L’odeporica del Manga
di Sergio Garufi
Mentre la critica letteraria viene data quasi unanimemente per spacciata o agonizzante, e ci si divide tra chi vorrebbe munirsi di vanga e chi farebbe l’ultimo disperato tentativo col defibrillatore, le recensioni invece si moltiplicano e si occupano sempre più spesso di ambiti non strettamente letterari. E’ il caso del nostro Piero Sorrentino, che su Il Giudizio Universale recensisce la legge sull’elezione diretta dei sindaci, e di Camillo Langone, autoproclamotosi critico liturgico, con le sue recensioni delle messe pubblicate su Il Foglio. Che si tratti della riprova di quanto andava scrivendo Aldo Busi ne Le persone normali, quando lamentava la singolare “pretesa che tutto vada letto: quadri, edifici, stoffe, spettacoli musicali, pugilato, segni. Tutto, meno i libri”? O che sia piuttosto quell’ “effetto alka-seltzer” di cui parlava nel ’74 Enzensberger, una sorta di ermeneutica diffusa, per cui la critica non si trova più nelle sue cornici istituzionali, nelle pagine culturali dei giornali e delle riviste, ma, come la pillola che si è disciolta nell’acqua rendendola frizzante, ora sta dappertutto, nei commenti dei blog letterari e nel chiacchiericcio dei talk-show televisivi?
Sia come sia, la critica ufficiale (quella che per Enzesberger si sarebbe ridotta a un residuo in fondo al bicchiere) già da tempo si era interrogata sui possibili modi di rinnovarsi, ed uno dei tentativi più coraggiosi e riusciti fu quello esposto da Emanuele Trevi nel suo libro d’esordio, Istruzioni per l’uso del lupo, quando chiese a Marco Lodoli se fosse possibile “recensire un tramonto”. Con questo originale paradosso, il brillante critico romano auspicava una via alternativa all’accademismo elitario e al bavardage sociologico del giornalismo culturale, cioè una scrittura che fosse in grado di “donare alle parole la stessa evidenza misteriosa del paesaggio che descrivono”. Era chiaro, insomma, che più che “recensire un tramonto” l’intenzione di Trevi fosse quella di tramontizzare le recensioni, alla ricerca di una saldatura fra “le cose che accadono e quelle che si scrivono”.
La vera “recensione di un tramonto”, ossia quel modo di leggere un luogo o un evento naturale alla stregua di un libro, fu scritta molti anni prima da Giorgio Manganelli, e oggi ne troviamo ampia testimonianza nella sua ricca produzione odeporica. Sin dai suoi esordi pubblici, ossia a partire dalla prima intervista concessa a Lucia Drudi Demby (adesso raccolta ne La penombra mentale) dopo la pubblicazione di Hilarotragoedia, Manganelli espose l’ipotesi di un nuovo genere letterario, la critica geografica o geocritica, “che consisterebbe nel trattare un luogo alla stessa maniera con cui trattiamo sostanzialmente un libro, cioè come sistema di simboli che agisce su di noi”. Ecco allora che “Goa può essere letta come una figura retorica”, come scrive in Esperimento con l’India; o che l’incipit del suo viaggio nello Schleswig-Holstein, incluso nel volume intitolato L’isola pianeta (appena edito da Adelphi e con la consueta, magistrale postfazione di Andrea Cortellessa), avverta tautologicamente il lettore che a questo punto deve “cominciare la recensione dello Schleswig-Holstein”.
Proprio quest’ultima, splendida puntata della sua letteratura di viaggio, interamente dedicata al Nord Europa, testimonia la lungimiranza del giudizio postumo di Angelo Guglielmi, espresso in Trent’anni di intolleranza (mia), che annunciava che Manganelli “non abbiamo finito di leggerlo”. Già l’anno scorso, difatti, ci eravamo deliziati con La favola pitagorica, in cui Manganelli recitava la parte di un novello Pausania alle prese con l’esplorazione del noto, un’odeporica casalinga piena di chicche imperdibili come la stroncatura di Firenze, considerata alla stregua di “una cooperativa di capolavori” da investigare con lo sguardo lucido e impietoso del Reger bernhardiano di Antichi maestri. Oltretutto, secondo quanto riferiscono alcune testimonianze affidabili, questa stroncatura venne redatta prima ancora della visita nella città toscana, seguendo in questo senso il precetto di Vanni Scheiwiller, per il quale di un libro sospetto si era autorizzati a dire “non l’ho letto e non mi piace”. Anche qui, c’entra forse la predilezione del tapiro malinconico per i luoghi e i libri minori, periferici, elusivi, che non si impongono come letture autoritarie; e la speculare avversione per il centro, le città famose e celebrate, viste come meta di un ottuso turismo organizzato.
