bb4 – Of Mice and Men
History Specific, la reintroduzione del contesto storico nell’arte contemporanea. Note sulla 4º Biennale di arte contemporanea a Berlino
di Mattia Paganelli [see below for English text]
Un ottimo modo di definire la percezione del contemporaneo è stream, la tecnologia per la fruizione online, un flusso di informazioni non salvabile, non conservabile, non riproducibile (anche per ovvie ragioni di mercato). Questa intensità effimera, anche se non implica una riduzione della qualità, è un taglio assolutamente orizzontale nella nostra esperienza; esclude l’eredità e il contesto, tende a rendere il presente eccitante e il passato spesso irrilevante e incomprensibile. È il concetto antitetico della storia.
In questa Biennale credo che si debba riconoscere ai curatori (Cattelan, Gioni e Subotnick) il merito di avere compiuto un’operazione sintetica, di aver rivolto al presente l’ampiezza di uno sguardo classico, cercando di riunire gli artisti contemporanei con l’eredità dell’esperienza umana.
La mostra è disseminata lungo Auguststrasse, il percorso comincia nella chiesa di S. Giovanni, attraversa il KW Institute for Contemporary Art, l’ex scuola ebraica, alcune gallerie, appartamenti privati, edifici dimenticati e nascosti, per terminare nel cimitero in fondo alla strada. Include più di 60 artisti, spostandosi repentinamente tra quattro generazioni diverse. Of Mice and Men appunto, il percorso dalla vita alla morte.
Evitando di concentrarsi solo sulle novità e i più giovani, la Biennale risponde invece al contesto storico, urbano e architettonico. Non credo infatti sia possibile visitare Berlino senza sentire il peso degli eventi passati e l’esperienza del trauma. Direttamente o per contrasto qualunque intervento in questa città non può che risultare, in senso lato, site specific, History specific.
Solo alcuni esempi. Nella cadente scuola ebraica femminile, pesante di memoria e forse la parte più interessante della Biennale, l’esposizione culmina nella palestra all’ultimo piano con una copia in dimensioni reali di un vagone ferroviario che evoca inequivocabili immagini di deportazione (Kusmirowski); in un’altra aula una sequenza di sculture distese sul pavimento mescola l’estetica della lezione di scienze alla manipolazione delle forme organiche fino a raggiungere quelle umane, richiamando il più sinistro laboratorio di eugenetica (Manders). Lavori che a detta degli stessi curatori si concentrano più sulla densità e la durata che sull’effetto immediato. O il grottesco video, proiettato in container lungo la strada, del viaggio in bicicletta attraverso la Germania odierna di Erik Van Lieshout . Provocatorio e amarissimo porta in superfice odii e razzismi mai sopiti, ma si conclude con le lacrime del ciclista perché un’automobile ha schiacciato il suo costosissimo cellulare nuovo, valore ultimo del contemporaneo.
I riferimenti e le associazioni che ne nascono sono estremamente rilevanti. Con il continuo collegamento tra il passato cupo e un presente tutt’altro che felice vengono in luce gli aspetti grigi e oscuri del vivere, le angosce. Si evidenziano i continui tentativi e fallimenti della nostra storia.
Questa mostra potrebbe indicare il momento di passaggio da un’arte che soprattutto quando coinvolta politicamente era pesante di teoria, spesso didascalica, o peggio illustrativa, a un fare che si riapre all’esperienza della vita, ai suoi enigmi, alle domande, ai sogni e agli incubi che si intrecciano nella storia umana.Invece di essere conservatrice, o provocatoriamente anacronistica, credo che Of Mice and Men possa segnare definitivamente l’ingresso in un periodo in cui, esaurito il bisogno di fondare la ricerca artistica esclusivamente sull’esplorazione dei limiti possibili, torni in evidenzia come la vita (nonostante l’assurda ipotesi della fine della storia) abbia accumulato sufficiente esperienza per fornire nuovamente materiale narrativo all’arte.
E forse è anche un rigurgito di fronte a quell’atteggiamento di distacco cinico, ereditato dal postmoderno, in cui più niente aveva il valore del vero.
