Arno Schmidt: il potere della letteratura contro la retorica verbale

di Franz Krauspenhaar

Arno_Schmidt.jpgNel 1953 lo scrittore tedesco Arno Schmidt dà alle stampe Dalla vita di un fauno, che fa parte della trilogia “Nobodaddy’s Kinder” la quale abbraccia in una stretta narrativa il periodo che va dalla seconda guerra mondiale fino all’era postatomica di un immaginato conflitto mondiale. Schmidt (1914-1979) fu un autore di culto. Erede ribelle dell’espressionismo, lo superò diventando con il duro lavoro svolto nel suo isolatissimo laboratorio il capostipite dello sperimentalismo nella letteratura tedesca contemporanea. Considerato da molti illeggibile, Schmidt è uno scrittore che va semplicemente letto e riletto, consumato con pazienza e dedizione; fu un “battitore libero”, un anacoreta della letteratura, un prismatico “taglialemma”, nel senso di uno scrittore che spesso frantuma le parole che usa per crearne altre con un virtuosismo che si sposa – con esiti inauditi- assieme a una vena profonda di humour. Arno Schmidt è stato un personaggio complesso, che ha edificato una sua personale babele linguistica nella sua lingua madre; un uomo che costruì mattone su mattone la sua letteratura lungo decenni di lavoro solitario e senza compromessi.


Finalmente, dopo più di mezzo secolo, Dalla vita di un fauno appare in una versione italiana per la neonata casa editrice napoletana Lavieri (pagg. 144, euro 15.00) grazie alla preziosa e difficile opera di Domenico Pinto, giovane studioso di letteratura che ha lavorato alla traduzione del libro con un’abnegazione da copista medievale e ha scritto l’introduzione, curando anche un apparato di note al testo di significativa utilità. Dalla Vita di un fauno è una narrazione ellittica in snapshots, cioè istantanee di poche righe che dovrebbero (se fossero davvero adibite a questo scopo) ordinare il caos della vita; ma fatalmente, per una sorta di effetto paradosso causato dal modo di procedere di Schmidt, genera un caos ancora maggiore. È inutile tentare di archiviare tutta la realtà, e queste istantanee sono un’ ulteriore, viva testimonianza del caos in cui da sempre versiamo e in cui per sempre verseremo; in un certo senso Schmidt ha finto di voler racchiudere la realtà per meglio farla esplodere, e per avvinghiarsi all’unico realismo per lui possibile, quello di una ricomposizione della realtà cui tende la sua innovazione linguistica.

La storia, se così la si può chiamare, è quella di un certo Düring, impiegato nel circondario di Fallingbostel, paese della Lüneburger Heide, la regione- pianura situata in Bassa Sassonia nella quale Schmidt visse nel suo instancabile, coriaceo isolamento per la gran parte della sua vita. Ha l’incarico di creare un archivio storico per il suo circondario, e il suo lavoro d’archivio finalmente si armonizza con la sua vita extralavorativa: in questo modo, infatti, può finalmente sfogare la sua passione per la catalogazione. Molto più avanti ottiene un nuovo incarico ad Amburgo, e al ritorno trova una capanna che sarà l’alcova dei suoi incontri clandestini con la giovane Käthe, detta “la lupa”. La capanna è il rifugio di un disertore francese napoleonico che Düring aveva “pedinato” di ricerca in ricerca a seguito del suo incarico d’archiviazione storica; e Düring, a questo punto, non può fare a meno di sentirsi spirito affine a quel lontano disertore, a quel rivoltoso nella fuga.
Come spesso nei personaggi di Arno Schmidt, anche questo è un rivoltoso silente nei confronti del potere, un difensore delle cause perse che, grazie al suo agire pensante, al suo registrare la realtà, riesce a non soccombere alla forza potentissima del regime nazista con le parole, quelle del suo libro “registrato”. Se il regime ha creato l’ipnosi collettiva di tutto un popolo in buona parte con parole di slogan, l’individuo Düring risponde pensando e scrivendo, o scrivendo-pensando, in strenua opposizione, usando le medesime armi ma in modo diversissimo: si sprigiona così con originalità il potere oppositivo della letteratura che urla nel silenzio il proprio grido individuale, vitalissimo.
Il magma sottile di questo raccontare in un discontinuo presente è fatto da “istantanee” (in sostanza capitoletti) impilate una sopra l’altra, che recano al lettore quasi sempre un effetto straniante ma che suscita spesso, anche, una trattenuta ilarità. Questi snapshots che compongono il Fauno con una tecnica da fotoalbum tramite precise scelte tipografiche, (ecco in che cosa consiste la tecnica nuova dell’autore) sono insomma come strappate da una memoria in degrado; forse, in parte, la memoria dello stesso Schmidt, che parzialmente presta certe sue caratteristiche come l’ateismo, lo studio delle scienze esatte, il pessimismo sull’uomo, a questo Düring che scatta le sue istantanee verbali partendo dal 1939 e finendo col già tragico e pregiudicato destino del Reich tedesco ormai consolidatosi nel 1944.

