Un grande finale
di Franz Krauspenhaar
Si conosce spesso il valore di una cosa partendo dalla sua fine. E se la fine è lieta, si potrà magari serbare l’illusione, viceversa, che sarà stato lieto anche tutto il resto, il precedente. Non è questione di happy ending o di un finale truce. Sappiamo bene che ce ne sono anche d’intermedi, spazi ad ante spalancate sul cielo di un finale aperto. Spesso sono questi, quelli aperti, i finali più interessanti e anche più realistici, poiché nella vita reale (compresa quella dell’immaginazione) non esiste in fin dei conti una vera chiusura di nulla, specialmente se, nella speranzosa immaginazione di molti che diventa a volte fortunata fede, al di là c’è per noi un dio in eterno accoglimento. Ma ce ne sono tanti anche di chiusi, di finali, anzi di sprangati; alcuni addirittura memorabili.
Un gran finale – di qualunque tipo- a volte puo’ riscattare una vita o un’opera intera fatta di lungaggini, di continue fermate intermedie, di farraginosità, di inutilità, di deviazioni, in una parola di errori.
C’è un film di Jacques Deray (regista famoso presso il grande pubblico per Borsalino e La piscina) che si chiama Rapina al sole e assomiglia alla vita quando spesso è deludente e noiosa: finché alla fine, proprio allo sgocciolamento del tempo misurabile a secondi, questa vita in fotogrammi strappa un sussulto vitale, prende un volo rapido che riscatta tutto il resto sebbene con l’espandersi di una pellicola di vita che mostra e dimostra il dolore umano più fitto, più inconsolabile. Uscito nel 1965 in un bianco e nero nitido e risplendente (merito della fotografia di Juan Julio Baena e Jean Charvein) Rapina al sole (titolo originale Par un beau matin d’eté ) è un film di 100 minuti tratto da un romanzo di James Hadley Chase;100 minuti che scorrono spesso lenti, a volte confusi, conchiudendo una vicenda tipicamente noir senza infamia e senza lode:un vecchio gangster, interpretato da Akim Tamiroff, attore nato a Tiblisi già splendidamente apparso ne L’infernale Quinlan di Welles, decide di rapire la figlia di un grande industriale (Adolfo Celi) interpretata da una Geraldine Chaplin alla sua prima apparizione sullo schermo. Il gangster ingaggia un lestofante di mezza età appena uscito di prigione e proprietario di una trattoria a Nizza, Zegetti (Georges Géret) intriso d’odio e rancore e trafitto da un’ansia grottesca e quasi comica e due giovani allo sbando, il magnaccia Francis (Jean-Paul Belmondo) e la di lui sorella Monique (Sophie Daumier), che per lui truffa e soprattutto si prostituisce.
Da Nizza la banda si sposta in una terra desolata della Spagna franchista e depressa di allora percorsa da poche Seat copie conformi delle nostre Seicento e con più asini che abitanti, dove la figlia dell’industriale si trova a passare l’estate; il covo dove segregare la ragazza è stato scelto bene perché è un’ isolatissima magione borghese, e il civilissimo castellano è ignaro di tutto finché la banda non irrompe proprio lì, nella sua bella villa dalle pareti bianche; sarà infatti lui, il pittore Dermatt (Gabriele Ferzetti) a ospitare assieme alla moglie i sequestratori e la sequestrata e a dover patteggiare con Van Willie, il padre della ragazza, per ottenere il riscatto. Rapimento nel rapimento, quindi, perché il pittore dovrà convincere l’industriale a sborsare i due milioni di dollari in brevissimo tempo con la possibilità incombente di poter perdere la moglie e il figlio, prigionieri dei criminali assieme alla figlia del magnate.