Il gioco irriverente con il sistema dell’arte contemporanea della finta galleria Gagosian (inserita tra spazi espositivi), le interviste agli artisti pubblicate durante la ricerca preliminare in collaborazione con il settimanale Zitty, il catalogo e la mostra a Check Point Charley sulla storia degli edifici dell’esposizione, la stessa appropriazione del titolo, fanno della Biennale un intervento in cui Cattelan, Gioni e Subotnick mantengono vive sia l’attenzione al presente che la dimensione ironica che contraddistingue i loro progetti. Ma qui vanno oltre la provocazione fine a sé stessa. Puntano a fare un evento della stessa Biennale, il cui filo conduttore non monodirezionale, ma contenuto fisicamente e metaforicamente tra Auguststrasse e il cimitero, crea – con l’inevitabile festa di strada che ne deriva – un’immagine propria della cultura classica: un brulicare carnascialesco tra aspirazioni e tragedie in un tratto di geografia estremamente limitato, in un lasso di tempo a scadere. Un palcoscenico per il teatro dell’assurdo, una fiera delle vanità deluse come “ritratto di gruppo dell’umanità” che “rispecchia il nostro diffuso senso di insicurezza… l’amosfera di paura che domina il presente” (C,G,S) .
maggio 2006
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History Specific, the reintroduction of historical contest in contemporary art. Notes on the 4º Biennale of Contemporary Art in Berlin
A good way to define our perception of contemporary life is stream, the online fruition technology. A flux of information impossible to save, preserve, or reproduce (also for obvious market reasons). Such ephemeral intensity, while it does not necessarily limit quality, it is an absolute horizontal cut in our experience; it excludes heritage and contest, it often tends to make the present exciting and the past irrelevant and incomprehensible. It is a concept antithetic to that of History.
In this Biennale I believe we ought to recognise to the curators (Cattelan, Gioni e Subotnick) the merit of having attempted a synthetic operation, of having looked to the present with a gaze of classic wideness, bringing together contemporary artists and the heritage of human experience.
The exposition is distributed along Auguststrasse, it starts at St John Church, through the KW Institute of Contemporary Art, the ex Jewish School for Girls, some galleries, private apartments, hidden and forgotten buildings, to end in the graveyard at the end of the road. It includes more than 60 artists, spanning over four generations. Of Mice and Men indeed, the journey between life and death.
Avoiding focusing only on novelties and on the youngest, the Biennale responds instead to the historical, urban and architectonic contest. Indeed, I do not believe it is possible to visit Berlin without feeling the weight of past events and the experience of the trauma. Directly or by contrast the outcome of any intervention in this city can only be, in broad meaning, site specific, History specific.
Just a few examples: In the decaying Jewish school, heavy with memories and possibly the most interesting part of the Biennale, the show culminates on the top floor gym with a real scale copy of a train wagon that unmistakably evokes images of deportation (Kusmirowski). In the next classroom, a sequence of sculptures laid on the floor mixes the aesthetic of the science lesson with the manipulation of organic shapes till reaching human forms, recalling the most sinister eugenic lab (Manders). Works that concentrate more on density and duration than immediacy, as the curators point out. While in a container installed in the street we find the grotesque video of the bicycle trip through today’s Germany of Erik Van Lieshout. Provocative and extremely bitter, it brings to the surface hatreds and racist behaviours never laid to rest, only to end with the tears of the cyclist because a car has run over his new expensive cell phone, the ultimate contemporary value.
The references and associations that arise are extremely relevant. The continuos links between a dark past and an everything but happy present bring to light the grey and sombre sides of life, the angst. The repeated attempts and failures of our history become evident.
This show could mark a pivotal moment between an art that particularly when politically involved was heavy with theory, often descriptive if not merely illustrative, and a practice reopened to the experiences of life, to the enigmas, the questions, the dreams and mares that are intertwined in human history. Instead of being conservative or seeking provocation through anachronism, Of Mice and Men could mark a beginning. A period where, exhausted the need of basing artistic research exclusively on the exploration of the possible limits, it could become evident how life (in spite of the absurd concept of the end of history) has again accumulated sufficient experience to present art with new narrative material.
And may be, it is also a reaction to that attitude of cynical detachment inherited from post-modern days when nothing anymore had the value of truth.
