Il Leviatano

s37.jpgovvero Il migliore dei mondi

di Arno Schmidt

traduzione di Rosanna Berardi Paumgartner ed Emilio Picco

[Presento un ampio estratto di uno dei racconti più importanti di Arno Schmidt, pubblicato in Italia nel 1966 e ormai introvabile.
*
Berlino, 20 maggio 1945. Sotto gli incessanti bombardamenti russi, si riunisce un’improvvisata compagnia composta da un sottufficiale della Wehrmacht allo sbando (la voce narrante), Hanne (suo platonico amore di gioventù, casualmente ritrovata), un pastore protestante accompagnato da moglie e figli, due Hitlerjugend, alcuni anziani e qualche bambino. Insieme si impadroniscono di un treno e tentano di allontanarsi dalla città.]

(…)

Udite, udite: Un soldato chiacchierava con i ragazzetti della Hitlerjugend (e le ragazze del BDM annuivano convinte): «Abbiamo ancora delle risorse; vinceremo. Il Führer sta seguendo una tattica ben precisa: prima li attira tutti nella trappola, e poi interverranno le armi segrete». Uno dei ragazzi interloquì: «Del resto, Goebbels ha affermato testualmente: “Quando ho visto l’effetto delle nuove armi, mi si è fermato il cuore”. E fra tre anni tutto sarà di nuovo ricostruito, più bello. I progetti stanno già tutti bell’e pronti nella scrivania del Führer». E così via. E i loro occhi balenavano come vetri di manicomi in fiamme! Sarei felice, se il genere umano avesse fine. Nutro la ben fondata speranza che entro i prossimi – facciamo – cinquecento o, al massimo, ottocento anni esso si sarà autodistrutto completamente. E sarà una cosa ben fatta.
Il sole apparve per un attimo fra timide nuvole. Mi accoccolai sul mozzicone di un albero abbattuto; più sotto, Hanne stava appoggiata al carro rosso, in piena luce. La testa mi cadde sul petto, mi addormentai. In lontananza stava la stazione brulicante, – scale e tettoie; e già urlavo: «Eccoli, arrivano! al riparo!» Diecimila larve d’incubo impallidirono, si appiattarono contro ogni parete; io mi buttai a terra vicino alle scale di pietra. In alto, nell’aria limpida volteggiavano i tre aerei; vedevo distintamente le canne da un pollice sul davanti delle ali. Hanne era stata portata lontano da me, una fiumana di persone si era frapposta tra di noi; alzai la testa per chiamarla, ed ecco che già grandinava sui sassi con fragore lacerante. Fiammelle verdi, lunghe quanto un braccio, scaturirono snelle dal terreno, strappando piote d’argilla, grosse come tavoli; fischiavano le schegge, correva sangue. Quelli giostravano nell’aria, facendo fuoco, una scarica dopo l’altra; attraverso le locomotive; i muri delle case si crivellarono di buchi grandi come un pugno; la cima d’un albero si abbattè con uno schianto («Madonna con maschera antigas»: un tema per gli antichi Maestri) — ecco: se ne vanno! Tornai di corsa al nostro carro (che di colpo si era trasformato in una carrozza per viaggiatori), gridai disperatamente: «Hanne! Hanne!», e tosto si affacciò al finestrino. Lentamente montai sul predellino, stanco, nel vecchio sudicio pastrano militare, stanco. Con entrambe le mani afferrai il vetro abbassato e alzai lo sguardo al suo viso, e guardavo e guardavo. Luminosa quiete e beatitudine. La sua bocca fece per incresparsi beffarda, leziosamente, stupore e serenità affettuosa, distacco e trasporto. Trasse la mano dalla tasca e me la passò sulla fronte, dentro i capelli. Il suo volto era rischiarato dai miei occhi; assorta, cercava di capire. Disse: «Quanta sporcizia e miseria in tutti questi anni». Carezzevole silenzio. Con malinconia e furbizia inarcò ancora una volta il rosso delle labbra, sorrisi e parole, pericolose e promettenti: «E un angelo custode sarebbe proprio necessario, vero?»
Trasalii; mi svegliai; intorno a me macchie di sole, d’oro, e ombre azzurre. Hanne stava davanti a me, mi guardava, interessata; chiese: «Be’, che succede? Mi ha invocata così teneramente e intimamente». Fece una minuscola pausa artificiosa e soggiunse con aria ironica e saputa: «Sognato, eh?!» Corrugai la fronte; raccontai; parola per parola. Mi ascoltò tendendo l’orecchio beffardamente. «Allora – c’est tout?», domandò, e poi, quasi fosse delusa: «- assai poco piccante, però. Dicono che i soldati sono in genere più aggressivi…» Cercava di provocarmi. Annuii cortesemente e dissi: «Lo so, non sono cambiato molto. Neppure lei, veramente». Scoppiando a ridere, poi fischiando, mi volse le spalle («Signorina, oggi non deve restar sola…»), si fermò, tornò indietro e si informò: «A proposito, le capita spesso… di sognarmi – ?» Non esitai affatto, dissi affabilmente: «Sì». Buttò indietro la testa, compiaciuta, e aggiunse con noncuranza: «Però, un po’ cambiato lei lo è. Un tempo si limitava a sgranare gli occhi come un bue, – bene, bene». Con fare svagato se ne tornò giù da sua madre. La bambina malata è morta proprio adesso. Orrore – orrore.

