Sostenibile a chi?
di Maria Luisa Venuta
“È sostenibile”. È affermazione che si sente spesso. Sostenibile può essere un lavoro. Sostenibile è una vita o anche una sola decisione. Sostenibile come? Sostenibile quanto?
Dietro al termine di sostenibilità si nascondono diversi concetti e interpretazioni. Due documenti ufficiali ne definiscono le basi concettuali: l’Agenda 21 votata in conclusione alla conferenza UNCED di Rio de Janeiro nel 1992 e il Rapporto Bruntland del 1987.
In entrambi la sostenibilità si traduce in un atto di responsabilità che le generazioni attuali hanno nel consegnare alle generazioni future un patrimonio che comprende almeno l’attuale stato di benessere economico, sociale e ambientale senza intaccare le risorse naturali esistenti.
Questa la definizione più utilizzata dalle spiegazioni circa l’economia ‘sostenibile’ che si ritrova dalle etichette dei prodotti del circuito di distribuzione del consumo equo solidale, ai documenti utilizzati per sostenere la partecipazione dei cittadini nei processi di rigenerazione urbana locali, alle direttive europee sulle misure di protezione ambientali fino alla definizione delle regole dell’emission trading della CO2 nel Protocollo di Kyoto.
In realtà esiste un pesante dibattito circa le differenti definizioni di sviluppo sostenibile e le modalità concrete che coinvolgono scuole di pensiero teorico e forti poteri economici e politici.
In ambito economico due le scuole di pensiero: una che appoggia il concetto di sostenibilità forte e quella connessa al concetto di sostenibilità debole.
In base al concetto di “sostenibilità forte” (Herman Daly) la riduzione della disponibilità di una risorsa non rinnovabile non può essere compensata dall’introduzione di un’altra sostanza che abbia funzioni simili. Il capitale naturale è il bene da salvaguardare attraverso i processi legati allo sviluppo sostenibile e non i livelli di consumo finali. L’attenzione è rivolta alla gestione delle risorse naturali che entrano nel sistema antropico come input (le materie prime, i combustibili, il suolo, le acque)
La “sostenibilità debole” è il contrario dell’approccio precedente. È sempre possibile sostituire i fattori che portano alla soddisfazione dei bisogni espressi dai consumatori, mantenendo dei comportamenti rispettosi dell’ambiente attraverso processi di compensazione (piantumazione della foresta amazzonica per compensare l’emissione di anidride carbonica e di altre emissioni climalteranti). Attraverso questo approccio è possibile mantenere e ricercare costantemente un livello di crescita economica, corretta da compensazioni che sono definite come ‘eticamente rispettose dell’ambiente’.
Due approcci differenti, che hanno radici nel rapporto tra uomo e natura, tra mondo antropico e ambiente e che portano a differenti approcci comportamentali individuali e collettivi. Nel caso della sostenibilità forte si sceglierà di ridurre i consumi, gli scarti, l’utilizzo delle risorse naturali non rinnovabili. Nel caso della sostenibilità debole si interverrà per valutare l’impatto dei consumi sull’ambiente e si adotteranno degli strumenti di compensazione monetaria o di intervento diretto per ridurre l’impatto finale, senza modificare la modalità e la quantità di approvvigionamento delle risorse naturali.
In entrambi i casi, però, l’ambiente diviene un fattore con un valore riconosciuto nelle decisioni di consumo come in quelle di produzione.
Si può dire quindi che il concetto di sostenibilità porta con sé, implicitamente, la presa di coscienza delle interdipendenze tra economia, società e ambiente e tra i comportamenti su livelli di scala locali rispetto a quelli globali.
L’altro concetto implicito che il concetto di sviluppo sostenibile esprime in modo radicale è il concetto di limite. Esiste un limite alle emissioni, a quanto l’ambiente può fornire ed assorbire, rispettivamente in termini di materie di input e di scarti, considerando la capacità di carico della Terra e i tempi necessari per rinnovare le proprie risorse.
Infine sostenibilità include anche il termine di complessità. Orientare un’economia locale, un territorio, un comportamento collettivo verso la responsabilità attiva al proprio domani e a quello delle generazioni future implica un approccio epistemologico olistico. Come di fronte ad un organismo biologico, il rapporto natura e mondo antropizzato viene visto come relazione tra organi di un unico essere vivente, di un unico metabolismo.
mi pare che un punto chiave dei problemi che – assai meritoriamente – sollevi, sia quello finale, la complessità della problematica in quanto problematica necessariamente globale. Il sistema è tutto quanto insieme, la Terra, Gaia, e la scienza contemporanea non è attrazzata per affrontare decentemente problemi concreti di sistemi davvero complessi. Il vecchio schema di Galileo, di spezzare il problema in tanto problemini e poi fare la somma non funziona più, o funziona proprio male e ha bisogno poi di pesanti correzioni. Abbiamo altro?