Sempre nel capitolo sulla regione tedesca dello Schleswig-Holstein, l’autore dichiara che “ogni viaggio comincia con un vagheggiamento e si conclude con un invece”. Sommessamente, ci permettiamo di dissentire. In realtà, pochissimi viaggi e pochissime letture seguono questo percorso ideale. La letteratura d’evasione e i viaggi organizzati sono l’apologia del déjà-vu. E se proprio dovessimo accordare fiducia a uno dei tanti criteri estetici formulati nel tempo per individuare la qualità, ci appoggeremmo allora al tedesco H. R. Jauss, il teorico dell’estetica della ricezione, il quale dichiarava che solo le opere (e in questo caso i viaggi) di maggior pregio sono in grado di evocare l’orizzonte d’attesa del pubblico per poi disattenderlo e sovvertirlo. E’ il caso della recensione manganelliana di Aberdeen, la cui visita frettolosa e distratta ci convincerebbe ad accoglierne l’interpretazione cartolinesca, folcloristica, tradizionale, un “ormai so tutto”. E invece proprio lì si acquatta l’errore, la mistificazione, il “luogo comune”, paradossalmente scovato da Manganelli su un manifesto turistico in cui compaiono delle piccole macchie scure sul mare, che non sono altro che le piattaforme che estraggono il petrolio dal Mare del Nord, responsabili dello stravolgimento sia demografico che economico della cittadina scozzese, diventata in seguito a questo “una capitale, un luogo internazionale, una città più cara di Londra, in cui non è più possibile vivere facendo il pescatore”.
I reportages di Manganelli non informano in modo canonico, illustrando le bellezze di un posto come fanno le tradizionali guide turistiche, ma invitano a percorrerlo e perlustrarlo indagandone gli interstizi di senso e riflettendone i mutamenti; perché “il mondo, visto frontalmente, è illeggibile”, e per leggerlo e coglierne i segreti intendimenti occorre spostarsi, mettersi di lato, vederlo come attraverso un’anamorfosi. E tuttavia il suo approccio letterario ai luoghi non ha nulla di pedantemente citazionista, dato che non sono i libri a spiegare un luogo, ma il luogo a farsi leggere come un libro, un libro in cui le note a margine spesso contano più del testo stesso. Queste recensioni del Nord Europa rifiutano i precetti che indicava la zarina Grazia Cherchi, secondo la quale era necessario riassumerne la trama, e li rigettano perché Manganelli non considerava importanti i fatti, la nuda storia, più o meno simili per qualsiasi luogo o libro. E’ piuttosto “il rumore sottile del posto” (parafrasando il titolo di un suo testo), ciò che guida i suoi passi; nella consapevolezza che anche se si parte sempre per tornare, il vero obiettivo di ogni viaggio è il contatto con l’altro, giacché solo in virtù di questo incontro si manifesta l’io nascosto, si diventa ciò che si è.
(pubblicato su Stilos, il 23 Maggio 2006)
aprofitto del post manganelliano per avanzare sommessamente, mettendomi in ascolto, una questione a cui penso da tempo. e che nel post, come è inevitabile per ragioni di spazio o di contesto, non è sfiorata.
in termini spicci: quali le ragioni del ‘successo editoriale’ di giorgio manganelli, oggi (adelphi recupera o ristampa da ormai due, tre anni); quale la ‘funzione’ di questa riscoperta nella situazione letteraria (culturale) odierna; quali mediazioni sottostanno a questa rivalutazione critica (avviata, mi pare, da qualche anno, culminata con il volume di ‘riga’); cosa cercano di stabilire e di introdurre nel ‘dibattito’ critico odierno, quei critici-lettori che lo rivitalizzano, canonizzandolo, nel contesto dell’idea di letteratura (e di cultura) di cui l’autore è (polimorfo) portatore?