Ore 14,13: Un torbido fluttuare nel cielo, dapprima sottile come nebbia, in alto, sopra la neve desolata, azzurrognola; da occidente si levò un vento lacerato; il mondo sprofondò in un rauco grigiore. Cominciò a nevicare. Pesantemente, schifosamente.

Giù nel vagone: Tutti stanno accoccolati insieme, miseramente; hanno freddo, tossiscono, hanno fame. Sete, anche. Pare che tra poco potremo ripartire.

Ore 16,10: La neve, la neve; per ore e ore. Hanne aveva ficcato le mani nelle tasche e sedeva immobile. Il vecchio si schiarì la voce. Ancora una volta. (Aveva già un aspetto sudicio e bianco e rinsecchito). Dominandosi, mi guardò e chiese: «Lei poc’anzi stava dicendo che quest’universo si trova in fase di contrazione e che prima sarebbe stato “gonfiato”. Potrebbe avanzare un’ipotesi circa tale pulsare?» La sua faccia si fece piccola e rugosa, ed egli si mise ad ascoltare con intensa concentrazione. La Hitlerjugend stava esaminando i Panzerfäuste (con raccapriccio della vecchia contadina): «… allora, mettere il foro in corrispondenza del foro; avvitare…», ci si baloccavano con grande impegno, veri figli del Leviatano (Tu sei il mio amato figliolo…); ferro malvagio e fuoco mortale. To’, come sono ben riusciti! Mi vennero in mente i pazzeschi manifesti istigatori del Gauleiter Hanke, a Breslavia. Con la roboante eloquenza della follia egli faceva appello alla gioventù nazionale: riempire di neve fiumi e torrenti, perché gonfiandosi potessero trattenere il nemico (testualmente! L’ho letto io stesso l’8 febbraio ’45, nella vetrina del negoziante Schneider, Am Graben, a Greiffenberg!) Squamoso spurgo in ebollizione, sacra indignazione da verme; magnifico! E poi pretendeva dai vecchi decrepiti che si insinuassero nottetempo, con materiale incendiario, nei paesi occupati dal nemico, appiccando il fuoco. Forte, in ciò, di una sua logica sprezzante: tanto vi tocca comunque morire presto; perciò sacrificate il resto dei vostri giorni al Führer! – Sono fermamente convinto che con questa loro ululante pazzia e isterica bramosia di distruzione (e non dimentichiamo le voglie di Erostrato!) manderanno in fiamme e rovina tutta la Germania, fino all’ultima stamberga. Insomma: fisime da anabattisti. Costumi diversi, scenario più vasto. E bisogna dare la sua risposta al vecchio. Mi schiarii forte la voce. Dissi bruscamente: «Saprà dal suo Schopenhauer che il mondo è volontà e rappresentazione; egli non va più in là di questa constatazione, non compie l’ultimo passo; ma alla fine l’una cosa e l’altra saranno unificate in un essere di terribile potenza e intelligenza». Sorridendo e santamente divertito, il Pastore alzò la testa: «Dio», disse annuendo con aria tranquilla, «lei non può prescindere da questo dato di fatto incontestabile…» Non girai nemmeno gli occhi; dissi: «II demonio! A volte egli è se stesso; a volte si manifesta nella disintegrazione universale. Attualmente non esiste più come individuo, bensì come universo. Ma in ogni cosa ha lasciato l’imperativo del ritorno; nel corporeo ne è prova la gravitazione. (Gli 80 sistemi siderali molto al di là della zona galattica, non ne sono forse indizio ed esempio? Può darsi che poco per volta saranno assorbiti dalle nebulose più grandi, ma come un tutto compatto, perché la loro contrazione dovrebbe avvenire molto più velocemente); nell’ambito spirituale attestano una siffatta costrizione: i dati coscienziali della specie (l’aspirazione al volo, comune a tutti, etc.; il concetto di spazio e tempo, che risulta identico in tutti gli esseri viventi, quindi: origine comune), la non-libertà della volontà nell’azione (saggio Schopenhauer! Con tutte le conseguenze: possibilità di divinare il futuro, per esempio attraverso i sogni – J. W. Dunne. – Magia), la dissoluzione dell’individuo nella morte. (Noi desideriamo la nostra perpetuazione in quanto individui, e questo è lo slogan delle religioni – cristiani e maomettani -, per questo esse hanno dei seguaci; una dottrina – siamo sempre a Schopenhauer -, la quale dà per probabile il dissolversi dell’individuo nella “volontà universale “, non potrà mai diventare né popolare né amata, neanche da chi riconosce che è vera; essa conserva sempre qualcosa di meduseo). L’accumularsi dell’intelligenza in quantità sempre più grandi – vedi la paleontologia – parla in favore di questa ricostituzione del demonio anche dal punto di vista spirituale (possibilità di esistenze “sovrumane”: maghi, spiriti elementari – oh, Hoffmann! -, daccapo gli 80 sistemi siderali).
«Per poter valutare l’essenza di detto demonio, bisogna guardare fuori e dentro di noi. Noi stessi, infatti, siamo parte di lui: che razza di satanasso dovrà essere, allora, Lui? Di trovare il mondo bello e ben sistemato, solo il signor von Leibnitz può essere capace (“von”: e vedi a tale proposito le annotazioni di Klopstock nella Repubblica dei Dotti), il quale non la finirà mai di rimanere ammirato, perché l’asse terrestre è così saggiamente inclinato, oppure Matthias Claudius, che si sarebbe rotolato e avrebbe urlato tutto il santo giorno di gaudio cristiano, o altri svizzeri dal cervello fino. Questo mondo è qualcosa, che sarebbe meglio non esistesse. Chi la pensa diversamente, è un bugiardo. Ponga mente ai meccanismi che tengono in piedi il mondo: rimpinzarsi e sfrenarsi come porci. Usurare e strozzare il prossimo. A volte un puro senso formale: i cristalli, le scisti radiolarie di Haeckel (Boelsche notava pensoso che nella natura ci deve pur essere un principio formale, fino ad ora non individuato, ah! ah!); in fondo, in questo caso si presenta soltanto il problema tecnico della sospensione nell’acqua salata, dove la migliore approssimazione sarebbe stata certamente trovata in poco tempo attraverso la selezione. D’altra parte: salamandre, serpi, ragni, pipistrelli, pesci abissali, le migrazioni dei salmoni e delle anguille. Anche Cesare Borgia era un buon intenditore d’arte. Certamente la nostra facoltà intellettiva è limitata, sia nello spazio che nel tempo. Con tutto ciò, il Leviatano resta; e ora concentra la sua malvagità, ora preferisce goderne nella massima varietà e suddivisione.
«Inoltre, nulla ci autorizza a supporre che il nostro Leviatano sia unico nel suo genere. Potrebbero esistere molti esseri della sua stessa grandezza, e, fra questi, anche di buoni, candidi, angelici. Purtroppo a noi è toccato un demonio. Si monumentum quaeris, circumspice (sta scritto sulla tomba di Sir Christopher)».