Questa l’ossatura della storia fin qui. Naturalmente, come in ogni noir provvisto della patente di questo nome, qualcosa andrà storto e il piano di conseguenza andrà compiutamente a rotoli: Francis e Zegetti litigheranno all’ultimo sangue, e sarà Monique, dopo essere stata ferita in uno scontro a fuoco incrociato, a sparare allo spietato e grottesco rivale e a ucciderlo per salvare il fratello. Francis non si accorgerà però del ferimento della sorella e andrà beatamente a dividersi il prezzo del riscatto col vecchio “cervello” della banda; questi verrà preso dalla polizia all’aeroporto, Francis tornerà al covo e scoprirà che la sorella, intanto, è morta. Ecco, siamo alla fine: Francis lascia andare la figlia di Van Willie con la sua macchina nella quale c’è la sua parte del malloppo; il cinismo fanfarone del personaggio, interpretato al solito modo guascone e sopra le righe del Belmondo di quarant’ anni fa crolla su se stesso, deflagra in un monte di pietà umana. Deray è come se stesse girando il finale di un altro film, ora, ma si tratta di un’illusione: e sulla faccia di Bebel, ripresa contro un muro bianco mentre fuoricampo si sente il rumore dell’auto della ricca ragazza che si allontana verso la libertà, c’è tutto il suo dolore trattenuto dentro di sè per tutta la vita, e tutta la brutta fine da sempre scritta di un’esistenza iniziata male (i due ragazzi sono figli di una prostituta che lavorava in Indocina) e proseguita sempre peggio, fino al tracollo. Tutta l’allegria nervosa e le spacconate e l’incosciente spavalderia del personaggio Francis durate all’incirca 95 minuti di pellicola si spiegano ora – a rovescio- in questo suo viso in lutto senza cedimenti degli ultimissimi minuti che potrebbe sembrare addirittura una smorfia d’indifferenza; è questo nient’altro che il negativo totale di quell’accigliarsi e smorfieggiare di tutto il resto del film; è anche ripensando a quella pregressa iperattività commediante da “Uomo di Rio” (film di Philippe de Broca di un anno prima con un Belmondo addirittura funambolico) che si spiega in questo finale marmoreo cosa ha significato la perdita della sorella per lui. Che è stata tutta la sua vita, l’unico essere umano sul quale, in un mondo tipicamente noir di nemici intimi, di falsari e di crudeli ipocrisie nel quale anche lui ha fatto la sua parte perché di mondo non ne aveva potuto conoscere uno diverso, aveva potuto fino al fondo del fondo contare e tenersi in vita. Come si spiega, in qualche modo, facendo un parallelo allo stesso tempo umano e artistico, la depressione nervosa della maturità di Vittorio Gassman andando a rivedere la sua calata euforica in tutta la sua precedente, folgorante e incessante carriera di mattatore apparentemente privo di fragilità. La dissolvenza appena accennata – solo un lieve smorzarsi della luce accecante di una Spagna profonda inghiottita in un’estate crudele – chiude su un finale straziante nella sua asciuttezza, un finale che innalza di prepotenza tutto il film, che davvero lo riscatta del tutto proprio nella fine di tutto.
(Foto: fonte www.frenchfilms.topcities.com)
L’ho visto in tv qualche giorno fa, sulla 7 se non ricordo male. Poi però ho dovuto mollarlo lì per una commissione urgente. A malincuore, perché mi intrigava alquanto. Grazie quindi per il racconto Franz!!!
Splendido pezzo, Franz, sei in uno stato di grazia permanente ormai!
E, nota a margine: per me, in una “narrazione”, sbagliare il finale è forse peggio di sbagliarne l’inizio…
Grazie Mauro, il film lo conoscevo da anni, mi è venuta l’idea del pezzo sapendo che lo ridavano giorni fa su La 7, appunto.
Caro Gianni, forse bisognerebbe scrivere sempre il finale prima, riprendere dall’inizio e poi vedere se il tutto tiene.
La letteratura prevede questa possibilità, e dimmi tu se non siamo fortunati!
Abbracci.
scusi, signor fk, ma all’ainizio in questa frase: “partendo dalla propria fine” non ci vorrebbe SUA invece di PROPRIA?
Le ho tirate a sorte, è venuta fuori quella sbagliata.
Comunque, chi se ne frega della grammatica, se ci impedisce di dare un senso di ambiguità a un’intera frase, a renderla più “rotonda”? Non vede che la frase “partendo dalla propria fine”, soltanto foneticamente, scende molto più liscia che nella versione grammaticamente corretta? (Questione di gusti e approccio alla lettura/scrittura).
Tutti DOBBIAMO sbagliare, lo penso sul serio.
GrammaticaLmente, pardon:-)
io parlo dal punto di vista di chi legge, signor fk, e chi legge, leggendo quel “propria”, ci mette un po’ di tempo a capire che in realtà è un “sua”, e quindi che è uno strafalcione bell’e buono, che serve solo a disorientare, non a tutto quello cui allude lei nella risposta qui sopra. anche perché, nel suo caso, il “propria” si riferirebbe a un SE’, creando un casino non piccolo nella comprensione del testo (la “propria fine” è la fine della “propria vita”?), mentre il SUA si può riferire solo al libro di cui lei parla (cioè al “finale”). della grammatica mi frega molto meno di quello che lei immagina, e so bene che i lettori di internet sono distratti, però le faccio fare questa riflessione: di questo passo, trascurando prima una cosuccia e poi un’altra e poi un’altra ancora, la lingua diventa una babele. le consiglio quindi, giusto se non vuol aggiungere l’ennesimo mattone all’edificazione di una tale babele, di correggere. altrimenti, buona edificazione.
Non si arrabbi per così poco, signora. Mi ha fatto riflettere, comunque.
Saluti.