Il ritmo delle cose
di Evelina Santangelo
“Un uomo che aveva stabilito di fare una cosa e si trovò a farne un’altra diversa che non aveva nessuna importanza”. Così si potrebbe sintetizzare, usando i pensieri stessi di Noel Boyle, protagonista di The swing of things (pubblicato in Italia, con il titolo Il ritmo delle cose, dall’editore Sartorio, pp.334, €16,00), la storia raccontata, ma sarebbe meglio dire, agglutinata tra le pagine del secondo romanzo di Sean O’Reilly, considerato dal prestigioso “Irish Time”, nonostante la giovane età, tra i cinquanta migliori romanzieri irlandesi di tutti i tempi.
Dopo aver già dato prova del suo talento nella raccolta di racconti Curfew e nel romanzo Love and sleep, con Il ritmo delle cose O’Reilly osa ancora di più, facendo propria la difficile eredità lasciata dallo scrittore che in modo più radicale ha saputo dare espressione, attraverso la città di Dublino e i suoi abitanti, al caos e alla futilità in cui vagola il mondo moderno, Joyce.
E in una Dublino pervasa di “grumi di follia”, “esuberante”, “placida”, infetta, “morbida”, dimentica, “sanguinante”, anonima, allucinata, “carica di promesse inafferrabili”, mortifera (come il fiume che l’attraversa, da cui, all’inizio del romanzo, emerge il corpo di una donna annegata), si trova a vagare Noel Boyle, ex fiancheggiatore dell’IRA in fuga dall’Irlanda del Nord e da un passato tenace che gli è costato otto anni di carcere duro. In quella stessa labirintica e sofferente Dublino, insomma, che Joyce definiva “quell’emiplegia o paralisi che molti considerano una città”.
La paralisi qui è l’impasse, la palude in cui si trova immerso il protagonista, ossessionato dalla maschera mortuaria della donna annegata nel Liffey (fatale icona del destino suo e della sua terra) e da un passato che affiora in rigurgiti scomposti, incapaci di farsi ricordo, di trovare cioè una forma e un senso. Il labirinto dublinese invece è una “galassia di pub”, una “costellazione di facce” (bellissime e struggenti quelle femminili, anche le più disastrate), d’incontri casuali, fatali o impossibili, di “improvvisi buchi neri di piacere” o perdizione, che finiscono per scandire il ritmo delle giornate di Noel. Diviso tra l’aspirazione a rifarsi un’identità da studente modello, iscritto alla facoltà di Filosofia di Trinity, in mezzo ai giovani rampolli della borghesia dublinese e il fatale, quasi coatto, sprofondare in un irredimibile universo di esistenze anonime, impaludate anch’esse tra le acque stagnanti della vita: le “cabine della disperazione” del phone center in cui è costretto a lavorare per sbarcare il lunario; le puntuali sbornie con un esule russo, Victor, in odor di mafia e in fuga, come lui, da un passato inconfessabile; i disperati richiami di donne sempre troppo fragili; la delirante esistenza di un grottesco pagliaccio arrapato, un osceno giullare, declamatore di poesie lascive, Fada, che con la sua lingua biforcuta, ventriloqua, diabolica (che, non a caso, ricorda quel Bellsybabble di cui parla Joyce a proposito della lingua del diavolo) finisce per perseguitarlo come un impresentabile doppio, fino a diventare, nel momento in cui sembra aprirsi per Noel uno spiraglio di salvezza, casuale artefice del suo destino fallimentare, della catastrofe.
E la catastrofe, pervasa di un sentimento funereo e allo stesso tempo grottesco della vita (definita “una trappola” tra ordine e caos, contro cui nulla possono né la filosofia né la volontà di rinascere), è infatti la cifra che permea questo romanzo gremito di esistenze incompiute, attraversato da un sotterraneo lamento apocalittico e colmo di relitti: i relitti che si è lasciata alle spalle una Storia fatta di ebollizioni, assalti, esplosioni, bidoni in fiamme, ritorsioni, sotterfugi, giovani martirizzati, carri armati, pistole, e infine disincanto. Un disincanto rabbioso, che puntuale esplode sulle labbra di Dainty, l’amico d’infanzia insieme al quale Noel, bambino, credeva di potersi “lanciare nel futuro”, mentre già la brutale realtà della sua terra in fiamme cominciava a lasciare un marchio indelebile nella carne della sua esistenza, cominciava a farne insomma, e nel modo più radicale, un esiliato.
Sì perché Il ritmo delle cose, con la sua prosa polifonica, sbilenca, dissonante fino al deliro e alla dissipazione, con quel suo acre realismo allucinato, l’ossessivo affiorare di icone del fallimento, individuale e collettivo, è anche un inquietante affresco di un’umanità, in un modo o nell’altro, espunta dalla vita, impossibilitata all’autodeterminazione a causa di un disegno oscuro: dell’impassibile e imperscrutabile ritmo delle cose appunto, che fagocita anche chi ha creduto di poter modificare la Storia.
(pubblicato su Stilos, aprile 2006)
Grazie ad Evelina del pezzo, grazie a Giorgio Vasta dell’inserimento. Lascio solo un breve messaggio-appello-memento, a difesa della categoria: per favore non dimenticate di segnalare chi si spezza la schiena (letteralmente) per tradurre i libri. Soprattutto certi libri.
Grazie a tutti!
Flavio Santi (nella fattispecie il traduttore)
Che ne pensi della provocazione lanciata da Palumbo nel suo ultimo lavoro “Una lettera dal passato” riguardo la figura di Socrate?
Mi hanno chiesto di esprimere un giudizio ma io non ho ancora letto il suo libro…tu?
unaletteradalpassato.blogspot.com