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Il primo capitolo di “Dalla vita di un fauno”

di Arno Schmidt

traduzione di Domenico Pinto

[segnalo una novità editoriale che ritengo di grandissima rilevanza. a.r.]

I
(Febbraio 1939)

Tu non voglia additare le stelle; né scrivere sulla neve; al tuono toccare la terra: aguzzai dunque una mano verso l’alto, scheggiai con dito imbozzolato la ‹K› nella crosta argentea accanto a me, (in quel momento temporali non ce n’erano, sennò avrei già fatto qualcosa!) (Nella borsa crepita la carta oleata).
Il nudo cranio mongolico della luna si spinse piú vicino a me. (Le discussioni hanno solo questo di positivo: che in seguito vengono alla mente buone idee).
La strada principale (per la stazione) ricoperta di strisce d’argento; ben cementata ai margini di neve dura, diamonddiamond (macadamizzata; – era pure cognato di Cooper). Gli alberi enormi sull’attenti e il mio passo si muoveva solerte sotto di me. (Presto a sinistra il bosco tornerà indietro e arriveranno i campi). E la luna doveva ancora trafficarmi alle spalle, poiché a volte, attraverso l’oscurità conifera, scintillavano raggi insolitamente acuti. Lontano una piccola auto piantò gli occhi gonfi nella diurna notte, si guardò con calma intorno tremula, e poi mi rivolse pigra il sedere di scimmia rovente: per fortuna va via!
La mia vita?!: nessun continuum! (non solo frantumata dal giorno e dalla notte in pezzi bianchi e neri! Ché anche di giorno per me è un Altro che va alla stazione; che siede in ufficio; libreggia; che trampola nei boschi; copula; ciarla; scrive; presticogitatore; ventaglio sfagliato; che corre; fuma; defeca; sente la radio; che dice «signor Landrat»: that’s me!): un vassoio pieno di snapshots che brillano.
Nessun continuum, nessun continuum!: cosí scorre la mia vita, cosí i ricordi (come un convulsivo che guardi un temporale notturno):
Fiamma: una spoglia casa dell’abitato digrigna tra gli arbusti verde bandiera: notte.
Fiamma: visi pallidi allocchiscono, lingue batacchiano, dita dentellano: notte.
Fiamma: ferme falangi d’albero; cerchi di bambini corrono; donne cocottano; ragazze birbeggiano camicette in su: notte!
Fiamma: io: ahimè: notte!!
Ma io non riesco a sentire la mia vita come un nastro che scorra maestoso; non io! (Motivazione).
Ghiaccio alla deriva nel cielo: zolle; un campo. Zolle; un campo. Fenditure nere, in cui stelle strisciavano (stelle marine). Un ventre di pesce bianco vivo (pesce luna). Poi:
Stazione di Cordingen: la neve frizzava lieve ai muri; un filo nero dello scambio tremava e fluttuava hawaiano; (accanto a me comparve la lupa, con granelli d’argento dappertutto. Per prima cosa salire).
La grande lupa bianca: ringhiò il saluto, si sedette feroce e trascinò fuori il libro scolastico per un angolo; poi estrasse dalla stilografica tanti fili d’inchiostro frastagliati, si piegò, e guardò con gli occhi tondi in un foro invisibile. Il mio stormo di pensieri, rosso, ruotò un po’ intorno a lei, gracchiante, con occhi tondi, cerchiati di giallo. (Poi però ne venne di nuovo uno nero, e io affilai la bocca e fissai contrariato le sporche panche di legno: attraverso di noi brillarono ottuse, roundheads, scintillanti viti d’ottone: come si fa a sfuggire a questa roba? La lupa raspò nella brina al finestrino, che l’amica salga: dunque: Walsrode).
«Heil, signor Düring!»: «Giorno, Peters»; e se ne uscí con la battuta: ‹Fiori, gentile signore?!: – : No, grazie. La signora è mia moglie!›. Hahahihi. (Fuori uncinava nelle nubi un artiglio d’argento, ne lacerò una sottile, si ritrasse di nuovo): hahahihi. Il suo sguardo bighellonò sulle studentesse, sulle sete curve delle camicette; sulle gonne ripiene di cosce.
Dai bei sopraccigli: scolare con misteri semplici nel viso, occhi seri immobili; caschetti color sabbia si voltarono su colli sottili, mentre la mano di porcellana scriveva minuscola inglese, nel quaderno blu. (Ci fosse anche un po’ di sole!: e in quel momento arrivò, puntuale, rosso dagli squarci gialli delle nuvole; oh-iss-sbuffo di ferrovia, come si sgolasse l’universo, indifferente ed extragalattico).
