L’esistenza di dio
di Sergio Garufi
Piove, dopo tre lunghi mesi di siccità. A Milano un uomo è affacciato al davanzale della finestra della propria abitazione e osserva il corpo di sua moglie steso sull’asfalto, venti metri sotto di lui. Lei è “supina, nuda, con le gambe aperte e un braccio di traverso”. La sua faccia lo guarda, mentre una pozzanghera rossa si allarga dietro la sua testa e intorno alla donna si forma un cerchio di persone. Adriano, il protagonista e io narrante della storia, sente in lontananza le sirene dell’ambulanza e della polizia e gli sembra di riconoscere per la prima volta quel suono, quasi fosse un segno inequivocabile del destino: l’inizio e la fine in cui precipita la sua vita. Così, con questa istantanea terribile, comincia l’ultimo avvincente romanzo di Raul Montanari, L’esistenza di dio.
L’incipit è formidabile, non solo perché con estrema sintesi l’adescamento del lettore è già perfettamente riuscito, ma anche perché imprime un ritmo teso e serrato alla narrazione, mette sùbito in moto la macchina della tensione e condensa in poche righe la struttura stessa dell’intreccio.
Borges, uno degli autori più amati da Montanari, in una breve prosa de L’Artefice scrisse che “al destino piacciono le ripetizioni, le varianti, le simmetrie“. L’esistenza di dio ne è piena, come peraltro accadeva anche in Sei tu l’assassino e in Dio ti sta sognando, tutti libri costruiti sul tema del doppio e su un programmato effetto di specularità. In quest’ultimo romanzo, le sirene dell’ambulanza e della polizia aprono e chiudono circolarmente la storia, riproducendo così la forma del capannello di curiosi che assistono alla morte di Sara, la moglie di Adriano. Ogni personaggio, inoltre, si accompagna e si riflette in un suo doppio complementare. L’integerrimo Adriano con l’amico Carlo, più scaltro e privo di scrupoli; poi Bruno, intelligente e fascinoso figlio di un boss mafioso con l’ottuso e violento guardiaspalle Rigoletto; e ancora Federica e Bianca, le due ragazze conosciute al ristorante con le quali Carlo e Adriano avranno una relazione, la prima bionda con gli occhi scuri e l’altra mora con gli occhi chiari. Ma questa dialettica di opposte polarità si potrebbe estendere a ogni singola figura, ciascuna in fondo rappresentante di un io plurale e contraddittorio; com’è evidenziato dall’episodio in cui Adriano, guardandosi allo specchio di casa, non si riconosce per via dello sfregio sul viso che quella superficie riflettente non aveva mai replicato; o dallo scherzo di Bianca, che imita alla perfezione le voci degli altri.
Il tema stesso del destino, che assieme a quello dell’onore, dell’amicizia, della colpa e del tradimento trasforma questo noir apparente in una modernissima tragedia greca, contribuisce a rafforzarne lo schema geometrico; dando così l’impressione al lettore che, in questo racconto, più che commettere assassinii si stia dimostrando un teorema. Recandosi deliberatamente al fiume, dove egli sa che rischia di morire, Adriano compie fatalmente il destino tragico che porta inscritto in sé. Alla radice del suo destino sta quindi un impulso profondo e irrazionale, al quale si sottomette per espiare un senso di colpa inestirpabile con la semplice ragione. Inutilmente, difatti, il medico Vincenzo, una delle figure più toccanti e riuscite del romanzo, cerca di convincerlo che non ha alcuna responsabilità per la morte della moglie (e il medesimo infruttuoso tentativo era stato fatto dall’avvocato-pittore). Inutilmente, perché quello di Adriano è un atto di libertà e insieme una coazione. L’obbedienza e la fedeltà a questo impulso si manifestano proprio nel modo sereno e non patetico con cui l’io narrante sceglie e accetta una fine infausta e sanguinosa, compiendo in pratica un suicidio indiretto (ma il finale è aperto, e sta al lettore interpretarlo). E l’abilità dell’autore si esprime anche e soprattutto nel farci avvertire tutta l’inesorabilità di quel drammatico epilogo. Il suo è insomma un percorso penitenziale che si conclude con un sacrificio, e il sangue sarà lavacro che purifica da ogni peccato, la violenza l’unico strumento possibile per il ripristino della dike, la giustizia intesa in senso cosmologico, come armonia e misura del mondo.