Diviso in tre parti, il romanzo è anche una finta cronaca che fa a meno d’ogni descrizione compiutamente afferrabile per continuamente evadere nell’illusorio delirio concretato in un affascinante “nessun continuum” (così dice della sua vita il Düring all’inizio) d’invenzione verbale, in un funambolismo tagliente e allo stesso tempo dinoccolato. Quello dello Schmidt di questo libro è un espressionismo linguistico che riporta all’inizio degli anni ’20: la lingua del presente in cui si svolge l’”azione” (39-44) schiacciata dal regime nazista a colpi di propaganda, in certo senso chiama a gran voce chi legge a ritornare a quella, “degenerata”, dell’espressionismo ormai reso inutilizzato dal regime.
Il periodo dal 1939 al 44 in cui si sviluppa l’azione pensante di Düring fatta di pensieri rincorsi continuamente e brevi dialoghi, viene ridicolizzato da questa prosa pluviale come la pioggia che cade sull’Elba della Bassa Sassonia, scritta in un tedesco impoltigliato dal dialetto della regione. Questa parte significativa di commistione linguistica ardita ma sempre fluidificante serve anche all’autore, a mio avviso, per rendere ancora più feroce il suo distacco dalla memorialistica dello sfascio tanto in voga in quel dopoguerra nel quale il romanzo fu composto; forse perché ogni raccontare “corretto” e preciso di quello sfascio è divenuta una fatica inutile, un compito impossibile, forse anche una sofferenza della quale la letteratura può fare a meno; molto meglio perciò dettagliare ossessivamente nel discontinuo presente di una specie di nuova lingua.

Dalla vita di un fauno è ambientato in buona parte nel paesino di Bargfeld, dove l’autore visse in quasi totale isolamento; (ecco uno snapshot che rientra in questo discorso): “(Le regioni montuose non le amo: né il pastoso dialetto dei loro abitanti, né la terra dalla innumerevoli arcate, barocco tellurico. Il mio paesaggio deve essere pianeggiante, piatto, brughiero, per miglia e miglia, foresta, prato, nebbia, silenzioso)”. Lo Schmidt era isolato oltretutto in una delle regioni più provinciali, forse, dell’intera Germania; nel senso che questa provincialità profonda è visibile a occhio nudo proprio nella Lüneburger Heide, pianura circondata da Amburgo (nord), Brema (ovest) e Hannover (sud) e che costeggia la frontiera con l’Olanda, verso Celle, dove tra l’altro Gadda fu prigioniero nel 18 ricavandone penose impressioni. Qui fa spettacolo un teatro del mondo dal quale far srotolare una specie di matassa universale: il provincialismo universale di molta letteratura tedesca (pensiamo a Böll e a Grass) diventa l’interpretazione di una visione per l’appunto universale perché è solo dall’infinitamente piccolo che si può forse arrivare a comprendere – sempre che questo a noi importi – il mondo degli uomini. Ma questi uomini, che in questo romanzo non romanzo sono in fin dei conti delle sagome piuttosto rilevate ma pur sempre sagome, altro non sono che dei pretesti narrativi che servono all’autore per far rifunzionare dopo la disfatta del nazismo la lingua tedesca divenuta in tempi di regime, se proprio non morta, un congegno comunque quasi del tutto depotenziato; per reinnestarla a capo della sua baionetta, questa lingua, una volta che gli snaphots, sorta di dadi da brodo ristrettissimo per gli occhi e per la mente, sono stati disciolti nella lettura.
Metafore sonore (“oh-iss-sbuffo di ferrovia”), neologismi (“cucinitudine”, “presticogitatore”, “caffèrnao”) per fare solo pochi esempi; immissioni a dura forza nel popolare letterario; provocazioni varie; raffigurazioni da riviste per parrucchieri; molto e forse quasi tutto che sia a portata di mano e di penna nel catalogo delle paccottiglie verbali, frammiste a citazioni e rimandi alti, serve a Schmidt per quagliare il suo brodo letterario contaminato, per operare non solo uno sperimentalismo formale ma soprattutto linguistico.