Crepuscolo, crepuscolo: Silenziosa precipita la neve oltre la porta socchiusa, miliardi di esseri cristallini, nati nell’aria, morti nell’acqua. (Quali fiocchi potrà mai formare il ferro, quando precipita dall’atmosfera solare sulla frenetica massa incandescente: saranno come draghi, rigidi, spinosi? – Oppure d’oro -?) – Dalla locomotiva, in testa, giunse la voce del fuochista, roca (ma piccola): «Attenzione! Si parte!» Violenti sbuffi di vapore; scossoni, strepito. Solo un piccolissimo tratto. Uno strattone. Poi dietro a noi scoppiò un rumore infernale,… schegge, schianti… Un altro metro appena. Di nuovo qualcosa si lacerò e latrò, come legname che scoppia. Balzai in piedi, verso la porta, mi lanciai attraverso l’apertura, Hanne giù dietro a me (una ardita ragazza imbacuccata), ed ecco arrivare subito anche il macchinista dalla locomotiva, e bestemmiando vedemmo che le catene si erano spezzate (recise dai colpi?), e che lo spacca-traverse… well: lavorava alla perfezione -. Ci piegammo fra i respingenti, chiamammo gli altri e cercammo un’altra volta – strappando con le braccia, curvandoci, facendo leva – di staccare il carro. Ancora una volta. Ma fu inutile: ruggine addentava ruggine. Ci lacerammo le mani non protette. Ed era necessario far presto; bisognava approfittare di quei pochi minuti di pressione nella caldaia. Muti e fradici, ci arrampicammo quindi nella baracca rullante e (quel cane impazzito, non fischiava di nuovo!) ci movemmo. Viaggio con destinazione tenebre, e spacca-traverse obbligato. Heil Hitler. Improvvisamente l’impiegato postale esplose con collera incontenibile. Alzò il pugno contratto contro i baldi giovincelli e urlò (più forte del frastuono satanico alle nostre spalle): «Non vi vergognate di portare questa maledetta uniforme?! Ma non lo sentite, questo?! Oh quei farabutti, quei farabutti!!» Scattò in piedi il Futuro della Germania; chiesero con stupore, inveleniti: «E perché no? Ma è una pacchia! Almeno così i russi non potranno incalzarci!» – Uno di loro, il più anziano, disse tranquillo e minaccioso: «Stia attento a quello che dice. Ce ne sono ancora troppo pochi nei campi di concentramento». E l’altro (puerile e zelante – non era forse soltanto una specie di giochetto moderno? Bastava premere un allegro grilletto -): «E sparalo, dài, quel maledetto traditore!» Fuori, contro solitarie case, l’orrendo frastuono cresceva in follia smisurata. Una fila di pioppi incrociò la nostra strada. Stelle. Dall’aria era sparita la neve. Ancora le ruote girano,… schianta… girano… girano… – to’: più lentamente. Spappolò adagio un’altra traversa. Esitando, godendo: ancora una. Ancora… una… ancora. Ci fermammo. Estrassi in un lampo la pistola; ero infuriato, ma completamente freddo. Tuonai nel subitaneo ronzante silenzio: «Chiunque parla ancora di sparare, si busca una pallottola nella pancia! Non ci basta la miseria che abbiamo nel carro?» Al contempo, provai fame e sete (fino allora ero riuscito a non pensarci troppo). A spintoni aprii la porta e saltai giù. Accidenti… alta fino al ginocchio! Aveva nevicato molto. E Moys; proprio alle spalle del piccolo edificio della stazione. Più in là la linea si diramava per Kohlfurt, Penzig. Rabbrividendo inghiottii due manciate di neve. E faceva freddo, ora. In alto, dal quadrato buio una voce tranquilla, un poco rauca, chiese: «Allora? Che c’è?» Oh tu, stella… stella… Risposi: «Davanti a noi fuoco pesante». «Noi…», lei ripeté con raffinata indolenza, e mi saltò fra le braccia, senza levare le mani di tasca. Scoppiai a ridere rumorosamente, buttai indietro la testa: «Sì, noi!» dissi con rabbia, divertito – ed ecco, il fuochista ci diede la voce. –

