dar spazio al talento e alla propria espressione, direi che è interessante. Non riesco a capire il nesso di questa analisi con la critica al sistema dell’azionariato finanziario. Non esiste una correlazione tra capitale azionario e sua remunerazione e la velocità dei cambiamenti richiesti alle competenze e all’organizzazione aziendale. Una non implica l’altra.
x trespolo. Il tempo di cui parla Sennett è quello dei peones della globalizzazione. Tutti gli anni di studio dubito concorrano a formare la tua professionalità, se non per quanto serve a chi comanda. A pochi è riservato il destino di applicare in senso formativo quello che hanno imparato, anche perché quello che si impara ha spesso puro valure strumentale. Il discorso di Sennett è molto interessante ma richiede anche, per essere compreso appieno, la lettura dei precedenti libri suoi, in particolare Rispetto, sempre Mulino. In quel libro si discute del tema del talento e dell’implicito valore da attribuire alla differenza.
Per Maria Luisa. Se ho capito quello che tu non hai capito, la questione sta nel passaggio da un’economia che produce beni di consumo ad un’economia che produce reddito monetario. La prima si fonda sugli oggetti che produce e i dirigenti sono responsabili solo nei confronti della struttura. Nel secondo caso chi guida le aziende mira solo a produrre reddito senza considerare le ricadute sulla struttura. Se tagli venti posti di lavoro, a fine anno hai più reddito da redistribuire agli azionisti, anche se magari la fabbrica va in affanno. Questo non è un problema per i nuovi manager. Sennett spiega tutto molto meglio, comunque.
x Temperanza. Non credo ci si debba limitare al rispecchiamento di quello che si legge. Per questo, quando parlo di un libro che ho letto e m’è piaciuto, o anche no, ci sono anche le mie idee nel commento. Se riporto il pensiero dell’autore, è sempre tra virgolette.
Adesso scappo perché devo chiudere la libreria.
Antonio
@Antonio
Mah, resta il fatto (certamente per mia ignoranza, ma io in questo caso sono La Lettrice:-} ) che non sono riuscita a distinguere il tuo commento dalle idee di Sennett. Forse bisognava conoscere prima il pensiero di Sennett, ma allora perché conoscere il tuo? (sempre con e-smile)
Girava, (forse si trova anche in rete) un vecchio decalogo di Cases su come si fa una recensione, sarebbe interessante ritirarla fuori.
ma infatti, TEMP, questa non è una recensione… ma, come l’ho chiamata io, una lettura… ;-)
precisazioni non richieste:-)
paola
RECENSIONE «==» lat. RECENSIÒNEM da RÈCÈNSEO esamino, passo in rassegna, composto di RÈ addietro, di nuovo, e CENSEC stimo, apprezzo (v. Censo). Esame e raffronto di più scritture riguardo alla lezione o interpretazione con giudizio pin o meno aperto. Cfr. Recensire.
LEGGERE-LETTURA: 1 lire; cat. lle^ir; sp. lèggere prov. legir; fr. leer; pori. ler: dal lai. LÈGERE pari. pass. LÈO-TUS – [=== gr. LÈG-EIN ^he vale anche Scorrere, onde lògos dicorso, lexis parola}, che propr. significa 6 Leggibile; LeggiccMàre-iucchiàre; Leggw; Lettera; Lezione. Deriv. dalla stessa radice: Eleggere; Scegliere; Cogliere; Diligere; Legione; Eclettico; Egloga; Lessico; Dialettica; Filologo; Trilogia; Indi prese il senso di parlare, narrare, descrivere, enumerare quasi adunare i suoni, i numeri (da compararsi col? a. a. ted. rechenòn === lechenón. mod. rechnen computare accanto a rachjan, rechan dire, narrare). Rilevare, che è quanto Elegante; Negligere; Intelligibile; ^Religione; non che di fonte greca Prolegomeni; Dialetto; dire Raccogliere con rocchio da’caratteri scritti o stampati le parole; ed anche Pronunziarle, Recitarle (in leggendo); fig. Conoscere checchessia a5 contrassegni ; [p. es. v leggere nel volto il pensiero »]; ed anche Teologo; Orologio; Elogio; Logistica; Logica; Apologo; Apologià; Catalogo; Decalogo; Dialogo; Monologo; Prologo; Epilogo; Omologo; raccogliere, dalla rad. LAG == LE& adunare, ond^anche il ^o. lis-a raccolgo, il ^e«. lasz-it raccogliere == ^ lès-ti raccogliere (col becco), ed. lesen raccogliere e leggere (cfr. Legione, Insegnare dalla cattedra. Deriv. Leggènda; Legume).
anche i legumi.
@GB
ma una lettura vorrà farsi leggere da una lettrice? Forse no.
Anyway, rimando a:
http://www.lindice.com/manuale.htm
sempre utile:–)
A parte il concetto di talento, che non so bene come viene inteso nel saggio in questione, per me non c’è dubbio che esista un conflitto tra tempo e la qualità del fare.
Lo sperimento continuamente da anni.
La qualità che è diventata flessibile e riducibile, mentre il tempo sembra farsi comprimibile all’infinito.
Anche il tempo della formazione sarebbe essenziale, come la permanenza e la costruzione di un sistema di relazioni nell’habitat-lavoro, ma anche questo è negato.
invece a me il pezzo pare, mi scusi chi lo propone, un pochino superficiale (sennett a volte cade in questa sociologia un po’ alberoniana, anche se forse qui è chi presenta il testo a semplificare un po’ troppo).
Passare direttamente da un’analisi del postfordismo – il termine è molto più corretto di “neweconomy” usata dal recensore addirittura come sinonimo di “neocapitalismo” (?) – ai suoi riflessi psicologici è quanto di più scivoloso ci sia (problema che imo era già emerso ne L’uomo variabile, del resto).
Facile notare come, se la produzione flessibile richiede capacità di adattare competenze astratte (non tanto “potenzialità” che è termine psico-filosofico vago) a compiti sempre differenti con tempi di apprendimento ristretti, questo non frustra certo il talento più di quanto facesse la produzione di massa fordista: lì si poneva ugualmente (o non si poneva affatto, a una lettura diversa) il problema del controllo della biografia e dell’identità, e proprio lì il consumo poteva funzionava come palliativo. Semmai allora la differenza specifica postfordista va cercata altrove – forse addirittura nel contrario…
Ma una simile analisi presuppone che “identità” sia un termine assoluto, che esistano modi più naturali di altri di elaborarla, o che esistano esperienze più “reali” di altre (prima di avere una nozione chiara, filosoficamente parlando, di reale). Questione complessa.
Più interessante sarebbe invece considerare il mercato e lo stesso consumo come piani di soggettivazione (e non solo di controllo: una cosa non si dà mai senza l’altra), cioè considerare la complessità sociale come un intrecciarsi di piani e di spinte motivazionali e desideranti, non come un sistema duale in cui il monopoliio dell’azione starebbe all’impresa e quello della reazione al consumo (o al lavoro, per i più seri).