Dalla vita di un fauno, assieme a tutte le opere di questo scrittore che in Germania viene considerato un gigante, è soprattutto il tentativo di dare una spinta evolutiva in senso personale alla lingua tedesca. Certamente, dunque, il discorso nasce e muore con Schmidt, ma i tentativi più difficili, se sono opere di questa altezza, divengono per forza di cose esperimenti riusciti; e se restano monadi lo sono comunque in maniera raggiante nello spazio interminabile della letteratura del Novecento.

Dalla vita di un fauno è un romanzo che in Italia davvero ci mancava, un tassello di grandi dimensioni facente parte del grande mosaico della letteratura cosiddetta sperimentale; e questa tardiva apparizione nel nostro paese viene a colmare un vuoto che, in una visione internazionale dell’arte dello scrivere, può divenire un buon passo avanti per una comprensione sempre più allargata, per uscire sempre più – questa volta con un salutare cammino a ritroso- dai nostri confini spesso angusti, dalle nostre piccole beghe, dalle polemiche letterarie settimanali – intense fiammate di tempistica paragonabile agli scandali dei vip da rotocalco- , dai “capolavori meteora”, fabbricati in catena di montaggio per le nostre collezioni letterarie autunno/inverno e primavera/estate.

(Pubblicato su “Stilos” – 23.05.2006)

(Nota: su Arno Schmidt sono già apparsi su Nazione Indiana altri 3 contributi: Il Leviatano, Presentazione di Dalla vita di un fauno, Il primo capitolo di Dalla vita di un fauno; oppure digitare “Arno Schmidt” nella finestra “search”.)

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20 Commenti

  1. Il difficilismo è la malattia infantile dello schmidtismo.
    Spero che questo tuo bel pezzo, caro Franz, incoraggi a lanciarsi in uno scrittore che, superati i primi cinque minuti di sconcerto, fa viaggiare davvero molto lontano.
    Grazie, ciao,
    Andrea

    p.s. massì, magari anche dieci, via, che sarà mai…

  2. Messo in lista: se ne consiglia la lettura prima o dopo L’arcobaleno di gravità? In tutta questa mia ignoranza mi chiedo anche se il fauno rimandi a Mallarmè… non è che si incontri tutti i giorni un fauno in un titolo.
    Complimenti per la definizione delle collezioni letterarie autono/inverno e primavera/estate: restituisce a pieno l’immagine di quei libri che stanno alla letturatura come l’informazione sta agli ultimi minuti di studio aperto.

    p.s: se anche è un quarto d’ora che male c’è? le aspettative create dal pezzo valgono almeno una mezz’ora di “hei! ma che sto leggendo?”.

  3. Bravo Franz.
    Ho in mano da stamattina il libro di Schmidt e ne ho avuto subito un’ottima impressione: Domenico Pinto e l’editore hanno fatto davvero un lavoro egregio; lo leggerò prestissimo.
    Per il resto, condivido le osservazioni e le speranze espresse nell’ultimo paragrafo della recensione.
    Ciao, StZ