Ore 19,30: Da una lontana catena di colline, senza rumore, si levarono, come rossi fili di perle, i traccianti dell’antiaerea leggera. Il freddo si faceva sempre più rigido. Eppure ha nevicato ancora una volta, massicciamente, ma era neve finissima e dura.

Notte nel carro: I contadini se ne sono andati sfiduciati. La neve dura mi ha quasi intorpidito lo stomaco; è stata una vera sciocchezza. Il vecchio sembra soffrire gravemente; certo, in tutta la sua vita non ha mai dovuto sopportare simili strapazzi; uno dei soldati gli ha dato una gollata di grappa, poi costoro e la femmina si sono scolati il resto della bottiglia. Stanno seduti e si scambiano sconcezze. La gioventù, assetata di conoscenza, approva sghignazzando attraverso il naso le inequivocabili bassezze. Poco fa, mentre il Pastore con l’imperturbabile vanità dei pii si apprestava a recitare un’altra volta le preghiere ad alta voce, come per dare lui l’esempio, lo hanno finalmente redarguito in malo modo. Il soldato con la fronte bendata grugnì minaccioso dal fondo: « Piantala con queste puttanate…», ed anche il vecchio sollevò la testa dal petto; disse, tagliente: «Lei può benissimo pregare in silenzio, quanto vuole, ma ci risparmi la giaculatoria…, che cosa odiosa…», mormorò disgustato. Ma poiché quella faccia di bronzo continuava – anche se in tono più basso — a rivolgere suppliche e promesse alle sue fanatiche divinità (vedi Libanio, Apologia per i templi. — A chiarimento definitivo: la massima veramente bella, anche se non originale, dell’«Amatevi l’un l’altro!», in quanto prassi viva e operante, ha sempre avuto l’approvazione incondizionata e l’appoggio di tutti gli onesti spiriti, e l’avrà sempre. Mai, però, l’hanno avuta le vuote ambizioni gnoseologiche del catechismo cristiano; mai l’apparato di forza che la Chiesa si è costruito del tutto arbitrariamente, né il suo plurisecolare terrorismo ideologico, tremendo come nessun altro. Perché non da Stalin, né da Hitler, né durante la guerra dei Boeri furono inventati i campi di concentramento, bensì nel grembo della Santa Inquisizione. E in occidente, la prima esatta descrizione di un ben attrezzato campo di concentramento, non la dobbiamo forse alla fantasia di Dante, cristianissimamente pervertita? Vi prego, non manca niente: i pozzi neri, la tortura dell’acqua gelata, l’eterno passo di corsa dei flagellati a schiocco; per i dubbiosi ecco pronte tombe di fuoco, e quelli inutilmente assetati di sapere – Ulisse – vengono maestosamente fulminati: – perché, «in definitiva, sono questi i più robusti argomenti dei signori teologi; e da quando a costoro sono venuti a mancare, le cose vanno terribilmente a rovescio!» Perciò adesso non venga a chiedere tolleranza proprio chi per millecinquecento anni, da che è «al potere», non l’ha esercitata! Ecrasez l’infâme!) mi trascinò in una discussione sulle fonti storiche, dalle quali avevo attinto talune mie opinioni. Faticosamente adunai quanto – a questo proposito – si trovava ancora sparso fra le rovine della mia memoria (mi vennero in mente immagini del Piranesi: ruderi romani nelle chiare luci della sera, piene di vento. Alberelli slanciati. Un contadino, con il cappello a punta, governa con gesti espressivi un asinelio carico di lisci otri di vino. Frescura e serenità, oro del tramonto, aurum potabile. La natura – cioè il Leviatano – non ci mostra niente di perfetto; ha sempre bisogno di esser corretta ad opera di spiriti buoni. – Confronta la definizione di Poe