With the irreverent game aimed at the contemporary art system of the fake Gagosian gallery (among the exhibition spaces); with the interviews with the artists published during the preliminary research in collaboration with Zitty magazine; or the catalogue and show at Check Point Charley on the history of the buildings hosting the show; and with the very appropriation of the title Cattelan, Gioni and Subotnick make of the Biennale an intervention where they keep up with both the attention to the present and the ironic dimension that characterises their projects. However, here they go further than provocation for provocation sake. They aim to make an event of the Biennale itself, whose non mono-directional thread but physically and metaphorically contained between Auguststrasse and the graveyard, creates -with the inevitable street fair that happens- an image proper of classic culture: a carnivalesque swarm between aspirations and tragedies in an extremely limited stretch of geography, in a sell by date lapse of time. A stage for the theatre of the absurd, a fair of deluded vanities that become a “group portrait of humanity” that “mirrors our sense of diffuse insecurity and the atmosphere of fear that pervades our present” (C,G,S)
May 2006
[Immagine: Self-Portrait as a Building, di Mark Manders. Grazie a Berlin Biennale per la gentile concessione.]
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Per le immagini che ho esplorato vedo che i curatori infatti hanno scelto immagini del verisimile, ossia fotografie che ritraggono oggetti, luoghi umani riconoscibili, attenti a rappresentazioni che danno ritratto o alludono a aspetti tristi se non tragico/ grotteschi della esperienza umana.
Ho dei grossi dubbi sul curatore italiano Cattelan,( il più noto e pagato artista contemporaneo italiano) credo, suppongo che abbia scelto artisti della scuderia del suo mercante. Nulla di nuovo.
Vedo che vi è pure un artista astigiano Diego Perrone che espone una foto che ricorda i tempi di Bunuel e Dalì.
Mah…Resto perplesso.
MarioB.
mi sa tutto troppo di preconfezionato. tutto asetticamente dejavù.
manca l’espressione fisica.
preferisco ancora di gran lunga il romanticismo “all’osso” di Marina Abramovic che lava scheletri veri con spazzola e detersivo o quello infinitamente malato delle corporee rimodellazioni bendate e intubate del fu ma attualissimo Rudolf Schwarzkogler…
cito:
II corpo che ha l’arte nel senso. Contatti che quale unico risultato hanno arte. La sensazione del liquido caldo sul corpo, che è arte. II corpo spaventato, spruzzata da liquidi freddi, palpita e trema ed é arte. II puro, semplice corpo sotto cascanti visceri, che ha l’arte nei sensi. II nudo corpo, che sta davanti a una tavola, e solo ai fini dell’arte ha gli organi genitali sulla tavola e indugia. Tutti i sentimenti esibizionistici, masochistici, omoerotici…combinano il corpo e non sono niente di anormale. La virtù terapeutica non consiste nel liberarsi da costrizioni, nello svincolarsi da inibizioni, o dall’annientare agressività, ma nella veggente densità del totale amorfo complesso-corpo. Con tutta l’energia essere sé stesso con tutte le proprie forze sentirsi privo di sutura nel Tutto essere serenamente solo.”
Heinz Cibulka, Fruhjar 1975
un saluto
paola
A me questa sembra una tipica nota di mestiere: le solite vaghe, pretenziose ma innocue retoriche funzionali alla reiterazione del gioco e dei suoi complessi tornaconti, con il pubblico chiamato ad esprimere le proprie irrilevanti “preferenze” in rapporto a “provocazioni” largamente arbitrarie, quasi totalmente scollate dalle teorizzazioni che si pretende esse possano supportare. Dico “quasi totalmente” perché ovviamente tutto può essere fatto significare tutto (“ogni oggetto è rotondo, se viene avvolto con carta sufficiente”).
Alla fin fine questo mondo dell’arte contemporanea è sempre più staccato scollato non solo dalla “gente”, dal grande pubblico ma anche da milioni di persone colte, istruite. A me sembra che su queste manifestazioni non ci sia da scrivere più nulla: (come dice wowoka) tutto può significare tutto (o alludere a tutto), non sono più gli oggetti in sè che dicono, sono i discorsi stampati ante e post, ma sopratutto gli oggetti dicono i loro prezzi e le valutazioni sul mercato.
Io vedo il collezionista d’arte contemporanea come un filatelico, un investitore, uno speculatore; con la diferenza che questi oggetti tengono più posto.
L’arte dell’immagine, in linea di massima, abita altri luoghi di comunicazione, il web, case editrici, riviste, studi televisivi, cinematografici, certe gallerie ed ha altre valutazioni.
D’altra parte l’arte contemporanea non pretende di essere arte d’ìmmagine nè di comunicare, le basta essere oggetto, oggetto di mercato.
MarioB.