@fabio
te lo dice Garufi:
“I reportages di Manganelli non informano in modo canonico, illustrando le bellezze di un posto come fanno le tradizionali guide turistiche, ma invitano a percorrerlo e perlustrarlo indagandone gli interstizi di senso e riflettendone i mutamenti; perché “il mondo, visto frontalmente, è illeggibile”, e per leggerlo e coglierne i segreti intendimenti occorre spostarsi, mettersi di lato, vederlo come attraverso un’anamorfosi.”
E questo vale per tutti i libri di Manganelli. Manganelli ti fa pensare e ti aiuta a illuminare alcuni frammenti di mondo, soprattutto se lo strumento di cui ti servi per analizzarlo è il linguaggio. Se ha un suo (parco, eh, non credere) successo, è proprio perché percorre ancora una strada che la maggior parte di chi scrive ha abbandonato.
Oggi, dopo mesi, sono entrata in una Feltrinelli, ne sono uscita a mani vuote, oppressa dalla quantità, nauseata prima ancora del pranzo.
@Fabio
Tu forse volevi un commento più sofisticato, però la verità è semplicemente questa.
@temp
‘perché “il mondo, visto frontalmente, è illeggibile”, e per leggerlo e coglierne i segreti intendimenti occorre spostarsi, mettersi di lato…’
è proprio questa, mi pare, una ‘linea’, un atteggiamento epistemologico o conoscitivo, con tutti gli addentellati del caso a livello della forma e della scrittura, e del rapporto con le tradizioni (non a caso qui si parla della personale rivisitazione ‘ultramoderna’ – o postmoderna ? – del genere del ‘reportage’…), che accomuna alcuni autori del secondo ‘900, all’uopo rivisitati, ripresi, rivitalizzati appunto (mi viene in mente, ma generalizzando azzardo costellazioni forse un po’ forzate, la coppia manganelli-calvino, con accanto parise, che produce un certo celati e cavazzoni, eccetera, forse oggi partorisce persino le riflessioni etico-sapienziali di un la capria….). e che diviene lo stemma nobiliare degli (sugli) scudi di certe ‘battaglie’ critiche, di poetica, di un’idea precisa di letteratura portata avanti da (certa) critica davvero magistrale (questo a proposito anche del tuo post sulle riviste e le ‘riserve’ critiche, e di quanto conti, indubbiamente, il ‘lavoro’ critico, responsabile, paziente e serio, eccetera).
ma è ovvio, mi sembra, che il fenomeno di un autore prima dimenticato o solo per pochi, e che oggi si cerca almeno di riportare in auge (con adelphi) non è casuale, o privo di conseguenze e soprattutto di significato. che non è quello di ‘sdoganare’ manganelli e di coinvolgerlo tra le ‘sirene’ della moda e la quantità indistinta dei libri-mercato, è chiaro (manganelli non è certo calvino, quanto a ‘indulgenza’ e ad accondiscendenza verso il lettore…). forse è un discorso che si svolge prevalentemente sul piano della critica, dell’innesco (della promozione) di un dibattito preciso (anche ideologico, se posso)….
e mi viene in mente, ma subito mi fermo, il concetto di ‘pathos della distanza’ usato da cases per ‘descrivere’, non condannare, l’atteggiamento di calvino verso la ‘realtà’ ( ‘perché “il mondo, visto frontalmente, è illeggibile”, e per leggerlo e coglierne i segreti intendimenti occorre spostarsi… ‘)… questa la ‘ricetta’ (o almeno una ricetta) per il presente? la domanda che ti rivolgo, credimi, è aperta…
Cavolo, quanti incisi, fatico a seguirti, non puoi sbrogliare un po’? Se fosse un rap non avrei obiezioni, ma una mano per capire cosa pensi me la dovresti dare:–)
Bene, intanto bisogna portarsi qualcosa dietro, una valigia ad esempio. Possibilmente snella e magari poco seria, con le consuete forbicette. Poi chi viene dopo, perchè prima era distratto (magari per lui, non nato) non importa, l’importante è leggere. Non importa poi quale critica, e con chi e in quale tramonto.
@temperanza
@fabio
“spostarsi, mettersi di lato”
“abbastanza lontano, abbastanza distante per raccontare”
L’autore è il luogo.