La nozione di talento, ugualmente vaga, intrattiene del resto un rapporto diretto con le figure dell’operaio professionale e specializzato delle origini (a sua volta vaga reminescenza dell’artigiano delle culture contadine) spazzato via dalla catena di montaggio del fordismo degli anni ’30, e riemergente in modalità sorprendenti e sostitutivo/identitarie nelle varie forme di cultura popolare e familiare del fai-da-te degli anni ’50 e ’60. L’hobby è, per il maschio inserito a vario modo nel ciclo industriale di quegli anni, il modo per conservare un’immagine di sé come “capace”, “abile” manipolatore di “materia”. Ma significativamente proprio quella cultura popolare svapora nell’interesse collettivo nel momento in cui il centro della produzione nelle economie ricche – e nei punti alti di esse – diventa la manipolazione diretta di simboli/realtà (una forma di autoreferenzialità della produzione per la quale un analista spregiudicato potrebbe trovare non poche analogie con le coeve culture postmoderne).
Interessante infine sarebbe capire come la nozione di talento erediti anche una parte di tradizione aristocratica dell’azione artistica come azione libera, e si riproponga oggi sia in una versione kitsch che in una “auto-prodotta”.
I tre ultimi paragrafi del commento di @B.Georg, mercato e consumo come piani di interazione del soggetto, (se ho capito bene), l’hobby come garante della identità di homo faber del maschio e il residuo della tradizione aristocratica nell’azione artistica mi interessano davvero molto.
C’è perfino troppa carne al fuoco, ma è tutta carne interessante, da cui avrei parecchio da imparare, se B.georg volesse approfondire.
> .. e si riproponga oggi sia in una versione kitsch che in una “auto-prodotta”.
Intervento interessante, potresti sviluppare un po’ di più quest’ultimo punto?
l’azione artistica, obbietto, è stata scarsamente considerata dalla mente aristocratica, in quanto “forma di lavoro” che pre-supponeva una committenza.
ricordo che l’auto-committenza è fenomeno (e maledizione) dell’arte recente.
la libertà aristocratica è libertà dal lavoro.
l’arte è attività dei subalterni.
talvolta diventa hobby aristocratico nell’ottocento, ma di rado.
si preferisce intendersene, collezionarla.
off topic, certo.
Devo ammettere che parte dell’attrattività di Sennett (a giudicare dai materiali accessibili in rete – nei suoi libri vedremo) sta forse proprio in una sua certa “alberonità”. Ci si immedesima – e forse un po’ ci si consola – facilmente nel suo modo di vedere le cose, che pare fondarsi su quel “senso comune” che ci fa illudere di essere realmente dei soggetti, di possedere un “io” autobiografico alquanto elastico e connesso, a parte i sogni o qualche occasionale esperienza. Certo che sbriciolando il soggetto fra le torsioni e gli smottamenti di astratti piani “soggettivanti” (mi chiedo perché poi queste eteree entità dovrebbero presentare una tale arbitraria “geometria”) quest’illusione di comprensione, e di consolazione, evapora velocemente, in favore di un omaggio alla “complessità” che è anche un tantino paralizzante, che sembra neutralizzare la critica riconducendola nel recinto chiuso dei giochi autonomi ed esclusivi dei professionisti. Così anche mercato e consumo vengono salvati dal moraleggiamento kitsch dei perdenti, ed il talento dei maneggioni simbolici – comunque esso si eserciti nel vano cozzo di macchine desideranti – sembra andare esattamente a coincidere con l’arte postmoderna: un’attività totalmente astratta e totalmente sociale, in opposizione ad ogni arcaico “essenzialismo”, ad ogni ingenua credenza nell’anima individuale e nelle sue profondità.
@tash
Sade, Mme de Stael, De Sévigné, Tolstoy, ti cito i primi nobili che mi vengono in mente. E neppure Kafka aveva committente, né Rimbaud, né George, né Leopardi, né Manzoni eccetera.
Certo, se parli solo di arte figurativa son d’accordo.
@Wowo
Certo, in qualche modo Sennett è un uomo semplice. Lo so perché circa trent’anni fa gli ho fatto passare il singhiozzo. OFF OFF OFF Brodway!
E tra l’altro era molto diverso dalla foto: aveva i capelli.
pensavo all’arte figurativa, in effetti.
per me quella è l’arte.
l’intervento di Antonio Donghi mi è sembrato chiaro e tutti i punti che ha tratto da Sennett cruciali, anche se presentati in forma estremamente sintetica. Ho fatto invece fatica a seguire la maggior parte dei commenti, che ho trovato a volte capziosi. Sarà un’impressione. Oppure sono io eccessivamente sempliciotto. Ma mi sembra che davanti a noi, anzi NELLE nostre vite abbiamo a che fare con un mostro aleatorio e spietato e ingannevole (l’odierno capitalismo), e che noi si stia a fare i gran difficili e gli ultra esigenti sui modi di descriverlo, definirlo, ecc., mentre lui divora travolgente le nostre vite
a rileggerli, forse, più che capziosi certi commenti moltiplicano eccessivamente gli spunti (penso alle osservazioni di bgeorg, ad esempio, o di wowoka) perdendo pero’ di chiarezza
… e comunque “L’alberonità” credo sia una tara congenita della sociologia tutta, in fondo.
anche bauman è alberonico?
@andrea: concordo sul rischio di dispersione (e non posso nemmeno escludere, per quanto mi riguarda, la capziosità, dato che di norma non so esattamente dove sto andando a parare). Ma d’altra parte la ricchezza e imprevedibilità degli spunti è uno dei pregi principali dell’intera faccenda. L’articolo di Donghi mi ha indotto ad ordinare un po’ di libri di Sennett, che vanno ad affiancare Saviano e Rovelli già nel “carrello” telematico. Poi l’interessante commento di B.Georg mi ha indotto ad un passo ulteriore, in quanto mi è parso di scorgervi una “tipicità” interessante. Non so bene se quel paio di torsioni che mi hanno consentito di chiudere il cerchio argomentativo sono sufficienti, se verranno capite, di certo la brevità (che forse pago in incomprensibilità) deriva anche dalla mia preoccupazione di non saturare eccessivamente con le mie fumosità questo interessante angolo di semiosfera.
@andrea
“NELLE nostre vite abbiamo a che fare con un mostro aleatorio e spietato e ingannevole (l’odierno capitalismo), e che noi si stia a fare i gran difficili e gli ultra esigenti sui modi di descriverlo, definirlo, ecc., mentre lui divora travolgente le nostre vite”
andrea, senza alcun intento polemico (ci conosciamo e ti ammiro molto per altre cose che scrivi), ma vorresti dire che non è importante darne una descrizione corretta ma ne basta una suggestiva?
:)
La chiarezza non è nemica delle articolazioni, ma le esige.
Accetto però senz’altro la critica di scarsa chiarezza del mio commento precedente: ho fatto troppa sintesi tra troppe cose in un commento. Tuttavia che la posizione di sennett sul rapporto tra postfordismo, consumo e talento qui riportata sia superficiale a me pare la sola cosa chiara – semmai la sua analisi, pur non essendo per nulla originale (“compriamo per riempire i vuoti esistenziali”: lo dice anche Crepet in TV, scommetto), si applica al fordismo, come ho confusamente cercato di dire, cioè proprio al piano su cui non siamo.
E assumere la continuità biografica come una necessità presupposta, introducendo addirittura tematiche scivolosissime come la percezione del senso della propria vita in quanto storia, o l’identità in quanto somma di esperienze “reali” (e si presume più “vere” o autentiche di altre), o riesumare il concetto di “potenzialità” (quando invece si tratta di competenze) vuol dire ricorrere ad argomentazioni metafisiche di vecchia scuola che un sociologo dovrebbe astenersi dall’usare: chi è qui che mette troppa carne e confusamente al fuoco?
ammetterai infine che questo è un argomento criticabile: se avete dubbi su sennett o sulla sua presentazione del neocapitalismo niueconomi (sic) è perché fate i difficili. Io ad esempio penso che l’idea del “mostro che divora le nostre vite” sia buona per tutti gli usi e quindi inutile se non dannosa per analizzare il postfordismo.
