Scrittore morto con natura (e viceversa)
di Piero Sorrentino
“Un gorgo di acqua limpida” (Nero.). “Un telefono che suona” (Dellamorte Dellamore e Non è successo niente) . “Un rumore” (Il tornado di Valle Scuropasso).
Nei romanzi di Tiziano Sclavi si entra sempre come per caso. Laddove qualunque altro narratore si affretterebbe prima di tutto a scrivere di quel gorgo, di quel telefono, di quel rumore, Sclavi non prova nessuno sgomento nel cominciare le sue storie con la certezza che la scena d’apertura promossa a incipit è una scena qualsiasi, una sequenza come un’altra. E senza troppi brividi sposa la lontananza, l’indefinitezza, la sfumatura, la vaghezza dei riferimenti. L’impegno di costruire un romanzo è tenacemente legato alla necessità di distruggere, di sovvertire, di ribaltare. Di scompigliare le carte del romanziere e mischiarle con quelle dello sceneggiatore.
E stavolta è proprio uno sceneggiatore (anzi, uno scrittore che una volta scriveva anche fumetti) il più che autobiografico protagonista del romanzo. Costretto da una malattia (che si intuisce di origine psichica più che fisica) ad assumere regolarmente farmaci che scandiscono il ritmo lento delle sue giornate, lo scrittore vive in una villetta isolata nella campagna lombarda, che sembra più che altro possedere i tratti della brughiera inglese. Qui, tra una visita di una silenziosa donna delle pulizie e un’occhiata all’altrettanto silenzioso, e unico, vicino di casa, il solo filo che lega alla realtà la psiche traballante del protagonista è quello del telefono, per mezzo del quale il dottor Deicas segue l’evoluzione della terapia farmacologica del paziente. Per il resto, è, per dirla con Ottieri, tutto uno zampillare d’irrealtà quotidiana. Il supermercato nel quale lo scrittore va a fare provviste scompare e riappare. Gli oggetti del soggiorno levitano, turbinando nella stanza. Strani rumori nel cuore della notte. Luci. Dischi volanti, forse. Alieni alla porta di casa – e anche dentro casa.
Sclavi è uno strano fabbro. Fa prima le chiavi e poi le porte. La chiave per aprire il suo ultimo romanzo stava in edicola 15 anni fa, nel numero 61 di Dylan Dog, Terrore dall’infinito. 1991-2006: una delle più lunghe azioni situazioniste della storia della letteratura. Certo, il romanzo si legge e si apprezza anche senza quella. Ma volete mettere tra lo sbirciare nel buco di una serratura e lo spalancare un portone con la toppa imbottita del pezzo di ferro giusto?
Sclavi è anche uno strano romanziere. La via narrativa che indica è lastricata di niente. Non è neanche segnata da un modello superiore, riconoscibile. Sclavi da piccolo deve aver letto Sclavi. Si è formato su se stesso. Si bea della liquefazione interna della sua lingua. Deviata continuamente verso un intimo dissidio tra dire e tacere, la frase di Sclavi si presenta al lettore con un furore antinomico che lascia quasi scorati. Sembra sempre sul ciglio di una reticenza assoluta, eppure va avanti, va fino in fondo. “Non posso continuare. Continuerò” (Samuel Beckett).
È attraverso questo continuo rilascio di zavorra semantica che le mongolfiere narrative di Sclavi prendono quota. Il tornado di valle Scuropasso è, in questo senso, l’ennesimo esempio di storia svuotata dalla profondità del mondo attraverso una ricerca del grado zero della scrittura che può durare mesi, o addirittura anni. Intervistato da Andrea Raos su Nazione Indiana, Sclavi ha detto: “La lingua, molto più della struttura, è per me fondamentale. È la ricerca più faticosa e lunga – a volte dura molti anni, come nel caso del mio nuovo libro, Il tornado di valle Scuropasso: un romanzo “di fantascienza” piuttosto corto, ma la cui gestazione, proprio a causa della ricerca della lingua, è durata cinque anni -. Anche se mi viene l’idea per una bella storia, non la racconto finché (se) non trovo il linguaggio giusto. Al contrario, se ho l’idea della lingua, posso anche mettermi a scrivere a braccio, con solo un vago canovaccio in testa: la storia verrà da sé, sarà la lingua stessa a crearla”.
Insomma, “verba tene, res sequentur”.
La lunghissima gestazione – ed è questa un’altra delle sorprese del Tornado – non è però dovuta a operazioni di asciugatura, di rastremazione sintattica o semantica. O meglio, non solo a quelle. La scoperta più interessante sta nel notare come nel raffinatissimo massacro della pagina (Sclavi licenzia fogli che sembrano calligrammi, frasi, o anche solo parole, che galleggiano nel bianco abbacinante della carta) si annidano trovate linguistiche, onomatopee, neologismi, prestiti dal linguaggio dei fumetti, inserti presi di peso dalla struttura della sceneggiatura cinematografica e impiantati nel corpo del romanzo (c’è anche un omaggio nascosto a Memorie dall’invisibile, quella che, assieme a Dopo mezzanotte, è probabilmente la più bella storia di Dylan Dog finora scritta da Sclavi). Le descrizioni sono precise, i dialoghi raramente più lunghi di dieci parole. A Sclavi non importa sbalordire con le immagini. Le immagini risultano stranianti perché straniato ne è il linguaggio di costruzione.