Probabilmente ci sono vari livelli di sostenibilità debole, a seconda di quanto siamo disposti a ‘compensare’ e a quali prezzi. Mi pare che il difficile sarà pesare davvero nel concreto di ogni settore quali compensazioni sono tollerabili dall’intero sistema e quali no.
E un altro guaio non è forse che non siamo formiche, o api, e non abbiamo quindi una ‘coscienza collettiva’ che permetta di indirizzare coerentemente l’azione di tutti?
Il principio di sostenibilità forte semplicemente non è neanche preso in considerazione dai paesi occidentali, USA in testa. Quello debole è preso in considerazione obtorto collo.
Un dubbio: all’autrice pare che si facciano dei reali passi avanti verso una economia sostenibile nel mondo? Pare che i politici mettano ai primi posti dell’agenda lo sviluppo sostenibile?
Lorenzo
Sulla questione della coscienza collettiva nella riformulazione “connettiva” di Derrick de Kerckhove, ho appena letto un gustossisimo suo intervento che ha un titolo impressionante: il quanto è messaggio.
E’ possibile leggerlo all’indirizzo internet http://www.soc.uniurb.it/downloads/vari/laudatio_lectio.pdf
Tina
Bella la favoletta del “sostenibile”. Peccato che i grandi inquinatori (non del futuro, ma già da oggi) non siano più in occidente, ma da altre parti (leggi Cina e India per un totale di 2,5 miliardi di persone) e non abbiano alcuna intenzione di concederci grazie ecologiche.
Rimane comunque una bella favoletta ad uso e consumo di chi (come noi occidentali) ha la pancia piena – sempre – e non muore di fame – mai. Che la fame è una brutta bestia e non ti lascia tempo per pensare all’ecologia :-)
Buona notte. Trespolo.
PS: qualche grande inquinatore resiste e sopravvive anche dalle parti di Rio e zone limitrofe…
Le questioni toccate sono molte e cruciali.
Per uno come me, è innanzi tutto molto strana la sensazione che il problema del consumo del pianeta sia posto in termini politicamente neutri.
Mentre sembra evidente che a pensarci appena un attimo si attivi la forbice storica, un tempo a sinistra fortemente considerata (Pasolini, per es.), Sviluppo/Progresso.
È ovvio che se l’imperativo economico – oggi condiviso da tutti a destra come a sinistra ad ovest come ad est – resterà quello dello sviluppo ad ogni costo, allora possiamo già dare il Pianeta per spacciato.
Per inciso devo notare che i regimi socialisti sono stati storicamente molto più disastrosi per l’ambiente di quelli occidental-capitalisti, però occorre distinguere tra consumo delle risorse e inquinamento: loro erano molto più bravi a inquinare che non a sfruttare.
Noto ancora come la seguente formulazione “…il rapporto natura e mondo antropizzato viene visto come relazione tra organi di un unico essere vivente, di un unico metabolismo…” pur con tutto il suo olismo new age, purtroppo è illusoria, fuorviante, buonista e non vera.
La storia biologica del mondo dice in chiaro che, in un ecosistema limitato – e il Mondo È limitato – la prevalenza numerica di una sola specie su tutte le altre provoca estinzioni di massa e distruzione delle risorse, come sta avvenendo.
Non si può sostenere che 10 miliardi di individui – tale la dimensione del mondo antropizzato tra un paio di decenni – possano essere considerati un “organo di un unico essere vivente”, invece che una maledizione distruttiva, una specie infestante e onnivora: l’armonia col pianeta è saltata già da qualche secolo.
Sono convinto che qualsiasi discorsetto soft, come questo di Venuta, non abbia il minimo senso a fronte della catastrofe che ci attende a breve.
Del resto il muro contro cui sbatteremo è già alle viste.
Ma nessuno se ne occupa sul serio, men che meno gli scrittori, tutti impegnati a scavare nell’umano, assorti nella sua presunta centralità.
Ad Antonio: scinderei il tema della complessità di un sistema rispetto ai livelli di scala (globale/locale).