E penso anche, in generale, che confondere delle visioni simil-dickiane con la sociologia sia un grave errore, anche se la retorica duale del cattivo forte contro il debole buono è indubbiamente consolante, ma non descrive imo questa fase.
@ gianni
Ti assicuro che esistono sociologi ed economisti seri, che si occupano di elementi quantitativi e non fanno solo psicologia sociale mascherata sulla base di pseudo-intuizioni (a costoro sono senz’altro preferibili i filosofi veri, che se non altro hanno alcune regole di coerenza da rispettare). L’idea che sociologia=alberoni è imo sbagliata.
massì, b.georg, lo so, lo so… è che io ho sempre un po’ di pregiudizio quando leggo un sociologo. Fin dai tempi dell’università. Poi lo leggo e dico: be’, su, dai, in fondo… ;-)
b.georg, hai ragione, infatti dopo aver scritto quel commento, mi sono reso conto che le mie conclusioni erano discutibili, come tu hai evidenziato; il problema è che non conosco il libro di Sennett.
D’altra parte, ogni analisi critica globale del capitalismo mi sembra solo benvenuta, ancorché debole, perché è dalla dialettica tra le analisi critiche che puo’ nascere un più vasto e diffuso pensiero critico;
sulla questione colpa/potenzialità/interiorità e talento/verificabilità/esteriorità, a me sembra un punto molto interessante, anche se non saprei analizzare in una prospettiva evolutiva, come hai abbozzato tu (altrettanto interessante);
insomma, a me ha suscitato curiosità; ma ritratto le mie impressioni negative sui vostri commenti…
@temp
com’è la storia del singhiozzo? Qualche particolare in più, suvvia!
@Wowo
Solo a un accademico americano sempliciotto, fiducioso e ingenuo può passare il singhiozzo col famoso metodo europeo che consiste nel distrarre il paziente facendogli credere che deve fare una cosa molto complicata e difficile, misteriosa e risolutiva, per esempio piegare un fazzolettino di carta secondo un modello di perfezione giapponese.
Nessuno di noi cinici meridionali, neppure un carnico, ci cadrebbe;–)
Io sono incantata dai nordici, li guardo a bocca aperta, ma preferisco la mente dei latini.
Sono pregiudizi, lo so.
Il punto non sta tanto nell’attuale frustrazione del talento quanto nella spinta irrazionale verso una forma di vita che non richiede che il talento sia sviluppato. La mancanza d’una pressione per l’espressione del talento è propria di questa fase storica (postfordismo o new economy, è solo una questione di termini. Credo che sia reale lo spostamento dalla produzione al consumo come dimensione che definisce l’esistente sociale, e pertanto mi pare più calzante new economy) in cui la principale forma di risposta alla questione della continuità biografica sta nel consumo di oggetti, senza che questo fatto lasci aperta la porta alla possibilità che la propria identità venga costruita rifiutando il consumo. Il consumo può essere visto come piano di soggettivazione solo a patto che il soggetto abbia già iniziato a costituirsi; questa è dialettica. Come osserva giustamente B.Georg, io, e credo anche Sennett (che non definirei alberoniano, mi pare gratuito), sono convinto che “esistano modi più naturali di altri per elaborare l’identità e che esistano esperienze più reali di altre.” E’ effettivamente una ‘questione complessa’, forse nemmeno risolvibile, a meno di una presa di posizione a priori. Tutto questo rimanda al dibattito sul relativismo. Segnalo a proposito l’ultimo libro di Aime, Gli specchi di Gulliver (Bollati), da leggersi in accoppiata al magnifico Contro il relativismo di Jervis (Laterza). Magari ne parleremo, se Gianni Biondillo (concordo con la sua ultima osservazione) troverà interessanti le mie prossime segnalazioni.
“Il punto non sta tanto nell’attuale frustrazione del talento quanto nella spinta irrazionale verso una forma di vita che non richiede che il talento sia sviluppato”
Ma sarà vero? Voglio dire sarà vero nella pratica, più vero che un tempo?
A parte il fatto che non esiste una monade sociale, ma che le società interagiscono.
Non so, non è che stiamo cambiando solo terminologia, mentre la condizione umana rimane sempre la stessa?
E poi, per chi vale, tutto questo? Per quali società, per quali classi sociali, o ceti o gruppi?
Ho l’impressione che vediamo sempre e solo le punte, le nuove tendenze, come se tutto ciò che galleggia sotto la linea del mutamento, che è la parte maggiore, non sia più in gioco.
Non venga più visto.
intanto seguita a mancare una definizione qualsiasi di “talento”.
Beh, una predisposizione particolare a far qualcosa, no?
A me pare che vada definito anche il concetto di potenzialità, mi sembra molto strano dire che se non hai le potenzialità la colpa è tua. Tutt’al più avrai la colpa di non saperle sfruttare, come per il talento.
Non so, c’è una grande autoreferenzialità accademica, in questi discorsi, eppure dovrebbero avere anche una finalità pragmatica, non si tratta di teoretica, si tratta di sociologia.
O ci accontentiamo della descrizione?
“Per ciascuno è necessario sviluppare una continuità biografica, poter raccontare la propria vita seguendo un filo, e sviluppare un senso di utilità dalle proprie azioni.” così pare dica Sennett.
A parte che sono curiosa della capacità di racconto del maschio medio, ma la new economy lo impedisce solo se la persona è tutta e solo iscritta nel lavoro; se cioè prevede una società prevalentemente maschile e laica. Nonché occidentale. Siete sicuri che le cose vadano così per tutti i sei miliardi o quanti siamo? Cioè, ne è sicuro Sennett? O di una cosa del genere si può essere sicuri solo dalla postazione di un’università americana? O anche solo dalla postazione di un’università?
per la chiarezza terminologica:
– niueconomi è un termine giornalistico che indica il commercio in internet e le attività collegate.
– “spostamento dalla produzione al consumo come dimensione che definisce l’esistente sociale” è vero quanto il suo contrario: c’è un ricco filone di ricerca che indica invece come nelle economie postfordiste, in cui il linguaggio è direttamente forza produttiva, tempo di lavoro e tempo di vita siano reciprocamente sfondati. Quindi il problema non è spostarsi dalla produzione al consumo in un’ottica ancora vagamente francofortese, ma che tutto è produzione e la produzione intercetta qualsiasi forma di vita. Da questo punto di vista la biografia è irricostruibile non perché vuota, ma perché troppo piena o meglio perché “deriva” in tutte le direzioni, prolifera.
Quel modo di considerare il consumo come un’ambito di “inautenticità” è un lascito che impedisce di cogliere che soggettivazione e controllo, cura e tecnologie del sé non stanno in ambiti separati, amico e nemico sono nella stessa persona, non c’è alcun fuori nostalgico (né c’è mai stato, questo oggi semplicemente si mostra).
Che il “neocapitalismo” frustri il talento – e ciò sia la sua cifra distintiva – non capisco letteralmente cosa voglia dire, a meno che non si intenda semplicemente riferirsi a un rimpianto del tempo delle “abilità pratiche professionali”, lascito del primo capitalismo, o di altri precedenti. Davvero si pensa che l’operaio professionale che produceva il suo pezzo in officine protocapitalistiche, o quello successivo che si limitava a svolgerne una parte al passaggio sulla catena, fossero in una situazione che richiedeva lo sviluppo di un talento? (per non parlare di contadini o artigiani assegnati per linea familiare a un mestiere).