La scrittura geografica è una ‘recensione’ del territorio.
Il perchè non s’inverò, è il perchè di tutta la “cultura” italiana degli anni settanta: presa più a costruire progetti, distanze, (a calcolare misure) ed a reinventare una realtà piccina piccina. Ora, ancora (questo è parere mio di un nessuno) parte di quell’idea costruita dall’esigenza di solo alcuni sugli altri, ogni tanto ricompare. E gli uni, ormai un poco smarriti, sognano i bei tempi passati. Ma la fortuna italica è stata anche quella di avere un Pasolini (per poco) ed un Manganelli, insieme e legati (non credo)dallo stesso partito gran costruttore di certa idea. Forse, il dogmatismo ideologico non ha poi le maglie così strette. Naturalmente, non è solo questo, magari fosse solo questo.
@fabio
una risposta esauriente alle tante questioni che poni, a proposito della recente attenzione editoriale verso gli scritti inediti o meno noti di manganelli (e oltre ad adelphi citerei pure quiritta e aragno), richiederebbe competenze che non possiedo, ma intervengo ugualmente per fare alcune piccole notazioni che ho in mente da tempo. come dice bene temperanza, manganelli ha percorso una strada che hanno seguito in pochi, ed io personalmente me ne rammarico. credo, infatti, com’è scritto nell’editoriale di riga, che “il nostro sarebbe stato un paese (non solo letterariamente) più vivibile, e più divertente senz’altro, se l’icona dello Scrittore, nei trent’anni di loro vita parallela, fosse stata più simile a quella di manganelli che a quella di moravia”. questa affermazione, che condivido in pieno, ha provocato una risposta piccata di massimo onofri su tuttolibri, che in sostanza la contestava considerando il tapiro una sorta di unicum, un’intellettuale gioiosamente e ferocemente eversivo ma sterile, senza discendenze. in realtà, come aveva evidenziato altrove cortellessa, esiste una “funzione manganelli” ed esistono suoi nipotini, vedi michele mari e tiziano scarpa. certo, questi ultimi hanno imboccato strade diverse, quella del pastiche il primo e quella del “teppismo mentale” (per usare un epiteto che pasolini rivolse a manganelli) il secondo. ma la filiazione c’è, è evidente; così come la contrapposizione alla “funzione moravia”, che morì nello stesso anno del manganelli e che per fortuna non sta ricevendo la stessa attenzione editoriale del tapiro. all’epoca in cui uscì il discusso saggio di carla benedetti, a me capitò di pensare che la vera dicotomia italiana, il grande spartiacque, fosse tra pasolini e manganelli, piuttosto che fra il primo e calvino. “settanta”, l’ottimo studio di belpoliti, ricostruisce storicamente i frequenti e accesissimi scontri fra i due, le loro antinomiche concezioni del ruolo dell’intellettuale espresse negli interventi di natura pubblicistica (vedi il dibattito sull’aborto). lungi dall’essere un distaccato osservatore della realtà che lo circondava, manganelli era in realtà un autore politico; come ha sottolineato matteo di gesù in un brillante saggio edito da franco angeli. e non è un caso che la sua tesi di laurea, oggi stampata con una acuta prefazione di agamben, riguardasse proprio l’analisi delle dottrine politiche, seppur del 600. è che il particolare postmoderno manganelliano (così come il suo lessico) affonda le proprie radici in quel periodo storico, mentre il postmoderno calviniano si rifà al settecento, all’epoca dei lumi (il razionalismo del verri, per es.). è una differenza non da poco. da pasolini discende inequivocabilmente moresco, che infatti erutta un magma di contumelie ai praticanti della riscrittura dal suo “vulcano”. questa, per esempio, è una delle ragioni per cui ancora oggi non mi capacito di come un anarchico e irriverente nipotino di manganelli come scarpa possa accompagnarsi al seriossimo, apocalittico e pasoliniano moresco. in ogni caso, dietro la grande riscoperta editoriale di manganelli in questi ultimi anni io ci vedo, sulla scia di quanto detto nell’editoriale di riga, una sorta di omaggio postumo per una storia intellettuale che avrebbe potuto dare ottimi frutti e che purtroppo non s’inverò.