Mantenere la complessità nell’analisi della sostenibilità attraverso approcci multi criteri è una questione fondamentale per ragionare sul senso e gli effetti di una politica di intervento da parte di un ente privato o pubblico sul territorio, soprattutto quando l’intervento tende a modificare lo sviluppo di quell’area. In questo senso, per esempio, l’identificare i determinanti economici che provocano pressioni sul grado di inquinamento atmosferico è strumento consolidato sia degli organismi internazionali (OCSE, Commissione Europea, Agenzia per l’Ambiente) sia degli enti politico amministrativi che regolano e indirizzano le azioni locali
Mantenere informazioni significative e coerenti nell’analisi passando da una scala all’altra, quindi mantenendo un nesso di causalità tra effetti globali e le attività svolte su scala locale è invece una questione aperta. Implica accordi internazionali nella raccolta dei dati statistici, sviluppi di protocolli di analisi statistica, che sono ancora in fase di studio e di implementazione.
Sulla coscienza collettiva concordo, invidio molto il mondo delle api (soprattutto perché matriarcale :-) ) . Mi chiedo solo quale sia il “feromone socio-ambientale” che possa attivare la “coscienza collettiva” a livello di esseri umani, in modo da attivare meccanismi di tutela del proprio habitat.
A Lorenzo: penso di sì. Certo è un discorso orizzontale rispetto a scelte e politiche settoriali. In ogni caso non vi è nessuna radice buonista alla fonte di una politica sostenibile. Conviene in termini economici, prima che sociali. Pensiamo solamente all’impulso dato alle energie rinnovabili. Il prezzo del petrolio sale e contemporaneamente assistiamo ad un impulso fortissimo dato alla ricerca e alle sperimentazioni delle energie alternative. Ci si interessa alla presenza delle polveri fini (PM10) nell’aria che respiriamo in città quando i ricoveri per bronchiti, casi di asma infantile e altri problemi respiratori diviene un costo sociale evidente.
A Tina: grazie del suggerimento. Sto seguendo le tesi di Derrick de Kerckhove da qualche tempo. Le sue descrizioni delle connessioni sono valide in settori apparentemente diversi, ma che utilizzano logiche molto simili.
A Trespolo: i grandi inquinatori asiatici o sudamericani hanno spesso proprietà occidentali. La localizzazione di strutture produttive in territori che hanno legislazioni permissive da un punto di vista ambientale è evidente. Ed è vero che la risposta alla fame arriva prima di qualsiasi discorso ecologico. Mi chiedo però quanto questo sia dettato dalla sete di arricchimento veloce e miope dei politici locali, prima che da una risposta strutturale all’indigenza di una popolazione.
https://www.nazioneindiana.com/2005/06/17/is-this-sustainable-at-all/
:-)
“Mi chiedo solo quale sia il “feromone socio-ambientale” che possa attivare la “coscienza collettiva” a livello di esseri umani, in modo da attivare meccanismi di tutela del proprio habitat.”
Bè, davvero non credo ai miei occhi: non so come si possa scrivere una cosa così.
A Tashtego: le analisi sulla sostenibilità dello sviluppo sono molto concrete, al di là di qualsiasi teoria o radice storico-culturale. Concordo con te: il rapporto uomo natura è alterato in termini di eccessivo utilizzo delle risorse rispetto alle capacità del pianeta di far fronte alla domanda di consumo e alla sua capacità di ricevere e assimilare gli scarti. Riduzione dei consumi, aumento della durata dei beni, utilizzo di nuovi materiali che hanno minor impatto ambientale rispetto a quelli tradizionali, miglioramento dei processi di produzione. Nulla di avveniristico mi sembra.
Nulla di avveniristico, se l’imperativo non fosse invece il massimo profitto subito, se in Oriente non ci fosse un miliardo e mezzo di anime che chiede l’accesso al consumo di massa SUBITO, se l’accumulazione per pochi non trascinasse le economie occidentali verso una furibonda competizione, del tipo: chi produce di più e ai costi più bassi sopravvive, eccetera.
Come vedi niente di feromonico, molto di politico.
Troppo forse, per quelli che sognano le armonie uomo-natura, che non ci sono mai state.
Siamo destinati a manomettere tutto e a distruggerlo, a segare il ramo sul quale siamo seduti.
Aveva ragione Althusser, mi pare fosse lui, quando diceva: “socialisme
ou barbarie”.
Tashtego, quanto dici è condivisibile, però la frase “Ma nessuno se ne occupa sul serio, men che meno gli scrittori, tutti impegnati a scavare nell’umano, assorti nella sua presunta centralità” è uno scatto di rabbia ingiustificato, una considerazione di stampo zdanoviano.