circa l’essenza della poesia. Purtroppo costoro sono una impercettibile minoranza). Irrigidito dalla stanchezza – oh, il freddo, il freddo – nominai la parola emanazione; inoltre: gnostici e cabalisti (il dio ottenebrato; il mondo = modificatio essentiae divinae = Deus expansus et manifestus. Dottrina de mundo contracto et expanso), lo Pseudo-Dionisio, Scoto Eriugena, Almerico, Davide di Dinant. Pausa: i soldati ubriachi scalciavano, ansavano; latrando si buttarono sulla puttana. – Pieno di vergogna parlai più forte (perché Hanne non sentisse, – oh, ma lei sentiva lo stesso!!), pronunciai il venerabile nome di Giordano Bruno (spatio extra-mundano), Spinoza, Goethe, Schelling, Poe Trismegisto (Heureka), dei nuovi matematici e astronomi, finché il vecchio rise stupito e con allegria malata dalla bocca di biancospino (evidentemente gli dava sollievo il sapersi sorretto da tante autorità. «Dell’essere al sicuro».) E, per conto mio, vada anche per le amenità di fisica sostenute da Nietzsche con il suo «eterno ricorso»: che zucca vuota quello lì, a volte! Che il suo Leviatano-Potenza dovesse essere limitato e «quindi» – non è questa un’argomentazione esatta, almeno quanto una di Aristotele?! – mortale, egli non l’ha certamente pensato. – Le religioni, con le loro «creazioni» e i loro «dèi fattisi uomini» (sebbene poi tutte commettano l’errore di lasciare tuttavia sussistere, immutato, il proprio dio). Venerabile Buddismo (chi ritiene K. E. Neumann troppo arduo, si provi con il Pellegrino Kamanita); i politeismi degli antichi (costoro ancora ben sapevano che il grande Pan non era immortale!), gli «dei sbranati»: Orfeo, Thammuz, Lino, Adone. Spiriti elementari. Silenzio. Pianto dall’angolo del Pastore; la Hitlerjugend gracchia un «canto di guerra» (in alto si atteggiano a puri eroi, ma le fondamenta stanno immerse in una palude formata dal sangue di venti milioni di esseri diabolicamente macellati. Questo mese ho visto a Pirna un campo di concentramento in trasferta: donne ebree con i loro bambini, tutti spaventosamente smagriti, gli occhi scuri, d’una grandezza irreale, e accanto i boia delle SS, a cavallo, bestemmiando, le gote rubizze, coperti di pesanti cappotti grigioverdi, ahimè! ) – II vecchio si buttò in avanti; con voce stridula chiese: «Come?! Anche il Leviatano muore?!» Ma io non sentii più nulla. Mi irrigidii nel freddo e nel sonno.
(Una volta, molto lontano, un sordo brontolio, come di terremoto. A lungo. Come un gigantesco attacco aereo. Dresda? Dio passeggia su tappeti di bombe).

Verso mezzanotte apparve nel ciclo uno spicchio di luna: II volto di lei si fece subitamente grigio – chiaro e rigido. – La neve veniva giù stridendo cadenzata. Bussarono alla porta: il fuochista: «Tutti fuori! A spalare!» Mi tirai su con le gambe rattrappite, le spinsi addosso un po’ di paglia, saltai giù per la porta nell’argentea superficie: e tutti piagnucolano nella gelida notte. A volte le rotaie luccicavano azzurre; brina incrostava le leve degli scambi. Menammo colpi e spalammo intorno alle ruote, spossati guardammo alla nuvolaglia madreperlacea, angolose lettere cubitali spiccavano nell’ombra sulla torre di controllo.
II gelo, il gelo. Con mani di marmo scavammo intorno all’acciaio raggiante. Pulviscolo di neve pungente ci fluttuava intorno al naso e alla bocca. L’avrei guardata da palpebre d’argento. Il vecchio mi precipitò contro la spalla; me lo issai nel carro.
Tardi. Tardi: La luna abbagliava nella corsia di pioppi.