@garufi
allora per il gusto, nel tentativo di scompaginare e di rimescolare le carte ti faccio un nome, anzi due, della stessa generazione di pasolini (1922) calvino (1923) manganelli (1922) fino a parise (1929) e arbasino (1930).
e cito anche questi due ultimi perchè, come sai, “settanta” di belpoliti procede alla mappatura di quella leva di scrittori, avanzando secondo me una proposta di ‘idea di letteratura’ (vedi l’editoriale di riga) precisa e puntiforme (e lo segue cortellessa, insomma andando a formare forse la migliore e la più compatta ‘scuola’ critica che abbiamo da qualche anno in italia, con tanto di ‘strategia’ editoriale e pubblicistica ‘organica’ e riconoscibile, encomiabile quanto a qualità, su cui però vale la pena di riflettere)…
anche nell’intervista a cortellessa su stilos, che precedeva la tua recensione, si riprendeva un punto tutto ‘imputabile’ al lavoro di belpoliti (che lui fa a ridosso di calvino, anzitutto, per poi estendersi a questi scrittori che anche tu hai citato, per tutti i settanta): la rivendicazione della dimensione ‘civile’, o ‘civica’, o addirittura ‘politica’ (e quindi attuale) della scrittura di manganelli, tutta giocata sul linguaggio, ma capace (come ad esempio per i suoi ‘reportages’) di indicare una strada alternativa per la ‘mappatura’ della babelica e caotica consistenza dell’esistente, del reale.
sto semplificando. fatto sta che così faceva belpoliti anche per calvino e parise (e arbasino) a ridosso dei ‘temi forti’ della società italiana di quegli anni (lì, insomma, si giocano le ‘genealogie’, le ‘eredità’ o le filiazioni della nostra letteratura più recente…): tutti autori, direi inopinatamente, recuperati nella loro tensione al reale, verso il reale, scartando dalla vulgata critica (di cui sottotraccia si vuole svelare tutto il portato ideologico e asfittico, non ‘a la page’…), che li vuole invece, per usare una formuletta, ‘giocolieri’ del linguaggio o ‘tecnici’ di laboratorio di una cultura sterminata ed enciclopedica, bisognosi, per affrontare o recensire il reale, di mediazioni significative (il fantastico, il manierismo, la grazia, l’intertestualità, la ‘citazione’, oppure, per manganelli, post-gaddiane esplorazioni dell’instabilità ontologica nella quale affoga, ogni tanto riemerge, stravolto, il ‘reale’….).
allora fuori i nomi. il nome, o i nomi, (apparentemente) agli antipodi, sono sciascia (1921), su cui sto lavorando, e volponi (1924). per restare nel campo del romanzo (dietro di essi vedrei come terribile e straordinario ‘teppista’ del pensiero franco fortini…).
sono, con tutti i nomi citati sopra, le (ultime) esperienze intellettuali che ‘facevano’ il dibattito, che si presentavano come individualità distinte, ma capaci di costituire serbatoio di pensiero e, appunto, potenziali ‘idee di letteratura’ (di un valore conoscitivo della forma letteraria). da qui, ripeto, le filiazioni (o le fortune, le riscoperte editoriali) per l’oggi.
per semplificare al massimo:
notizie di volponi? di lui si lamenta, vedi proprio l’ultimo luperini, proprio quanto si dice a proposito di manganelli/moravia: niente, oggi, nel dibattito critico (editoriale) e nella produzione letteraria, fa pensare davvero ad un ‘ritorno’ o ad una ‘fortuna’ dell’autore di corporale. (eppure, anche solo al livello linguistico e formale, accantonando per un momento i suoi ‘temi’, il suo ‘metodo’ conoscitivo, molto piacerebbe ai fautori odierni di un pastiche o di un ‘espressionismo realistico’, visionario…).
e poi il ‘classico’ sciascia. fonti (dal sapore calviniano): ‘700 illuminista (ma con un forte innesto ideologico e formale del manzoni della colonna infame); levigatezza (apparente) della scrittura (che lo stesso calvino, paradossalmente, gli rimproverava…); ‘solo’ pirandello e borges (ma anche borgese savinio brancati riletti ad ususm sui…), a complicare in direzione ‘moderna’ il suo approccio alla realtà, l’ideologia (le strutture) della sua scrittura, eccetera.