@B.Georg
Son d’accordo. Anch’io pensavo all’operaio chapliniano e alla sua capacità di racconto con una certa perplessità.
Non ho letto il libro e quindi ne parlo solo per quanto ho letto fin qui, ma non mi pare che quanto affermato da Sennet o da chi lo ha commentato siano disquisizioni accademiche senza alcun nesso pratico con la realtà che stiamo vivendo. Senza la pretesa che nessuna analisi possa essere così onnicomprensiva o illuminante da risultare incriticabile o in qualche modo parziale, concordo con andrea inglese che solo integrando diverse letture si possa avere un quadro e alcuni degli spunti proposti mi sembrano apprezzabili. Certo che si tratta di un’analisi parziale che interessa prevalentemente la vita dei paesi ricchi e occidentali, quelli appunto dove il capitalismo è la cultura dominante, ma è di questo che si sta parlando. Se ho ben capito la distinzione tra talento (qualcosa che si è portati a fare per abilità e attitudini personali), potenzialità (la possibilità di imparare qualcosa, “potenzialmente” tutto) e competenze (intese come abilità, capacità che abbiamo acquisito facendo, imparando, organizzando delle conoscenze intorno a qualcosa), allora mi pare che il discorso si faccia estremamente pratico e concreto. Che la società attuale non ti spinga a scoprire e sviluppare i tuoi talenti, ma ti chieda di “adattarti” alle esigenze temporanee del mercato del lavoro, mi pare una situazione evidente e drammaticamente presente nella vita di molte persone che conosco. Che la precarietà sia tale che il lavoro venga offerto sulla base delle potenzialità che uno possiede (sul fatto che possa e debba imparare cose nuove – sempre nuove – con rapidità e efficienza) piuttosto che sulla valorizzazione delle competenze (cioè di quello che uno ha imparato a fare in altre occasioni) per non parlare poi del talento (la possibilità di esprimerlo è privilegio di pochi) mi pare altrettanto vero. Che la possibilità di costruire una parte importante della propria identità passi dalla vita lavorativa mi sembra ancora esperienza comune: e che spesso, in questa economia, uno non abbia letteralmente “il tempo” di costruirsi una identità che è anche professionale perché ciò che impara non è valorizzato in competenze, non è orientato alla crescita del talento, ma “serve” temporaneamente a un mercato che rapidamente ti toglie quello che ti ha dato e ti chiede velocemente di imparare a fare altro, di esprimere altre tue potenzialità…. e magari te la fanno passare come formazione permanente…
A questo punto l’esperienza più significativa della nostra identità non è più il lavoro, troppo discontinuo, cangiante, impervio (peraltro sempre più slegato dalla produzione di cose materiali di utilità concreta, sempre più simbolico o di intermediazione all’interno di processi complessi di cui si può intuire una utilità -?- astratta); rischia di diventarlo il consumo, ossia quello che ci costruiamo intorno spendendo quello che abbiamo faticosamente guadagnato: il posto dove viviamo, i nostri suppellettili, il tempo libero, le cose di cui ci circondiamo e che “scegliamo” (?) ci definiscono meglio di quello che facciamo.
Non mi sembrano cose così astratte, anche se certo non saranno nell’esperienza di tutti e nella realtà sono molto più dialettiche di come appaiono da una descrizione che deve per forza isolare degli elementi … Per fortuna si può anche sfuggire ai mostri divoranti, inserirsi nelle crepe dei sistemi, attuare forme di resistenza… “Occorre scegliere di fare quello che sappiamo più utile per formare i nostri talenti, accettando che ciò significa rinunciare alle nostre potenzialità, che sono immateriali. Questa scelta ci pone in opposizione ad un intero sistema, perché “la nuova cultura esercita sugli individui un’enorme pressione affinché essi non si lascino sfuggire nulla” (p. 144)…
E dunque, Temp, un operaio chapliniano, che sicuramente non sarebbe in grado di scrivere un’autobiografia letterariamente decente, non sarebbe, per questo motivo, neppure in grado di pensarla? Io ho parlato con molte persone che non avevano neppure la quinta elementare, che non sono mai riuscite ad affrancarsi da lavori assolutamente alienanti ed usuranti, e che tuttavia erano in grado di raccontare, con pur con ridondanze e senza stile alcuno, la propria vita, attraverso sequenze di immagini, ricordi e ragionamenti assolutamente coerenti e sovente affascinanti. Ciò che mancava loro era semplicemente un “ghost writer”, non certo la coscienza di sé come soggetti. Credo sia futile attaccare Sennett su questo punto facendo leva sulle più aggiornate mode intellettuali. Credo che il comune retaggio antropologico sia molto più spesso di quello che si vuol concedere entro i giochi autonomi dei poeti e degli intellettuali, che condannano volentieri alla bestialità. B.Georg risponde benissimo, lo devo ammettere, ma principalmente alle proprie domande.
“Che la società attuale non ti spinga a scoprire e sviluppare i tuoi talenti, ma ti chieda di “adattarti” alle esigenze temporanee del mercato del lavoro, mi pare una situazione evidente”
sì, ma perché l’analisi dica qualcosa occorrerebbe mostrare una società qualsivoglia nella storia umana in cui questo non sia ugualmente vero. Diversamente, questa non è un’analisi del tempo presente
paradossalmente, ci sono vagonate di letteratura industriale (sia scientifica che elogiativa e sviolinante, ma ben motivata a descrivere i propri interessi) che sostengono che mai come ora le competenze individuali debbano essere valorizzate, dato che né la produzione né il consumo sono più “di massa” (è ormai quasi un luogo comune: non importa che tu abbia imparato a svolgere meccanicamente una sequenza di azioni in un campo settoriale, ma che tu sia in grado di analizzare situazioni nuove e dare risposte sensate. Per far ciò non servono meno, ma più capacità astratte – altrimenti dette intelligenza. Se questo non è abbastanza “talentuoso” forse il termine talento andrebbe un po’ rivisto)
E persino dal lato opposto dell’analisi (nell’ultrasinistra) c’è chi sostiene che il carattere specifico delle forme di lavoro di controllo tipicamente postfordiste può essere definito mutuando la categoria di “virtuosismo”. (cfr su google: chiave virno+virtuosismo)
caro wovoka, dici: “E dunque, Temp, un operaio chapliniano, che sicuramente non sarebbe in grado di scrivere un’autobiografia letterariamente decente, non sarebbe, per questo motivo, neppure in grado di pensarla?”
certo che no, poteva eccome. Ma questo conferma che il discorso del post è superficiale:
– L’operaio chapliniano poteva sviluppare il proprio talento più di quello contemporaneo? Direi proprio di no.
– Aveva tuttavia la percezione di una continuità biografica ed era in grado di raccontarla? Spesso sì (ciò anche legato al fatto che la produzione di massa favoriva la solidarietà operaia e forniva materiale per l’autonarrazione).
– Consumava? Certo, la società fordista era costruita sull’espansione tendenziale dei consumi. Gli italiani “massificati” degli anni 50-70 sono anche i primi che possono permettersi i frigoriferi, le lavatrici, che sollevano le donne dal lavoro domestico, e l’automobile, che permette la mobilità. (Non capire che il consumo ha due lati – controllo, ma anche espansione della soggettività – vuol dire fare facile moralismo, non capire che “libertà” non è mai un termine neutro).