Voci si consultavano di sotto. In silenzio accostai il tondo del viso alla fessura. I ragazzi stavano appoggiati ai Panzerfäuste, uno diceva:« Se ne facciamo partire due contemporaneamente, salta per aria tutta la baracca, compresi i traditori ed i pacifisti…» (Pacifisti: questa per loro è la più grave ingiuria, e il popolo urla «Heil!») Estrassi rapido la pistola, tolsi la sicura, presi la mira appoggiandomi allo stipite della porta. L’altro ci pensò su; poi fece (oh, ponderato, accorto, lui, – càspita, che maturità!): «Dentro, però, ci sono anche i due soldati, uno, poi, è ferito!» Pausa. «Ma uno spavento bisogna farglielo prendere, a quei vecchi stracci», decise il primo. «Senti: ne spariamo due contro la stazione! Vedrai che fifa…!» L’altro ridacchiò approvando, divertito. Si misero al riparo, alzarono le canne, fecero scattare. Schianto e colpo furono immensi. Tronfi, caricarono in spalla i loro arnesi e si allontanarono a grandi passi marcati, da bullo. I vincitori. (Una pietra della facciata sbriciolata ha sfondato alcune assi del carro. Nello spazio angusto si è mezzo assordati).

Ore 6,18: Tutto finito.
Ci rimettemmo in moto, qualche centinaio di metri soltanto, fummo sùbito sul viadotto. Rimbombava. Meno male che andavamo così adagio. Alti sopra il fiume. Ecco che di colpo il carro ebbe uno strattone in avanti. Si fermò nuovamente. La parete anteriore scoppiò. Tutto accadde così repentinamente. Ci affrettammo a scendere, con prudenza: davanti a noi mancava l’arcata del ponte. La locomotiva pendeva di sbieco sull’abisso (e alle nostre spalle lo spacca-traverse ha sbriciolato ogni cosa!!), fuoco si sprigionava dalla caldaia schiantata, e subito cominciarono a cantare nell’aria granate (che bei bersaglio, vero?!) Arretrarono a tastoni (strillando nell’oscurità ululante), lungo il gigante privo di parapetto. (Uno deve essere precipitato, perché un urlo volò come un lampo verso il basso). Ecco: una merlata torre di fuoco si levava, ruggendo, all’altra estremità. Noi (Hanne ed io. Noi), istupiditi (con il cuore in gola), ci infilammo nel vagone. I demoni d’acciaio strillavano ed esultavano intorno a noi, sopra di noi, sotto di noi. Più volte ancora i colpi scoppiarono alle nostre spalle, e ad un certo punto ci fu una scossa, come se crollasse tutta una montagna (e scrosciare di acque gorgogliami ).

Ore 7,00: Gelida nebbia sale fluttuando dal burrone. (Hel, l’inferno d’acqua). Ancora non rischiara.

Ore 7,10: Stato fuori, inciampando. Appoggiato a qualche macigno, nei vapori di ghiaccio. A non più di otto passi dallo spacca-traverse, sbadigliava tacita la voragine di nebbia. Alzai due pietre dalla massicciata; ne lanciai una oltre il bordo; non fece neppure giù; tutto rimase in silenzio, impenetrabile all’occhio. L’altra la brandii con pugno di selce; con un sibilo sordo si allontanò verso l’altra sponda. Tesi l’orecchio: nulla. Annuii con il capo, assurdamente, con aria di mistero. Bene, bene. Me ne tornai indietro; mi arrampicai dentro la carcassa del vagone. Dissi a Hanne: «Anche dietro è crollato. Siamo soli; sospesi qua su, in mezzo al fiume». Soffiò col naso, contrariata. Fece segno con il piede, davanti a sé: «Sta morendo…», disse, e corrugò la fronte. A gambe larghe traversai la prima falda di grigiore. Il vecchio sedeva appoggiato rigidamente alla parete di legno, rantolava. Mi guardai intorno: nel carro non c’era rimasto più nessuno. Tirai fuori la destra dalla tasca, gliela poggiai sulla spalla magra. Gli occhi si aprirono: erano ancora limpidi. Mi guardò fermamente; la bocca grigia gli si fendette, appena un poco, faticosamente, le sopraciglia si torsero: «Il Leviatano…» fece rocamente, tirò su (con un ghigno divertito) un angolo della bocca: « …non è eterno…?» Hanne mi era venuta accanto; il mio cappotto avvertì la manica della sua pelliccia. Mi sentii macilento, svuotato, vecchio di secoli (come Harry Haller), risposi a quel coraggioso: «La sua potenza è enorme, ma limitata. Quindi anche la durata della sua esistenza». Aspettai. I suoi occhi si chiusero un momento, stanchi, con gratitudine: aveva capito. Parlavo in fretta: «Buddha. Insegna un metodo per evadere. Schopenhauer: negazione della volontà. Entrambi affermano dunque la possibilità di opporre la volontà individuale alla mostruosa volontà totalitaria del Leviatano, cosa che, considerata la differenza tra le due grandezze, sembra tuttavia per il momento del tutto impossibile, almeno fino a quando gli esseri spirituali si troveranno a “livello uomo”. Però può darsi che la Bestia si dissolva in tanti “diadochi” (presentimento cristiano nella rivolta di Lucifero; per converso, Jane Leade vorrebbe unirsi con tutti i Buoni in una forza magica operante e rinnovare cosi la Natura, ripristinarla a paradiso… È una meta: la ribellione dei Buoni), e questi a loro volta in unità sempre più piccole, fino a che il “Buddismo” diventi un fatto veramente possibile, e con ciò tutto il complesso di queste forze si elida a vicenda. – Ma forse ci sono anche altre vie…» Mi guardò dapprima angosciato, s’arrovellava; i suoi occhi si fecero di gufo, fumosi… oh: una scintilla. Sussurrò: «Bene». La testa, alta, gli si accasciò in avanti. Del tutto tranquillo, staccando i suoni, sentimmo che diceva: «Bene…» – Allora mi rialzai.