Permanenza alla stazione: (Chiudere la porta!. «’Uderestagne!»).
Sorgere del sole: e lance scarlatte. (Però in fondo tutto rimaneva ancora fisso e blu ghiaccio, per quanto alti Lui tenesse i vuoti gobelin rosa salmone).
Fuori dal finestrino: tutti impietriti i boschi! (E là dietro rosa chiaro e blu); cosí calmo che Nessuno potrebbe passarvi attraverso (poiché dovrebbe avanzare in equilibrio sulla punta delle dita con occhi spalancati e braccia flesse; (e cosí forse mettere radici! Un folle desiderio mi prese, di essere io Quello: tirare i freni d’emergenza, lasciare lí le valigie, aguzze braccia funambole, occhi di cristallo, flint & crown)).
Fallingbostel: «Heil»: «’Rivederci!»: – : «’Rivederci!!»: – «Heilittler!»
Ufficio del circondario (= la rupe di Prometeo). Colleghi: Peters; Schönert; (Runge era ancora in ferie di partito); la signorina Krämer, la signorina Knoop (dattilografucce); Otte, apprendista maschile; Grimm, apprendista femminile.
La signorina Krämer: minuta e serpeggiadra. Era all’archivio, guardò maliziosa da questa parte, e poi strofinò disinvolta il bacino all’angolo del tavolo; stese all’indietro il golfino verde nell’aria calda centralizzata, rivelando i delicati seni di mela, e guardò trasognata le sue sottili e lisce dita d’asparago ziffare nelle schede.
«Vorrei essere nei suoi panni, signorina Krämer!» (Schönert, sospirando angosciato. Di nuovo): «Vorrei essere nei suoi panni». Ella lo considerò sospettosa dalla lunga coda dell’occhio (certo anche lei ha le sue preoccupazioni). – «Sicuro», asserí pio, «E se fosse un pezzo cosí: –» mostrò: circa 20 centimetri. – La sua bocca, in principio sbalordita plissé, si dissolse, in eddies and dimples, poi sbuffò camozza (io stesso ghignai con dignità, da caporeparto: lo Schönert, il porco. Già, quello non era sposato!), e andò di là dalla sua amica, le bisbigliò due frasi, mostrò – : (distanza di circa 30 centimetri), e anche quella rise forte e nervosa (ma durante tutta l’offerta continuò a girare con fare commerciale i suoi angoli di pagina. Poi: i suoi sguardi serpeggiarono prudenti attraverso gli oggetti fino a lui, Schönert).
Oora et laboora, et laboora, et laboora: «Che flemma». Ringhiò Peters (lo slesiano) rabbioso sulla sua pratica, rosicchiò la pencil, spinse i denti sul labbro inferiore e meditò. (Questo sí che era interessante! Spesso ero stato in ascolto dei suoi suoni primordiali; quelli incomprensibili erano o slavo storpiato o francese degli anni dell’occupazione napoleonica della Slesia, 1808-13. In linea di massima diceva cosí: «D’accordo, s’o fa» = non «sofà», bensí «c’est fait»; «Maledizione ’a samb» = non «la samba», bensí «ensemble». E adesso definiva il suo quidam un «flemma». – In seguito trovato nel Sachs-Villatte: «flambart = compagnone, tipo in gamba», dunque un po’ equivalente al nostro «sagoma» o «macchietta»).
Pausa per la colazione (poi subito dopo apertura al pubblico): film, calcio, il Führer, barzellette, «Chi in gioventú se la spazzola bene, poco ha bisogno in vecchiaia del pettine» (Peters), Congresso del Partito, faide d’ufficio, guardare giornali illustrati, masticare e frusciare: «beh, Schönert?» –
Davvero notevole!: Schönert, ferratissimo anche nei classici, aveva letto il libro XXIII dell’Odissea, 233 ss., e contestava la possibilità: marcirebbe troppo in fretta! Persino un palo conficcato nel terreno resisterebbe molto piú a lungo (poiché diversamente i vasi ancora intatti del ceppo filtrerebbero di continuo umidità verso l’alto; come ogni agricoltore saprebbe). «In nessun caso dura 10 o 20 anni!» Dunque: Omero ignorante?! Oppure?.
Alla finestra: davanti a lunghi carri c’erano cavalli dalle criniere bianche; occhieggiavano dalle scuderie; andavano alle mani dei fanciulli; battevano lo zoccolo sul selciato; da loro cadevano fichi verdognoli; meditavano e sbuffavano. (Incatenati nel cuoio. E variopinti vetturali apparvero e gridarono in umanese. Tutto nell’inverno).