Qualche esempio.
“Alle cinque il cucù cominciava a cuculare”. “Il bagliore, baluginìo, scintillìo, shining, stava diventando più forte”. “Silvestro. Era là, lontano. Zoom. I suoi occhi erano enormi e luminosi. Zoom. Nelle sue pupille c’era il riflesso dell’incendio”. “Stacco. La villa nel bosco (…). Stacco. Sono in soggiorno”. E poi anche: “Driin”, “Craaaaaaack”, “Sbam”, “Bip biiip biiiiiiip”, “Brooom”. Onomatopee da fumetto. Balloon verbali, insomma, che lampeggiano come tanti led, segnalatori di un piano di realtà scollato dal reale reale.
Il linguaggio nudo al quale Sclavi si affida per Il tornado è tuttavia vestitissimo, attillato in una guaina stretta addosso al corpo del romanzo, un guanto che c’è e non si vede. Procede per parole sgravate dalla pesantezza del senso, grumi linguistici fortemente allusivi e tuttavia appena articolati. Ritmo, misura, ordine, movimento scenico: ai quattro punti della bussola narrativa di Sclavi stanno queste uniche parole. Bastano due tratti, una battuta di dialogo, un aggettivo secco, un suono, e la scena sboccia. “Sono rimasto solo. Ho guardato fuori dalla finestra. C’era vento. Le foglie roteavano in un piccolo tornado”.
Una spirale della paura, un vento pieno di fantasmi, un’ossessione angosciante, questa Valle Scuropasso.
(pubblicato su Stilos, anno VIII n.ro 11)
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Descriverei questo libro con una sola parola: angoscia.
Bello, ma non quanto “le etichette delle camicie” che, per me, resta il suo migliore.
Ultimamente si sta riparlando di Tiziano Sclavi. Perché ri-parlando? Perché se ne parlava, e molto, una ventina di anni fa. Noi, giovinastri milanesi più o meno fotografi-scrittori-giornalisti-pubblicitari e quant’altro leggevamo Dylan Dog, in metropolitana, a casa, nei parchi. Intorno al suo autore era stato costruito un complesso sistema di miti, di leggende, che probabilmente corrispondevano a una parte di verità, che ammantavano il personaggio di un’aura speciale di mistero (e quindi perfettamente funzionale al fumetto). Si diceva – e lo scrivevano Il Corriere della Sera, La Repubblica e soprattutto i periodici come Max, Amica, Vanity Fair, mica delle fanzines – che non esistevano foto di Sclavi perché lui non era in grado di vedere nessun essere vivente a parte il suo psichiatra; che viveva murato vivo in casa in un punto segretessimo di Milano; che non rilasciava interviste, mai, perché l’esperienza emotiva di una intervista lo avrebbe condotto in ospedale. C’erano quindi questi servizi sul personaggio che nessuno aveva mai visto, e qualcuno, tanto per soffiare un po’ sul focherello, arrivò persino a mettere in dubbio la sua esistenza. Ora finalmente lo vediamo, c’è persino una sua foto, e non si può non riconoscervi il tratto di Dylan Dog nel suo ritratto. E ha rilasciato addirittura una intervista a Andrea Raos, che quindi sa se la leggenda su di lui ha un fondo di verità. Intanto l’importante è avere stabilito con certezza che Tiziano Sclavi esiste davvero, ed ha addirittura un volto.
Tiziano Sclavi è un grande. Punto e basta.
Beh, “Dopo mezzanotte” era poi “Fuori orario” di Scorsese.
Ma Sclavi è bravissimo, piaccia o non piaccia, è uno dei pochi inventori di qualcosa.
Sono d’accordo. Ora che finalmente si è usciti dal mito sottoscrivo che Tiziano Sclavi è un grande.
@piero sorrentino
@baldrus
Una volta il professor Fausto Colombo ha definito Tiziano Sclavi un “intellettuale-topo”, un artigiano che ha saputo scavare una nicchia, e poi una trincea, nel mercato culturale, senza perdersi d’animo, ma continuando a trovare materia d’ispirazione in se stesso e nei suoi incubi.
Che poi è il nucleo new-romantic del tormento dylaniano, la sensazione di “irrealtà quotidiana” che proviamo ogni volta che entriamo in un supermercato per fare la spesa.
Sclavi è stato uno dei primi italiani a scrivere arte seriale. “E’ un appassionato di horror, un colto citazionista,” dice Colombo, “che non ha mai pensato di diventare ‘Autore’ come tanti giovani registi anni settanta usciti dalla scuola sperimentale di cinematografia”. Meglio i fumetti, insomma, la Bonelli’s way.
http://www.triennale.it/index.php?idq=279
Il discorso di Sorrentino sulla ‘scrittura visiva’ prefigura una letteratura per immagini ricca di opportunità. Le onomatopee, per esempio, si trasformano in SEGNI sulla pagina. Il suono della lingua diventa un concetto-totem, come fanno i grandi mangaka. Provate a raccontare una storia così, è molto più divertente.
http://www.triennale.it/index.php?idq=279