  4. ANTANGARDE

    i 3 colossi, Joyce Gadda Schmidt, fanno la stessa mossa: vanno contro il linguaggio che c’è. Il motore è il sesso, il linguaggio normale fa da censura. Essendo i colossi in questa lotta dei nani, usano l’astuzia, i.e. s’insinuano. Il più sporcaccione è Joyce, che è un sessuale-polimorfo-gesuitico e ha a che fare con un inglese medio: sessualizza ogni parola, e per un italiano è l’autore più ostico. Gadda ha davanti la retorica scolastica: la maestra, il cattedrattico ecc.: è tendenzialmente misogino ergo sempre con la fica in testa, risulta soprattutto per noi il più comico & potabile. Il crucco è un Lumpen, animale braccato da preda, punta sempre al sodo per via di necessità (il comico deriva dal fatto che spesso sbaglia mira). Il cinico, lo stoico e l’epicureo, in ordine inverso e con spruzzate ovunque di scetticismo.
    Schmidt penso sia stato ostico ai contemporanei, ma noi dopo la rivoluzione del videoclip lo beviamo di gusto dopo poche pagine. Lui fa come dei storyboard con incorporata l’inquadratura, e come nel montaggio digitale attuale cattura subito (se uno spettatore di 50 anni fa vedesse un film anche hollywoodiano di adesso, sverrebbe: to clip vuol dire tagliare, il clip è un pezzetto? Quello che ha fatto Essere John Malkowich s’è fatto da sé, e ha sfondato con un cortometraggio sulla merda: il record dei tagli ce l’ha ancora Carmelone – 6 al secondo in Salomé)

    complimenti a FK, ma sarebbe bello sentire il traduttore (quello sì che deve aver fatto una fatica bestia!)

  5. scrittori in “erezione” continua.
    s c r i t t o r i. che si sono messi in gioco.
    hanno messo in gioco e al giogo i loro testicoli, hanno denunciato la loro orchite. la loro impotenza. la loro sessuofilia e sessufobia. etc etc
    le loro sono emottisi e eiaculazioni che vanno conservate.
    e vale la pena di vivere solo per finire un libro di Schmidt.
    un saluto
    paola

  6. @ Franz

    Die Schöpfung lebt als Genesis unter der sichtbaren Oberfläche des Werkes. Nach rückwärts sehen das alle Geistigen, nach vorwärts, in die Zukunft, nur die Schöpferischen. Die vielen Werkchen führen letzten Endes dahin. Das Ende heim zum Anfang fand.

  7. @db

    Aneddoto:

    correva forse l’anno 1963, Emilio Picco era al lavoro sui racconti dell’antichità, quelli poi riuniti in Alessandro o Della verità. Sono racconti densi di echi e citazioni, dottissime canagliate a cui dare la caccia (uno di questi, Cosma ovvero La montagna del Nord, 3 ore scarse di lettura, ha meritato di recente un manualetto di 216 pagine): nulla di più normale dunque che il traduttore scrivesse a Schmidt, già trincerato a quell’epoca nella leggendaria casetta nella brughiera, nei dintorni di Celle. Passa del tempo, Picco aspetta, arriva la lettera di risposta; ma le poche righe sono della moglie Alice: “Arno dice di non avere tempo per tali sciocchezze”.

    E bisognava veramente affrettarsi: i sei anni rapinati dal nazismo, le precarie condizioni di salute (sono del 1956 le prime avvisaglie di problemi al miocardio – l’esattezza del caso vuole proprio allora l’uscita del romanzo Il cuore di pietra): sapeva insomma di avere poco tempo, per sloggiare dalla vita e trasferirsi nell’opera, carabattole e tutto, con il suo canone privato. Muore a 65 anni, per un ictus cerebrale: ha lasciato dietro di sé forse il libro più complesso e vasto del Novecento, Zettel’s Traum, varie opere mondo, l’impulso a una nuova ricezione di Joyce, traduzioni e saggi, in Germania una comunità di lettori fortissima, ermeneuti del caos, arnonauti; ma soprattutto l’apertura a una semiosi illimitata, e una lingua di nuovo edificabile, regalo del boa constructor.

  8. Come ha scritto il vulcaniko Borso, il lavoro di Pinto sì che è stato veramente duro. Io personalmente mi sono avvicinato a questo libro lavorandolo “ai fianchi”, inizialmente girandogli intorno come fa un pugile attorno all’avversario prima di iniziare il combattimento. Qualche snapshot, le note, e poi via; il romanzo, a modo suo, “scorre”. Consiglio sommessamente di avere questo approccio ai futuri lettori di questo grande libro.