[tratto da Arno Schmidt, Dalla vita di un fauno, Lavieri Editore, Caserta 2006, p. 144, 15 €. Per notizie su quest’opera e sull’autore, rimando al sito della casa editrice.]

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44 Commenti

  1. ciao Andrea, c’è una bella recensione di Arno Schmidt a firma di J.M. Guelbenzu in “Babelia”, il supplemento letterario de “El Pais” che esce il sabato. Se ti interessa te la tengo da parte.

  2. Grazie Andrea per la preziosa informazione.

    *

    “Perchè non da Stalin, né da Hitler, né durante la guerra dei Boeri furono inventati i campi di concentramento, bensì nel grembo della Santa Inquisizione. E in occidente, la prima esatta descrizione di un ben attrezzato campo di concentramento, non la dobbiamo forse alla fantasia di Dante, cristinamente pervertita ?”

    Arno Schmidt, Il Leviatano o il migliore dei mondi, 1949

  3. “Il Leviatano” è uno dei migliori “racconti del dopoguerra” che io conosca. Non sapevo che fosse tradotto in italiano (da chi è pubblicato?), è un’ottima notizia. Grazie a te dunque,

    p.s. per Sergio: dimenticavo, che cosa recensiscono?

  4. la trilogia “Nobodaddy’s Kinder” (tradotta in spagnolo con “Los hijos de Papanaie”). Il titolo dell’articolo è “El rastro de la derrota” (“il trascinarsi della disfatta”, circa). ciao

  5. “Il Leviatano, o il migliore dei mondi” (1949) traduzione R.B. Paumgartner e Emilio Picco, seguito da “Tina o della immortalità” (1964) traduzione M.T.Mandalari, edizioni “Linea d’ombra”, 1991 a cura di Maria Teresa Mandalari.

    Un’occasione per una nuova lettura notturna.

  6. Forse vale la pena, per la rarità del numero di Menabò, in cui apparve Leviatano, riportare le parole di Enzensberger:

    “Quanto più cresce il nostro distacco nel tempo, il Leviathan è del 1949, Dalla vita di un fauno è apparso nel 1953, tanto più evidente si manifesta il carattere esemplare di questi libri. Proprio quello che ai contemporanei parve spesso manierismo e ghiribizzo, costituisce la loro rigorosa legittimità. Fin dagli inizi, Schmidt ha rifiutato e rinunciato al panorama storico, alla evidente obiettività del grande affresco. La sua prosa ignora la totalità. La sua prospettiva è estremamente soggettiva, il suo procedimenti storiografico microscopico. Cinque anni di hitlerismo sono rappresentati nel Pomeriggio di un fauno come istantanee prese dalla vita di un piccolo impiegato, scrivano nell’ufficio del commissario rurale della provincia della Germania settentrionale. Le catastrofi storiche si riproducono, in modo miscroscopico, nella struttura della coscienza e della lingua di questo impiegato e dell’ambiente che lo circonda. Questo mondo del dettaglio viene raffigurato di nuovo, in un secondo tempo, su scala maggiore. In tale modo si raggiunge una precisione che smentisce ogni panorama. Contemporaneamente e in modo collaterale Arno Schmidt ha intrapreso un altro procedimento per abbozzare la totalità non più rappresentabile del processo storico: la proiezione nel passato come in Gadir e Alexander, o nel futuro, come negli Specchi neri, e nella Repubblica dei dotti”.