Come già avvenne ne La perfezione – l’opera di Montanari che tanto piacque ad Aldo Busi – il fiume è il polo magnetico della propria perdizione e al contempo il luogo di riscatto per i veri colpevoli. L’accostamento ossimorico di ciò che è sempre stato visto come metafora della vita e del tempo che scorre, e che ora diviene invece simbolo di attrazione mortale, è il più chiaro esempio della polisemia e dell’ambiguità di questo testo, che tanto disorienta il lettore. E i fiumi e i laghi che fanno da sfondo a tanti romanzi di Montanari sono forse in qualche modo i responsabili della perturbante sensazione di disorientamento che si prova nella lettura, come di un immersione dalla quale si fatica a riemergere, presi come si è in un gorgo che ti trascina al fondo dell’abisso per restituirti alla superficie solo a narrazione conclusa. Lo stesso vortice emotivo che scuote pure Adriano, preda dei rimorsi per la tragica fine della moglie. Curiosamente, Sara è morta sin dalla prima pagina, eppure tutto il libro testimonia che l’esistenza del marito non è rischiarata da altra luce che quella che irradia dalla sua dolorosa assenza.
Cercando un senso e un lenimento alla propria disperazione, Adriano interroga e incalza “il Dio assente e pietoso” (com’ebbe a definirlo in un’intervista concessa a Fulvio Panzeri) che si affaccia nella lirica epigrafe di Caproni (“Mio Dio, anche se non esisti / perché non ci assisti?”); senza però ottenere risposta. Si rifugia così nella fantasia, reinventandosi ogni notte, prima di addormentarsi, la sua storia d’amore con Sara. E’ la sua “fiction personale, arrivata forse alla cinquecentesima puntata”, fatta di cose vere e di episodi immaginati. Altre volte – e sono pagine di rara e struggente intensità – Adriano si prende una vacanza dalla sua vita, dal suo nome, dalla memoria, e si concede “una passeggiata nella vita di un altro”. Vede una faccia che lo colpisce e immagina di essere lui, di incontrare “i suoi amici, la sua famiglia”, figurandosi “incidenti e avventure fin nei minimi particolari”. Ma sa anche che è solo una breve pausa nel martellante requiem che scandisce la sua esistenza, e che l’immaginazione agisce sempre come un servo meccanismo di compensazione per gli smacchi della sorte. Lo smascheramento delle illusioni è la consapevolezza che non c’è riparo alle imboscate della vita. Consiste nel capire, come dice l’anziano medico Vincenzo, che vige per tutti un’unica legge: “Invecchiare e morire, buoni e cattivi, sani e malati, senza colpa, senza poterci fare niente. Io ne ho visti tanti. Li ho visti tutti. E’ questo il male assoluto”.
Come ogni grande moralista, Montanari ha un solo reale interesse: la natura umana, con le sue miserie e i suoi splendori, i dilemmi etici e le aspirazioni all’assoluto; e scrive affinché questa natura si riveli pienamente, nelle sue ombre e nelle sue luci. Il sacrificio (da sacrum facere) finale di Adriano sarà dunque un’offerta al “grande papà celeste” di cui tutti siamo orfani, e le parole di conforto rivolte agli amici e a Sara nell’istante fatale saranno la prova che al fondo della più cupa disperazione riluce sempre una tenace, perfetta letizia.
(pubblicato su Stilos, 23 Maggio 2006)
Se c’è una cosa di NI che mi piace è questa capacità di farmi sentire piccolo-piccolo in tutto questo mondo di scritture (anche italiane, soprattutto italiane) a me ignote. Fortuna che non c’è solo Melissa! Mi piace molto il tema dei fiumi e dell’acqua mentre mi mette in apprensione la definizione di “moralista”, ma penso sia un mio preconcetto.
Piccolo OT per Garufi: la discussione del pezzo su Wallace/l’intelligenza degli scrittori è ancora aperta? Perchè ho appena finito Verso occidente e ci ho trovato una bella discussione su tutto l’argomento e poi mi sa che non ho capito la differenza intelligenza/consapevolezza del proprio scrivere e altre cose sulla narrazione-che-non-deve-essere-avvertita-come-tale-ma-farsi-da-sé. Però sarà il caso che elabori qualcosa di compiuto e lo posti da qualche parte prima di (eventualmente) ricominciare con Wallace. Chiedo scusa per l’OT ma mi sembrava il modo più semplice per “avvertire” Garufi e non intasare la NI mail.
guglielmo, ho visto il tuo blog e se non ho capito male sei molto giovane, per cui qualche lacuna è più che giustificata; e ad ogni modo compensata ampiamente dalla conoscenza di DFW. se ti va, scrivi sul tuo blog le impressioni che hai ricavato dalla lettura di “Verso occidente” e io proverò a dirti le mie.
caro sergio, missione compiuta, scusa se non ho risposto ieri ma ero impegnato a invecchiare (19). Adesso c’è tutto o, forse, una prima parte visto che il mio tasso di paranoia per Wallace e superiore a quello del poster del te di Pem… [Terribilmente off-topic, ancora]