Ore 8,20: Arrossiamo nella luce. Oh, greasy Joan.

Fine: Infileremo la porta rossastra, coperta di brina. Fra veli d’oro starà in agguato il diabolico sole d’inverno, rosa pallido, una gelida sfera. Ella spingerà avanti il mento, aguzzerà le labbra, sbarazzina, solleverà i fianchi per dare lo slancio. Impietrito, io la cingerò con il braccio.
Ecco, ora butto via il quaderno: vola! Brandelli.

[tratto da “Il Menabò di letteratura”, Einaudi, Torino 1966, pp. 121-150. Qui le pp. 137-149.

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Immagine tratta da http://www.loc.gov/exhibits/world/nature.html]

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17 Commenti

  1. SOAR OVARB!

    Spero di non andare TO dicendo che a IM, con poca spesa e poco rischio si può far arte con molta resa e molto gusto: basta munirsi di un pennarello grosso nero e fare dei baffetti alla Adolf ai candidati/e del destra-centro mentre si torna nottetempo in bici da… a…

  2. davvero un recupero eccellente, andrea.

    a prescindere da come il linguaggio sa farsi figura (straniante) dei contenuti (siamo pur sempre di fronte a un maestro) trovo una grande forza poetica nell’aver dialogizzato attraverso questo confronto estremo con il vecchio (e tutto il contesto) quella che per me non è una, ma LA questione fondamentale, spinta fino a un tentativo di verità che ha del geniale:

    “la natura – cioè il leviatano…”

    e poi:

    “la sua potenza è enorme, ma limitata. quindi anche la durata della sua esistenza”.

    così il vecchio muore “bene”, chiudendo a livello compositivo il cerchio di “speranza” aperto all’inizio dal narratore:

    “sarei felice, se il genere umano avesse fine. nutro la ben fondata speranza che entro i prossimi – facciamo – cinquecento o, al massimo, ottocento anni esso si sarà autodistrutto completamente. e sarà una cosa ben fatta.”

  3. Sono contento che tu abbia apprezzato, Stefano.

    Dici bene: nelle ultime righe, faticosamente, il narratore giunge ad ammettere che è possibile opporre una resistenza individuale al Leviatano totalitario. Questa resistenza è la volontà di morte, annunciata all’inizio (ma a fare i precisetti siamo verso la metà) e verificata nelle ultime righe.

    A quanto dici tu aggiungerei solo che la morte invocata da Schmidt è duplice: dell’uomo (della specie) e dell’opera (“Brandelli.”)

  4. Ogni tanto anche il rimosso letterario ritorna. (Anche senza ricorrenze di nascite morti premi pubblicazioni, ecc.) BravoRà, che rimuovi il rimosso.

  5. I brandelli potrebbero anche avere un altro senso.
    In fondo, il leviatano di Hobbes, come rappresentato anche in una vecchia stampa allegorica, è un corpo unico-multiplo formato dalla cessione-fusione di individualità dei singoli.

    L’invocata duplice (triplice) morte (dell’uomo individuo-specie e dell’opera), più che un reale annientamento, sembra essere l’affermazione della riacquisita individualità dei singoli, prima ridotti a componenzialità particellare, la riconquista di un’iniziativa dell’atomo riconsegnato al suo clinamen in una libertà caotica di reinvenzione, al di fuori dei racconti cristallizzati divenuti ormai i gingle ripetitivi di società fondate solo sulla forza dell’abitudine scandita retoricamente in sillabe di violenza -di tutte le società, non solo dei totalitarismi, considerando che il leviatano di hobbesiana memoria non è necessariamente il sovrano assoluto; esso è piuttosto lo Stato, o la statalità, in quanto tale -e in fondo quanti linguaggi standardizzati nel contesto critico-letterario, accademico, politico, non sono altro che una sorta di ingentilito “totalitarily correct”?