Ergo, per i nostri fini: percezione della continuità biografica e sviluppo del talento non sono necessariamente in rapporto; inoltre vivere in una società di consumo non è controfattuali rispetto alla percezione di una continuità biografica.
ho risposto a qualcuna delle tue domande? :)
@ Wowo
Sembra che tu mi accusi di negare a chi ha fatto la quinta elementare la possibilità di racconto, come se io praticassi una specie di elitarismo culturale.
Per nulla, cerco solo le contraddizioni del discorso che si sta facendo qui, comprese le mie.
La categoria letteraria non c’entra, i capaci di raccontare sono scarsissimi anche e forse soprattutto tra i letterati.
Mi sembrava che dal discorso emergesse una “nuova” impossibilità di raccontare il sé, dovuta alla new economy. Da questo punto di vista trovavo che l’operaio chapliniano non fosse meglio messo. Che poi il singolo soggetto ne sia in grado, è ovvio. Meglio ancora all’interno di un discorso di classe, nel senso che una cultura di classe offriva un “discorso” capace di supportare la narrazione e trasmettere il senso dell’esperienza e della storia.
Ma dire che questo adesso è impossibile mi pare strano, anche perché sono fenomeni così recenti che non lo sappiamo ancora. Sennett ha fatto lavoro sul campo? Ne dubito.
E per favore, non attribuirmi intenzioni e posizioni che non ho:–) altrimenti devo continuare a tornare indietro a mettere i puntini sulle i.
@B. Georg
Il tuo modo di ragionare mi convince.
@Wowo
Ah, io non seguo mode intellettuali, cerco di pensare con la mia testa, segnalami la moda intellettuale, così la spazziamo criticamente via:–)
@temp
sì, un po’ di elitarismo mi era sembrato di scorgerlo, ma non personalizzavo, soprattutto per quanto riguarda le “mode intellettuali” (in maniera altrettanto astratta va considerato quanto dico qua sotto.)
@b.georg
Si, un po’ sì, però ho l’impressione che si potrebbe portare il discorso un poco verso terra . Perché ci interessa tanto del talento, in relazione al lavoro e alla società dei consumi? Forse perché con questo concetto sembra possibile “giustificare” la nostra posizione di privilegio, o l’aspirazione alla stessa, nella distribuizione complessiva dei compiti? Perché, almeno in questo contesto anonimo, non dichiariamo apertamente quel cinismo che pure dobbiamo mettere in pratica soltanto per essere qui a perdere tempo con queste faccende invece che a “lavorare”? Perché non mostrarsi dichiaratamente “darwiniani”, perché nascondersi dietro antiquate mistiche della vocazione, della “chiamata”? A questo è facile rispondere con quel paradossale “interesse nel disinteresse” che Bourdieu mette alla base della costituzione del campo artistico. Ma il fatto è che per prima cosa dobbiamo sfuggire al cantiere, al call-center, alla pila di pratiche eccetera, e per far questo dobbiamo avvalerci di tutti gli strumenti e trucchi che ci mette a disposizione quella stessa società che andremo poi a criticare dalle fondamenta: dalla strutturazione delle rendite simboliche – inviolabile quando ci fa comodo, anche quando conosciamo benissimo l’estensione dell’abuso che in esse si perpetua – fino allo smaltimento dei rifiuti, che non smettiamo di produrre anche se ecologisti ed antiamericani. Ma ritornando al talento: dire che Sennett ha torto a delineare come una specie di diritto universale (antropologico) quella sorta di lento e piacevole allenamento che costituisce il “lavoro” di quegli artisti e intellettuali che riescono – in qualche modo – ad elevarsi sulle urgenze che attanagliano e bloccano lo sviluppo dei più, suggerire che il “talento” si eserciti “ugualmente” nella capacità di rispondere a sollecitazioni nevrotiche (perché al servizio di interessi e vincoli “esterni” – della propria azienda e della società nel suo complesso – e non delle dinamiche interne) anche rinunciando all’arcaica soddisfazione artigiana nelle cose “ben fatte”, mi sembra soltanto una sorta di complicato “richiamo all’ordine”.
L’importante non è che tu non “personalizzi”, ma che tu non attribuisca alle parole un valore e un segno che non hanno. Altrimenti la babele naturale diventerà una babele all’ennesima potenza, non credi?
caro wovoka, scusami se provo a discutere il tuo testo un po’ alla volta
dici: “Perché ci interessa tanto il talento?”
ci interessa?
dici: “Forse perché con questo concetto sembra possibile “giustificare” la nostra posizione di privilegio, o l’aspirazione alla stessa”
immagino che tu ti riferisca alle professioni intellettuali.
Non saprei, io mi ritengo lavoratore e non capisco perché dovrei sentirmi in colpa perché manipolo parole invece che manufatti: la cultura non è più – né mai lo è stato – un “fuori”, un mondo sottratto alla produzione, libero e bello. Non c’è alcun fuori, alcun altrove che funzioni come modello.
Il mio lavoro – giornalista, ahime di non alto livello – si svolge dentro industrie culturali, e se lo guardiamo bene è un lavoro di operaio intellettuale sottoposto a procedure industriali (non “creo” certo in base “all’ispirazione”: esercito competenze astratte cercando risposte più o meno meccaniche a problemi diversi, non diversamente di quando da ragazzo correggevo bozze a cottimo e da chi sta al call center).
È sensato, se lo credo, che io mi dia da fare per costruire una società delle opportunità, dove sia dato a tutti un uguale livello di partenza – dove ci sia cioè mobilità sociale; si chiama fare politica. Meno sensato invece che versi lacrime di coccodrillo sulle mie condizioni di lavoro (che sono peraltro frutto di conquiste), immaginando utopie utili a non fare niente.
Ricomporre la divisione del lavoro, mi pare uno di questi compiti utopici e improbabili.
dici: “Perché, almeno in questo contesto anonimo, non dichiariamo apertamente quel cinismo che pure dobbiamo mettere in pratica soltanto per essere qui a perdere tempo con queste faccende invece che a “lavorare”?”
Se ho capito: pensi che stare qui a discutere – cioè l’esercizio delle tue competenze intellettuali, ammesso che si possa dire tale parlare con me :-) – sia separato dal ciclo della produzione? Il linguaggio oggi È forza produttiva (la principale: produzione di significati a mezzo di merci – produzione come manipolazione di simboli – e questo non solo nei servizi ma nel manifatturiero stesso, dove le procedure non sono più chapliniane!).
In quanto agente di questa produzione collettiva – cooperazione sociale – ciò che impari nel tempo libero o di lavoro è immediatamente utilizzato dentro la produzione. Il tempo libero peraltro è fuori dal salario, ma per niente fuori dalla valorizzazione.
Nè si capisce come una tua maggiore ignoranza o un ruolo più secondario o più sfruttato potrebbe aiutare qualcuno.