    Ora copio dalla “cronologia”, presente nel volume, tanto per dare qualche pennellata curiosa su Arno Schmidt:

    1964
    “A Schmidt viene conferito il “Fontanepreis” della città di Berlino. La laudatio è tenuta da Guenter Grass: “Io non conosco alcuno scrittore che abbia ascoltato la pioggia in questo modo, che abbia concesso così spesso repliche al vento e assegnato alle nuvole nomi di famiglia tanto letterari”.

    1970
    Dopo circa sei anni di lavoro compare Zettels Traum: le 2000 copie del dattiloscritto di 1352 pagine in formato DIN A3 – pubblicato da Stahlberg in fac-simile per l’impossibilità di riprodurne la vertigine tipografica di glosse, disegni, correzioni a mano e colonne – vanno subito esaurite.

    1972
    (Qui si parla del periodo della stesura di Zettels Traum, il gigante di cui ha accennato Pinto in un commento.)
    “Per la stesura di questo libro Schmidt ha compromesso seriamente la sua salute.
    La moglie riferisce: Non più passeggiate – nessun riposo in giardino – nessuna domenica – a malapena la possibilità di una conversazione: solo risposte assenti e nervose alle domande: nel migliore dei casi. Le sue labbra si muovevano, provando le parole, in un continuo mormorio. Totale noncuranza della propria salute. Totale indifferenza verso ogni cosa che non riguardasse Zettels Traum. Non prendeva visione di alcuna lettera. Non ha scritto a nessuno: per anni.”

    In Francia stato tradotto anche Zettels Traum. Se Pinto ne ha voglia, potrebbe raccontare qualcosa sia di questo che di altre cose riguardanti il Fauno e Arno Schmidt.

  9. @FK (al fk che è in te) – una curiosità. L’altro giorno, sfogliando riviste giovanil-fasciste degli anni ’30, mi sono imbattuto in uno scrittarello di Gadda. Siccome parlava di un pozzo e a Ubique siamo ricopioni, la notte stessa l’ho rigirato in cannetano (Canneto, come saprai, è la nostra Avignone) e postato. Mezz’ora fa, ripensandoci, mi sono ricordato che parla di birra et alia, di chiara derivazione teutonica: ergo era di Celle che parlava! Sarà facile trovarlo in qualche volume-raccolta: non ricordo più la rivista, ma il titolo è IL POZZO n. 14.

    NB il pezzo in Ubique (che avrà una continuazione) è firmato dall’ing. Vulvola

  10. Gran bel pezzo. Ero all’oscuro della pubblicazione e mi cimenterò presto nelle “istantanee” di inchiostro del grande Schmidt

  11. cercavo il Pozzo in rete: non c’è, ma ho trovato questo (a proposito di comico/stoico). del ’31

    *Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti: come paragrafi immoti della sapiente sua legge. Umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità, nella bestialità corrotto, e però atterrito dalla vanità vana del nulla, io, che di tutti li scrittori della Italia antichi e moderni sono quello che più possiede di comodini da notte, vorrò dipartirmi un giorno dalle sfiancate sèggiole dove m’ha collocato la sapienza e la virtù de’ sapienti e de’ virtuosi, e, andando verso l’orrida solitudine mia, levarò in lode di quelli quel canto, a che il mandolino dell’anima, ben grattato, potrà dare bellezza nel ghigno. La virtù, senza il becco d’un quattrino, è pur veneranda cosa: e questo si arà da sentire nelle mie note. Era ed è la legge che custodisce ed impone l’inutilità marmorea del bene, che ignora o misconosce le ragioni oscure e vivide della vita, la qual si devolve profonda: deformazione perenne, indagine, costruzione eroica.
    «Umbra profunda!», diceva di sé l’Arrostito…*

  12. gli scozzesi mettono in rete il Gadda che non c’è da Garzanti! (compresa la ricetta del risotto – NB vialone)