modelli letterari ‘premoderni’ o tradizionali (addirittura ‘popolari’, anche se come è ovvio riletti destrutturati eccetera), ma mai ‘fascinosi’ come possono essere per manganelli il barocco e il ‘600, o l’attitudine poststrutturalista del calvino ‘francese’: il romanzo storico, il giallo, l’inchiesta manzoniana…quindi, di primo acchito, appunto, un ‘classico, un premoderno che sfiorerebbe da lì, da un certo punto in poi della sua opera, il ‘postmoderno’ (ma qui io non sono d’accordo).
e soprattutto, a sistemarlo (a soffocarlo) senza vie di fuga: uno scrittore civile, ma ‘datato’, privo di ‘complessità’ (o di eclettismo?…), ‘inattuale’ per la contemporaneità….
la ‘sfortuna’ di sciascia o di volponi (per esempio) parla chiaro. su questo invito a riflettere: il loro ‘realismo’ diretto, la politicità intrinseca della loro scrittura (raggiunta, ripeto, per vie distinte e anzi antinomiche), non ‘paga’, oggi….. piuttosto, conta il recupero (legittimo), o la rilettura (anche in chiave ‘civile’) di altri autori (di altre idee di letetratura)…
ma sono sempre ‘in ascolto’, in sospeso, sapendo bene che la questione è assai più sfaccettata e complessa. però le carte sul tavolo, mi pare, vanno messe anche per rimescolarle…
@garufi
l’hanno seguita in pochi in modo riconoscibile, ma è stato un punto di riferimento ideale per molti che sul momento non diresti, ad esempio Giulia Niccolai, e la Merini, ancora più lontana. Poetesse, certo, però…
Un ruolo simile, di scrittore per scrittori, e dunque meno visibile per il popolo dei lettori (anche specialistici) lo ha avuto per esempio Savinio.
@garufi
Comunque hai ragione, la coppia Moresco-Scarpa sulle prime lascia perplessi. Ma se poi vai a guardar bene c’era anche, amicalmente parlando, la coppia Pasolini-Moravia, persino più spiazzante, dal di fuori…
Incredibile, non è polemica ma fate sul serio? Perchè mi sembra che vi siete dimenticati Rivera e Mazzola? Ma vogliamo lasciar fuori Pizzuto?
va bene, michele. ricevuto.
ma per me (e credo anche per garufi: e per belpoliti, “settanta”: se non lo hai letto, ma ne dubito, sappi che è un libro importante, anche se come diresti tu un po’ catalogo, un po’ album di fugurine…), non era una questione di ‘inclusi’ ed ‘esclusi’.
ma se tanto (ti) è arrivato…
pazienza.
ciao, f.
Chi ha mai detto che mexico 70 è stata una cosa brutta. Io li avrei fatti giocare tutti e due, è così che si vince la coppa Rimet, includendo bisogna sempre includere, pace fabio.
@ michele insogna
“piccolo o grande che sia, uno scrittore [un lettore, ecc…] deve essere fazioso. chi ama tolstoj non può amare dostoevskij, chi ama stendhal non può amare proust, chi ama dante non può amare petrarca. eugenio d’ors diceva: ‘se la fontaine è poeta, hugo non lo è, e vicerversa’. non arrivo a tanto: la fontaine è poeta, è poeta hugo (‘purtroppo’, diceva gide, ‘il più grande dei poeti francesi’), ma non posso ugualmente amarli: purtroppo, amo hugo”.
attenzione, trattasi chiaramente di una boutade, di un paradosso (sciascia), ma qualcosa di vero c’è.
oppure: sì sì, michele insogna, come dimostra il silenzio su cui si staglia la tua illuminante ironia, è proprio tutto riducibile a mazzola/rivera, baggio/ del piero….
sempre in pace (mica in una ‘battaglia’), of course, f.
a me il mondo piasce solo visto frontalmente, soprattutto se è simmetrico.
consagra produceva sculture frontali che viste di profilo et di scorcio non dicono nulla.
e nemmeno frontalmente.
la frontalità ha le sue eccezioni.