Mi pare in sintesi che confondi le condizioni di lavoro più o meno buone col contenuto del lavoro. Quando correggevo bozze ero parecchio sfruttato, e tuttavia ero iperalfabetizzato (e chi sta al call center di certo non ha la terza media, dato che saper parlare in modo decente e saper capire le richieste è la prima qualità necessaria)
dici: “diritto universale (antropologico) a quella sorta di lento e piacevole allenamento che costituisce il “lavoro” di quegli artisti e intellettuali che riescono ad elevarsi sulle urgenze che attanagliano e bloccano lo sviluppo dei più,” (…) “suggerire che il “talento” si eserciti “ugualmente” nella capacità di rispondere a sollecitazioni nevrotiche (perché al servizio di interessi e vincoli “esterni” – della propria azienda e della società nel suo complesso – e non delle dinamiche interne) anche rinunciando all’arcaica soddisfazione artigiana nelle cose “ben fatte”, mi sembra soltanto una sorta di complicato “richiamo all’ordine”.
ora (ora?) straparlerò un po’ abbi pazienza:
io credo che pensare che ci siano sollecitazione interne desiderabili, ab-solute, nobili, belle, vere, e sollecitazioni esterne indesiderabili, brute, indotte, sociali ecc significa riprodurre uno schema di comportamenti che è alla base dell’impossibilità dei più di accedere a quelle “interne”, e della frustrazione del meno, i “privilegiati”, nel viversi come separati dalla propria stessa carne, per principio “esterna” (l’ideologia pseudo esistenzial-romantica della separazione cultura-vita, ideologia e pratica della separazione tra lav. manuale e intellettuale che naufraga con la sussunzione del linguaggio nella produzione e la fine del ruolo separato dell’intellettuale).
Non c’è alcun interno e alcun esterno, l’interno è fin dall’inizio estroflesso, l’interno è invaginato e ripiegato e si mangia l’esterno. Il controllo è ovunque (specialmente dentro), la soggettivazione è ovunque (specialmente fuori).
L’espansione di sé non si ottiene per separazione dal non sé, ma per torsione del campo di immanenza, del qui e ora che c’è.
Lo stesso fatto artistico va letto come una di queste torsioni (piegatura di piegature).
Infatti l’autocomprensione dell’artista come separato dalla ri-produzione economica della società è un residuo del tutto inefficiente. Può riemergere come arcaismo a funzione identitaria (in parte questa è la versione del kitsch che viene data da Kundera): il bene e il bello – o il brutto come bello, con non originale ed estenuata inversione “cannibale”.
Imo un pensiero all’altezza dell’artistico contemporaneo non può più separare o opporre dimensione della tecnica produttiva (l’automa) e dimensione dell’arte, ma le deve mediare in una comprensione della corporeità e del segno – dell’intelligenza pragmatica della carne o consapevolezza corporea, del significato come piegatura della carne.
su questo, per aumentare la confusione mi autocito:
http://falsoidillio.splinder.com/post/86085
http://falsoidillio.splinder.com/post/103429
forse ora è meglio che la pianti per un po’, sto blaterando a reti unificate :))
@b.georg
davvero interessante, ci rifletto con la necessaria concentrazione (leggendomi anche i link) e poi rispondo. Ciao
@temp
hai certamente ragione, ma penso che, dato il mezzo, un po’ di proiezione arbitraria ci possa anche stare. Cercherò di non esagerare :-)
Discussione interessantissima.
Veramente, ragazzi, i miei sinceri complimenti.
b. georg dice che ormai tutto è produzione, sia lavoro sia tempo libero e che non ha senso una divisione tra interno e esterno del soggetto. Comunque lo dicevano già i francofortesi (non per difenderli, non me ne può fregare di meno). Non c’è più un fuori della società (Bauman) e pretendere che i cosiddetti lavori intellettuali siano svincolati dal meccanismo della produzione è romanticume.
Come dargli torto? E’ evidente che sia così e che forse, in un modo o nell’altro, è sempre stato così. B georg ha anche ragione a dire che è inutile versare lacrime di coccodrillo sulle proprie condizioni lavorative immaginando inutili utopie. Come contraddirlo? E’ pragmaticamente ineccepibile. E’ la realtà e non ci possiamo fare niente. E forse non vogliamo nemmeno. Il pensiero artistico può soltanto cercare di mediare tecnica produttiva e dimensione artistica diventando intelligenza pragmatica della carne, consapevolezza della carne.
Allora è una grande opera d’arte (o perlomeno di denuncia) la canzone “John Holmes” di Elio: “30 cm di dimensione artistica…” :)
Scherzi a parte, se questa analisi è vera, se un fuori non esiste, se tutto è produzione e il mondo è come può essere, cos’è che piange in noi?
Cos’è che, a volte, grida nel profondo che le cose non dovrebbero essere così? Perché vogliamo parlarne , cercare un senso? Ripeto, cos’è che piange in noi, anche se le nostre vite non vanno in fin dei conti malaccio?
Forse un microscopico margine di libertà? E il talento cos’è?
“Il talento non è forse altro che rabbia felicemente sublimata, la capacità di tradurre quelle energie che, un tempo, si esaltavano oltre ogni limite nello sforzo di distruggere gli oggetti che opponevano resistenza, in una contemplazione paziente e concentrata, e di essere altrettanto tenaci e implacabili nella ricerca del segreto degli oggetti come il bambino che, un tempo, non si dava pace finché non aveva strappato al giocattolo tartassato la sua voce lamentosa”.
Theodor Adorno, Minima moralia, 72
Forse la ricerca del segreto degli oggetti, è questo talento. Non mi sembra molta la distanza dalla ricerca della corporeità di cui parla b georg. Forse, chissà
Massimo Villivà
In me non piange proprio niente. Questa cosa del piangere, scusa villivà – bellissimo cognome, tra l’altro – mi pare proprio la cosa più inutile che ci sia, invece di piangere è meglio lavorare e pensare senza piagnoneria.
E poi cosa vuol dire “ricerca del segreto degli oggetti”? L’avrà anche detto Adorno, ma cosa vuol dire?
Adorno usa una retorica che poteva essere efficace ai suoi tempi, ma adesso dire “ricerca del segreto degli oggetti”, se poi non spieghi che cos’è è solo una frase a effetto.
Scusa, sono un po’ brusca perché sono appena passata da un altro post pieno di commenti così stucchevoli che hanno cominciato a farmi male i denti e me la sono presa con te :–)) Sono una donna che soffre.
Davvero troppo brusca, Temp, a me è sembrato un buon commento. Dentro di me (e c’è un “dentro”, nonostante estroflessioni ed invaginamenti) qualcosa sovente piange e fa mi stringere i denti di rabbie pericolose, sebbene anche le mie cose non vadano “in fin dei conti malaccio”. Anche “ricerca del segreto degli oggetti” mi dice molto, anzi moltissimo. L’enorme cappello dell’arte comprende ormai molte attività del tutto differenti, si potrebbe dire che ormai comprende tutto e quindi niente (certo dovrò anche fare i conti con le piegature di piegature di B.Georg) però credo che le questioni di Adorno non si possano ridurre a sola retorica. I discorsi adesso si possono fare davvero difficili, vediamo se riusciamo a resistere ancora un po’.
@b.georg
il tuo straparlare (cioè il rispondere prendendoti le tue libertà “creative”) mi piace molto, credo che una giustapposizione di suggestioni sia quanto di meglio possiamo fare qui, dove non c’è spazio né tempo per risalire a tutti i presupposti del nostro parlare, per rinegoziarli faticosamente in vista di una impossibile “resa dei conti” finale. Prendo quindi alcune delle tue suggestioni e ci affianco le mie.