  6. Il punto è precisamente che qui il Leviatano hobbesiano è, con un bel verbo lukacsiano, “revocato” (aufgehoben), attraverso Goethe e, in ordine storico-filosofico, Schopenhauer – con buona pace di un Nietzsche ridimensionato entro un “eterno ricorso” troppo poco lungimirante – il tutto mentre storia e natura precipitano dentro il buco nero, anche narrativo e linguistico, del “migliore dei mondi” illustrato da Schmidt. Mi sembra.

  7. Il Leviatano è il male a fondamento del mondo, come sua storia trascendentale: lo gnosticismo, che qui compare, è per la Chiesa l’incubatrice dell’ateismo. Tutto quel che è, difatti, è giusto. Il problema viene affrontato da Leibniz, come è noto, nella Teodicea, e risolto con l’acrobazia del migliore dei mondi possibili. Insomma titolo e sottotilo antifrastico possono anche leggersi: La storia è un incubo ovvero C’è andata bene.

  8. In realtà, ottimismo e pessimismo stanno benissimo sotto lo stesso slogan: questo è il migliore dei mondi possibili.
    Come mai nel racconto di Schmidt tra schopenauerismo ed entropia spunta una gran voglia di figa?

  9. La formulazione di Dario Borso non brilla davvero per leggiadria, ciò non toglie che ha ragione: l’aspetto forse più sconcertante di questo racconto è che è anche una storia d’amore.

  10. ehm… cioè… adesso che vedo temp. m’è passata la gran voglia… cerco di rimediare così:

    Schopenhauer ed entropia sono dottrine, idee: il centro invece è lui, animale braccato che reagisce. l’atteggiamento vero è di cinismo, ma quello alto, per cui al di là/qua di tutto c’è un nucleo minimo ma saldo di resistenza. questo minimo agente in un massimo di alienazione dà l’effetto comico, per cui il cinico è un picaro. Se si potesse ancora mediare tra voglia e amore, con la benedizione di temp. si potrebbe parlare di eros (in tante sfumature, con privilegio della tenerezza).

    Piperno ad es. è cinismo da curva (e la prosa di Haas da avviamento)

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andrea raos ha pubblicato discendere il fiume calmo, nel quinto quaderno italiano (milano, crocetti, 1996, a c. di franco buffoni), aspettami, dice. poesie 1992-2002 (roma, pieraldo, 2003), luna velata (marsiglia, cipM – les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), le api migratori (salerno, oèdipus – collana liquid, 2007), AAVV, prosa in prosa (firenze, le lettere, 2009), AAVV, la fisica delle cose. dieci riscritture da lucrezio (roma, giulio perrone editore, 2010), i cani dello chott el-jerid (milano, arcipelago, 2010), lettere nere (milano, effigie, 2013), le avventure dell'allegro leprotto e altre storie inospitali (osimo - an, arcipelago itaca, 2017) e o!h (pavia, blonk, 2020). è presente nel volume àkusma. forme della poesia contemporanea (metauro, 2000). ha curato le antologie chijô no utagoe – il coro temporaneo (tokyo, shichôsha, 2001) e contemporary italian poetry (freeverse editions, 2013). con andrea inglese ha curato le antologie azioni poetiche. nouveaux poètes italiens, in «action poétique», (sett. 2004) e le macchine liriche. sei poeti francesi della contemporaneità, in «nuovi argomenti» (ott.-dic. 2005). sue poesie sono apparse in traduzione francese sulle riviste «le cahier du réfuge» (2002), «if» (2003), «action poétique» (2005), «exit» (2005) e "nioques" (2015); altre, in traduzioni inglese, in "the new review of literature" (vol. 5 no. 2 / spring 2008), "aufgabe" (no. 7, 2008), poetry international, free verse e la rubrica "in translation" della rivista "brooklyn rail". in volume ha tradotto joe ross, strati (con marco giovenale, la camera verde, 2007), ryoko sekiguchi, apparizione (la camera verde, 2009), giuliano mesa (con eric suchere, action poetique, 2010), stephen rodefer, dormendo con la luce accesa (nazione indiana / murene, 2010) e charles reznikoff, olocausto (benway series, 2014). in rivista ha tradotto, tra gli altri, yoshioka minoru, gherasim luca, liliane giraudon, valere novarina, danielle collobert, nanni balestrini, kathleen fraser, robert lax, peter gizzi, bob perelman, antoine volodine, franco fortini e murasaki shikibu.
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