Ma il vedere della letteratura non è il vedere della figuratività, sono due linguaggi diversi, che si sono sviluppati diversamente, anche se a volte si incrociano di striscio, e anche produttivamente.
le parole, ogni parola, mi attiva inevitabilmente un vedere mentale.
un libro mi produce una quantità di immagini, che poi restano quando tutte le parole lette in quelle pagine sono dimenticate.
leggere e vedere non sono proprio la stessa cosa, ne convengo, ma si evocano a vicenda e però in modo non simmetrico: le parole evocano immagini molto più efficacemente (direttamente?) di come le immagini evochino parole.
si trae molto più facilmente e frequentemente un film da un romanzo che un romanzo da un film: la traslazione dei temi narrativi da un linguaggio all’altro avviene a senso unico, sembrerebbe.
sono andato fuori tema, lo so.
No, dici bene.
Tu sei una persona che vede, del resto la tua formazione ti fa essere eminentemente visivo. C’è però anche gente che non vede, ma, (se posso dire questa cosa un po’ pomposa) abita essenzialmente il linguaggio, e vede solo attraverso la lingua.
Uno come il Manga parla essenzialmente a questi ultimi, che vedono attraverso il linguaggio e solo in funzione del linguaggio.
non di nomi ma di opere avrei voluto si parlasse; delle tendenze profonde che esse richiamano o che fanno per anticipare; degli orientamenti conoscitivi (‘visivi’ o ‘linguistici’, ‘realistici’ o ‘allegorici’, e così via) dalle quali nascono e che le rendono attuali; le fanno degne, o meno, di attenzione editoriale e di un lavoro critico di riscoperta e di recupero nel sistema culturale attuale (o in una sua parte).
parlavo di una ‘battaglia’ di canoni o di una tendenza critica nelle quali, come sempre, come è ovvio, la contrapposizione (non necessariamente dualistica) è parte sostanziale: poi resteranno sempre, sul campo, gli autori dimenticati, i ‘minori’ o gli ‘inattuali’. secondo un processo dinamico di aperture e di chiusure di cui in effetti mi piacerebbe scovare o almeno individuare (e fissare) le dinamiche attuali: le ragioni profonde, perchè ce ne sono, per l’oggi (per conoscenza). secondo noi (secondo voi).
ma forse ho sbagliato ‘canale’.
comunque. intendevo (anche inconsapevolmente) richiamarmi a questa analisi CHIARA, risolutiva, nel suo essere propedeutica ad un certo tipo di analisi:
“La ‘posizione’ di un autore nel ‘campo letterario’ è il prodotto dell’interazione di una serie articolata di fattori (che derivano spesso dall’azione sul soggetto di determinazioni prodotte dalla interferenza di altri ‘campi’) e corrisponde a una visione del mondo, a un gusto, a delle strategie creative, a delle scelte editoriali che sono il prodotto di una scelta ristretta all’interno di un ventaglio di possibilità determinate dal contesto (ad esempio appartenenza ad una tendenza, livello di riconoscimento o prestigio nei circoli letterari […]). Creare una nuova ‘posizione’ letteraria significa allora legittimare socialmente una corrente o uno stile, e quindi trovare alleati tra gli editori, i critici e ‘produrre’ un pubblico di lettori […]. Il suo stesso funzionameno interno è ‘regolato’ dal conflitto […]. E’ infatti un sistema dinamico, in cui ogni posizione si istituisce contrapponendosi alle altre […]”.
da ‘la sfida della letteratura’, 2004.
saluti, f.
Letteratura come sport, appunto. “La posizione di un autore nel Campo letterario”. (da: la sfida della letteratura 2004)
@ michele
“da”…:
raffaele donnarumma, “postmoderno italiano: qualche ipotesi”, in ‘allegoria’, 43, 2003;
antonio tricomi, “crisi delle testualità, esplosione della biblioteca. la nascita del postmoderno in italia”, in ‘allegoria’, 44, 2003.
ecc. ecc. (insomma, non solo il buon di gesù, mi pare…)
ma alla fine mi hai convinto. la letteratura, in fondo, o la ami in stato di adorazione e di ottundimento oppure se cerchi di pensarla in un contesto più ampio è solo per fare due chiacchiere al bar (dello sport). oggi, qui, ora, è così, alle volte…
chi ti preoccupa di più, il brasile o un outsider come l’olanda, la repubblica ceca, l’australia?….
buona visione.