– “costruire una società delle opportunità, dove sia dato a tutti un uguale livello di partenza”
– “ricomporre la divisione del lavoro mi pare uno di questi compiti utopici e improbabili”
Strano, ma dei due buoni propositi è il primo a sembrarmi più improbabile ed utopistico, in quanto vorrebbe dire “parificare” anche le condizioni familiari di origine, determinanti per l’accesso alle mansioni più creative e soddisfacenti offerte dalla nostra società. Alcune di queste disuguaglianze in termini di opportunità sono fatali e vanno accettate, altre andranno invece combattute, ma ognuno dovrebbe venire messo in grado di riflettere criticamente su handicap o fortune che abbiano condizionato la propria traiettoria. Il secondo punto, in fondo, può essere perseguito e approssimato con opportune strategie di resistenza, riequilibrio libidico eccetera. E’ chiaro che svelare i giochi nella loro effettiva crudezza significa anche perdere presa, alimentare il disfattismo, forse mandare in malora la società ma l’alternativa quale sarebbe, la spregevole doppiezza dei politici? Il “non date ai servi un’educazione da padroni” di Nietzsche?
Definire ideologia “pseudo esistenzial-romantica” certe posizioni che pure hanno avuto un importante ruolo emancipatorio, che hanno pur sempre favorito la creazione di grandissima arte, ridicolizzarle come arcaismo kitsch, non vuol dire semplicemente riequilibrarle e correggerle attraverso le evidenze del progresso scientifico, bensì neutralizzarle totalmente attraverso le mode intellettuali, altrettanto ideologiche, della dissoluzione del soggetto.
Vuol dire forse estetizzare, cercare di far sembrare bello e ammirevole, l’adattamento sociale anyway anyhow, piuttosto che la “resistenza” individuale? Tutti sappiamo che qui c’è una “dialettica”, ciò che appare sospetto è la volontà di azzerarne uno dei termini. Cosa vorrà dire, ci arrovelleremo ciascuno nei nostri rispettivi contesti, “torcere il piano di immanenza” ? Al limite, magari arruffianarsi il curatore della Biennale (o qualche altro “potente” di turno) invece che perder tempo sulla produzione qualche irrilevante ed inutile “oggetto”? Certo, il semplice riuscire ad entrare nelle élite che determinano socialmente cosa è l’arte rappresenta di per sé un fantastico dispiego di “intelligenza sociale”, non è certo da tutti, ma il punto .. “è” per tutti? Rappresenta cioè “contenuti” talmente importanti da prescriversi come esperienza umana universalmente raccomandabile? Oppure anche l’aspirazione all’universalità è un residuo kitsch? Ma vogliamo stare al gioco, non escluderci e isolarci, capire cosa ci possa essere di tanto ammirevole…
Solo a questo punto ho letto Intellator 1.0 e soprattutto la “divagazione” ed ho capito ciò che affascina B.Georg, e che non vi era disaccordo ma un fraintendimento marginale, e quasi quasi cancello quanto ho appena scritto – ma poi decido di lasciarlo perché vi permane forse un piccolo frammento di scarto, e poi altrimenti sembrerebbe che non ho fatto nulla. Invece è stato un vero piacere, anche se magari non mi darà frutti immediati …
@Wowo e Villivà
Hai ragione Wowo, mi scuso con Villivà, spero che le accetti.
Anche se continuo a pensare che non c’è niente da piangere.
Sto rileggendo Loos (M. Cacciari, Adolf Loos e il suo Angelo, Electa 2002. Che riporta molti scritti e documenti di Loos.) Mica chiagneva.
> Mica chiagneva.
Mi sembra necessario spiegare. Sarei d’accordo con il tuo sentimento se “piangere” fosse inteso in senso letterale, come spettacolo spiacevole di autocommiserazione impotente. In un contesto artistico, penso che tale termine possa indicare metaforicamente qualcosa di ben diverso, la ben nota funzione sublimante ed autoterapeutica dell’arte. Non mi sembra vergognoso ammettere che le complesse, e spesso paradossali, pratiche artistiche possano prendere almeno inizio dalla percezione di qualche disarmonia o rottura profonda, da ripararsi a livello simbolico. Chiaramente se questa azione non riesce poi ad appoggiarsi su di una tecnica decente, ovvero un minimo di talento che ne favorisca l’acquisizione in tempi consoni, difficilmente saprà setacciare nello spazio delle possibilità delle “soluzioni” che possano trovare qualche risonanza anche negli altri (anche se dei “colpi di fortuna” sono tuttavia possibili, date le imprevedibili geometrie di questo spazio). Ma tra l’arte tradizionale, in cui queste dinamiche erano confinate negli stretti limiti della committenza, e l’arte postmoderna, in cui vengono ironicamente denegate per ragioni di marketing (l’artista pop-star vincente, astuto buffone leccaculo dei potenti in un gioco largamente autoreferenziale) penso che si tratti dell’unica “postura” universalmente disponibile, oltre che ancora feconda, aldilà dei sbertucciamenti degli ultrasmaliziati. Per questo quando posso cerco di difenderla.
Villivà, forse (lo dico di nuovo un po’ straparlando un po’ plagiando malamente un filosofo noto e opinioni diffuse) il “segreto degli oggetti” che ci tortura – ma è una tortura dolce che amiamo ritrovare di continuo – è che conquistandoli li abbiamo persi (e sempre la cosa si ripete: l’infante ripete cento volte lo stesso gesto, ritorna lì – come la canzone dopo ogni strofa – rifa il gesto, rompe l’oggetto, e insieme lo ricompone, di nuovo lo ripone e di nuovo lo riprende, per un’intera ora, e così diventa se stesso – corpo abitato – [diventa, niente affatto si dissolve!] e un giorno vicino smetterà di essere in-fante).
L’emozione è la sua continua ripetizione, come il bambino che vuole sentire cento volte la stessa fiaba o come noi che guardiamo e riguardiamo lo stesso finale in cento film che sembrano solo diversi e torniamo cento volte a osservare quel fazzoletto di giardino insignificante davanti al quale passavamo da bambini e di cui – più di tutto – siamo degli esperti internazionali, cercandovi qualcosa che non ci può per principio stare – quell’albero non c’era, lì c’era una siepe, nell’82 mi ricordo hanno rifatto il muretto…
Questa emozione, che pare e forse è una bolsa nostalgia, non è un evento sentimentale ma conoscitivo (e non dem muretto rifatto…), è la traccia di una provenienza ribaltata in una destinazione (ex-movere), come dice il filosofo, su cui si installa qualsiasi competenza e qualsiasi sapere di tale competenza: dentro di essa si dispiega il ripiegato, i “nostri” prati, il “nostro” sole, i “nostri” oggetti (tali in quanto nostri e per questo non-più-nostri), il fuori di un dentro di un fuori.
Questa abilità, questa competenza nel rimbalzare dagli “oggetti” che facciamo sorgere, questa bravura “nell’inserirsi nella partitura polifonica del mondo” (sini) ha forse a che fare con la competenza del corpo, il suo saper fare giocando di sponda, che è ciò che sbadatamente chiamiamo tecnica , e il sapere questo saper fare e provenire rifacendolo – piegatura di piegature, cioè quella che pomposamente chiamiamo arte?