    http://www.arts.ed.ac.uk/italian/gadda/index.html

    e poi questa prosa di donna…

    *I sensi sotto il fascismo? Fecero il loro mestiere, erano dei poveri canali. Il nuovo standard obbligativo doveva versarsi nella persona. Furono i pitali d’elezione del programma di Bonifica, la sovraordinazione dell’individuo e del paese nello stato. Oh la bontà, la giustezza, la nobiltà del progetto e del progettatore. Ma anche la fesseria, il ridicolo assoluto, anche l’orrore della storia attuale, e di sempre, perché l’umanità è inemendabile, e Platone incurabile: perché il Gran Capo e Gran Mente Nostrana non diede, ai fatti, che spettacolo d’infinita vergogna.
    Qualcosa, cioè, nella corruzione collettiva per pressione del collettivo, finì col resistere. Fu questo il mito di un personale, di un sensoriale antifascismo? Corrotto, consenziente, Gadda si dissociò – presto? subito? quando? – dagli associati, il mito di Eros e Priapo. Vantava, nella generale disperazione dei sensi, un naso discreto. Un motivo di naso. Alla Carlo Borromeo, alla tagliamare, da fenderci il destino. E in più canna capiente, potente, sensibilissima. Senza esitazione aveva categorizzato il fascismo come lezzo di materia morente. Bastava ora, all’assoluzione, quel naso erotizzato dall’epoca? poteva bastare l’aver grufolato e gavazzato nell’irragione dei tempi, a scopo denuncia?*

  13. @FK

    Da Zettel’s Traum sono state tradotte in francese solo queste pagine (le stesse presenti nel sito prima citato):

    ZETTELS TRAUM – ZT 547-552 – Französische Übersetzung von Claude Riehl
    Antigone – Revue littéraire de photographie -, Lédignan, No. 19/Printemps 1994, p. 54-67

    Una traduzione (il termine andrebbe ripensato) integrale di ZT, per le dimensioni dell’opera e per la sua difficoltà, sarebbe il compito di una vita, di più vite, di una squadra di taglialemma e decifratori: dovrebbero organizzarsi, avere una rappresentanza sindacale, meglio, dovrebbero costituirsi in associazione paramilitare, occupare la Biblioteca del Congresso, minare gli ingressi, lì mettersi con calma al lavoro. Poi forse mettere radici, come nell’immagine in copertina del libro: http://images-eu.amazon.com/images/P/3100706072.03.LZZZZZZZ.jpg

    Oppure, se uno non ha i soldi per una grande azione, può ritirarsi a lettura privata. Nelle parole di S.:

    Certo, se uno avesse denaro….. ora lo saprei impiegare bene: una minuscola casetta nella brughiera (ottomila massimo; non come questi istituti di credito immobiliare che largheggiano con ventimila quasi fossero noccioline); nella stalluccia una Isetta; un migliaio di libri scelti: poter una volta in tutta calma rivedere l’‹Insel Felsenburg›, l’‹Estate di san Martino›, oppure Lessing dalla A alla Z; per la notte un materasso vero su cui adagiarsi (non più quest’esile lettiera pellerossa del divano!); non dover scrivere più nulla per un tozzo di pane, nessuna ‹prosa sperimentale›, mai più arguti ‹Saggi›, niente ‹Programmi Notturni›; saranno tollerati solo gli orologi silenziosi, quelli a sabbia e solari, o al limite in corridoio una vecchia pendola, che per le eternità tutte, dopo che molto e molteplice si è pensato, dicono ‹Mmgià› tra di sé. Guardare tramontare la luna, sopra solitudini di prati, tutto rosso sarebbe diventato l’essere argenteo, ad affondare in fascia di nebbia e greca di pini.

  14. *Mi misi in bocca la quantità di pane che bastava per tre minuti di masticazione, poi ritrassi le mie facoltà di percezione sensoriale e mi ritirai nell’intimità della mia mente, mentre i miei occhi e il mio viso assumevano un’espressione vuota e preoccupata. Tema della riflessione: le mie attività letterarie.*
    Potrebbe lumeggiare l’ottimo Miku i rapporti tra questo e il suo autore (o in subordine/per sineddoche tra schnaps e birra scura)?
    Grazie

  15. E in ogni caso, anche se è vero che uno scrittore che sperimenta così fortemente nella lingua soffre sempre ad essere tradotto, al di là della passione e anche della genialità del traduttore (dai pezzetti che ho visto ho avuto l’impressione che sia un lavoro eccellente) credo che comunque una parte non piccola passi in ogni caso, come appunto è passato Joyce. Franz ha ragione “se restano monadi lo sono comunque in maniera raggiante nello spazio interminabile della letteratura del Novecento”.

    E mi augurerei che lo leggessero anche gli scrittori mainstream, che non possono che trarne vantaggio.

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