(parlare di questa eventuale tautologia costitutiva del “vivente dotato di linguaggio” era una delle ambizioni – non si sa quanto raggiunte – dell’arte postmoderna, della sua fasidiosa e barocca autoreferenzialità? E la rete non è un’altra metafora della stessa tautologia, che distingue e separa – come ogni tecnica – il corrispondersi sinestetico non di un organo ma del corpo virtuale e fratto – cioè potenziale?)
straparlo, l’ho premesso :)
Penso che la “competenza del corpo”, che sai descrivere molto suggestivamente, sia un punto essenziale (questo proposito segnalerei “Stile, grazia e informazione nell’arte primitiva” di Gregory Bateson) dalle molte implicazioni. Appropriatissimo anche il riferimento alla ripetizione ed alle sue magie. E’ un peccato che il concetto batesoniano di “deutero-apprendimento” (cioè l’imparare ad imparare) non abbia poi incontrato una grande fortuna come chiave esplicativa (stando almeno quanto riporta Piattelli-Palmarini, se ricordo bene) ma ovviamente non tutto ciò che è elegante è anche vero, cosa abbastanza comprensibile considerata la “rete a strascico” evolutiva che inevitabilmente siamo. Così sarebbe elegante pensare che il vero artista sia colui che riesce comunque ad effettuare l’ultima “piegatura”, e che, applicando una simile meta-intelligenza, chiunque possa evadere dalla gabbia in cui si trova imprigionato. In tal caso la metrica del successo coinciderebbe con quella del merito e tutto sembrerebbe a posto. Vabbè. se e quando le cose invece che “non malaccio” mi andranno veramente bene, ho già la “posizione” pronta :-)
wo, io però eviterei di confondere una gabbia che c’è – la segregazione del potere – con una gabbia “metafisica”, che imo non c’è affatto – il linguaggio, piuttosto che la gettatezza, piuttosto che le piegature cui si dovrebbe evadere, e perché mai, e soprattutto come o verso cosa – se “l’esser cosa” stesso dipende dalla gettatezza?
Dato che l’incompletezza – il corrispondere differendo, il movimento doppio del corpo che ha a che fare con, l’andare e tornare, battere e levare, il ritmo, la piega – non è un limite ma una condizione di esistenza deila possibilità stessa di parlare di limiti e del loro superamento, follia, mancanza di logica, è volerla completare e risolvere, scapparne “fuori” – quando il fuori è fuori di un dentro che a sua volta pro-viene.
La penultima piegatura, l’arte dei segni, semmai, ci insegna ogni volta un’etica dello stare, appunto come gli oggetti (mai) perduti, dei quali disponendosi sul foglio bianco in un certo modo mostra il silenzio operoso, la virtù (e la virtualità).
(il come, il modo, lo stile che, adeguatamente approfondito o meglio reso superficiale è “voce” personale ma insieme anonima, individuale e sociale o contestuale, in parte attore in parte misconosciuto servo di scena…),
Perché un’etica? Lo stare degli oggetti è la nostra provenienza ma anche la destinazione infinita – reinterpretata. È uno “stare” che però ruota tutto il contesto: infatti essi non ci “sono” mai più, e cercandoli li ricostruiamo ogni volta e ogni volta tentiamo quest’impresa a partire da quel che ne abbiamo fatto o detto e che loro hanno fatto di noi, e così slittiamo continuamente, noi e loro;
allo stesso modo i segni che mostrano il silenzio operoso delle cose stanno sul foglio, ma ogni volta si muovono: nessuno può dirli una volta per tutte, come nessuno può esimersi dall’accoglierli ed averne cura.
(come i più hanno forse capito, sto solo scopiazzando sini, o merleau-ponty :) )
comunque siamo (sono) un bell’esempio di come si possa andare fuori tema :-)
gianni mi scuserà, almeno spero.
Intanto il mondo fa il suo corso. L’importante è la salute. E un par de scarpe nuove.
Massimo Villivà
Quando un thread viene spinto in seconda pagina dall’accumularsi di nuovi interventi, di solito si spegne rapidamente. Voglio però provare a chiedere un’ultima cosa a b.georg: sinceramente, davvero pensi che quelle vertiginose “cognizioni” (su quel che siamo, sul come i segni ci fondano etc.) che hai provato a lasciar intuire, abbiano un rapporto “autentico” con le vicende e le quotazioni dell’arte postmoderna, diciamo da Warhol in qua, culminando negli Hirst e nei Cattelan? Lungi da me disprezzare l’arte concettuale e le sue furbe derivazioni, terminale abissale e necessario di certe tensioni profonde, ma davvero non era già tutto quanto implicito in Duchamp? Imparare a vedere “il niente nel tutto e il tutto nel niente” non è cosa da poco, ed io ritengo che un certo sguardo, acquisito dalla modernità, rappresenti una conquista formidabile, ma ritengo anche che la trasformazione di certe imprese pionieristiche in impresa commerciale, suggellata da Warhol, sia tutta un’altra cosa: uno spettacolo interessantissimo per capire le logiche di giochi ben più pericolosi, ma non propriamente Arte, perché nell’arbitrario succedersi di mosse in giochi ristretti, autoreferenziali, dall’accesso strettamente vigilato, è andata a perdersi (perché evidentemente antieconomica) proprio quella “competenza del corpo”, quelle coordinazioni interne che donavano al campo la propria specificità. Posso anche sbagliarmi in larga misura, mi piace l’intelligenza e profondità delle tue osservazioni, però non capisco l’indifferenza “politica” che da queste sembri trarre. Dicevi “un pensiero all’altezza dell’arte contemporanea” … e chi mai lo possiede oggi? Forse Politi? Bonito Oliva? Un qualunque artista? Immagino che potresti dirmi Sini, che ancora non conosco, ma la filosofia non determina proprio nulla in campo artistico, vi preleva solamente i campioni che possono adattarsi alle proprie formulazioni. Vabbé dai, tempo scaduto anche per me. Ciao
Amici, perdonate il mio silenzio, ma in questi giorni è accaduta una cosa terribile che ha sconvolto la mia vita. Non ho letto e non so quando riuscirò a leggere questa discussione che pare bella ed educata, così come io vorrei siano sempre.
Vi abbraccio, G.
Con apprensione, ricambio sinceramente l’abbraccio.
gianni, abbraccio ricambiato
wo, io non mi addentro in giudizi sull’arte contemporanea o addirittura su definizioni d’ate applicata a casi singoli, ci tengo alla pelle ;)
(non sono nemmeno così esperto in arti figurative, che mi pare non abbiano seguito proprio lo stesso percorso della letteratura o non con gli stessi tempi, quindi non azzardo – dicessi che a me cattelan piace cambierebbe qualcosa? non credo. E come giustifico che mi piace wallace? troppo difficile: cedo)
“l’indifferenza politica” credo sia un equivoco; perché me l’attribuisci? (sono anche uno dei pochi italiani che fa politica attiva da anni, praticamente una mosca bianca:).
“il pensiero all’altezza di” è un auspicio nemmeno così malriposto, imo
Ok, specifico soltanto non era tanto un giudizio su questo o quell’altro artista che ti chiedevo, quanto la possibilità di evidenziare, con un esempio, almeno il sentore di un “nesso” tra l’attività effettiva e le teorizzazioni. In fondo mi piacerebbe solo riuscire a capire il funzionamento dell’impresa artistica in maniera simile a quanto riesco a fare con quella scientifica. Anche quest’ultima è fatta da uomini, con i loro limiti, interessi ecc., tuttavia quanto più uno approfondisce i contesti tanto più riesce a capire il come e il perché delle sue diverse attività e manifestazioni, le gerarchie dei meriti, eccetera. Nell’arte sembra avvenire esattamente il contrario, circostanza che più che “indignarmi” mi incuriosisce … sempre più.