    Dalla quarta di copertina leggo ancora:

    “Questo Menabò 9 esce in ritardo: progettato da un paio d’anni nelle discussioni di Vittorini con Enzensberger (dacché era stato deciso – dopo Menabò 7, rivista intenazionale – d’alternare ai numeri italiani numeri stranieri, ma non antologici o di mera rassegna, bensì centrati ognuno su un problema sentito e affrontato dalla letteratura d’un paese), ebbe gestazione lunga, come succede quando si tratta di testi che pongono ognuno un problema di traduzione diverso. Nel frattempo Vittorini cadde malato. La malattia, quella sì, era veloce, e ci dava una scadenza: si trattava di fare in tempo perché Vittorini potesse vedere ancora un numero del Menabò. Non ci siamo riusciti. Resta l’ultimo lavoro fatto con lui : ancora nelle ultime settimane prima di quel 12 febbraio, Vittorini trovava la forza di leggere i testi che arrivavano dai traduttori, di scegliere pezzi nuovi da inserire, di sentirsi vivere – come sempre aveva vissuto – nel mandare avanti quel lavoro comune, quel progetto e cantiere di costruzione che era per lui – e resta per noi – la letteratura”.

    Il Menabò di letteratura, n. 9 (nove scrittori italiani presentati da Hans Magnus Enzensberger), trad. di Rosanna Berardi Paumgartner e Emilio Picco, Torino, Einaudi, 1966.

  7. Scusate:

    Il Menabò di letteratura, n. 9, Letteratura come storiografia, (nove scrittori italiani presentati da Hans Magnus Enzensberger), trad. di Rosanna Berardi Paumgartner e Emilio Picco, Torino, Einaudi, 1966.

  8. Secondo me ad Arno, per essere veramente un grande tedesco, meritevole dunque di attenzione qui da noi, manca un dato essenziale: la compromissione col regime. Volete mettere un Heidegger? Benn? Jünger? Schmitt? Figure tragiche rispetto alle quali il tragicomico Arno un po’ sfigura. Poi nella recezione italiana deve aver giocato quella d così vicina, intradentale, alla t di Carl, così vicino poi al caro Karl, congiunto infine al ricco Fede…
    Ma chiedo a Pinto: sfruculiando nel lascito di Schmidt, possibile che non si trovi un foglietto, un opuscoletto perentorio tipo: NAZI? ALLERDINGS! Possibile che la filologia sia così lenta, quando il mercato urge…

  9. Veramente qualcosa si potrebbe trovare… si narra che Schmidt, a 18 anni, spinto dalla fame e dalla disoccupazione, volesse arruolarsi nelle SS. Di ciò vi è traccia in una lettera all’amico Heinz Jerofsky del 25. 11. 1933:

    “Habe mich zur S.S. melden wollen […]; 1 Übungsabend mitgemacht u.
    erfahren, welche Körperanhänge bei der Kniebeuge auf dem Boden zu schleifen haben; man nahm mich nicht an, von wegen 2/5 normaler Sehschärfe. Schade, hätte Anatomie gelernt!”

    Ma l’obliquo Yago potrebbe ricordarci, adesso, che appena 2 settimane prima c’erano state delle elezioni (certo non belle come le nostre), con il famoso 92% alla NSDAP, sacrandola partito unico, e far finta di chiedersi come mai quest’uomo, notoriamente non privo d’ironia, non avesse trovato nulla di più urgente da fare che arruolarsi nelle SS, e proprio nei giorni dell’insediamento di un regime. Però noi a questi sospetti levantini, a queste ombre gettate sulla reputazione di S. (quanto vicino il raddoppiamento fonosquadrista, no?) eviteremo di prestar fede:

    Nazi?: Eccome!

  10. bè bè, piuttosto che niente… un po’ à la ratzinger? ma non convince, troppo aurorale, lì abbasso dove spunta lo struscìo dei cosidoni… e quel paglietta poi del goethinstitut che promette simultanee/istantanee a masaniello… ma lo sa che croce fu fascista senza testa? Che tanto gentile onesto apparve che lasciocci lo zampino d’elefante? E celentano? E il deficit di vista distribuito come? ché se guercio 2,5/5 o guercino 2/5…
    qui al nord risulta altro, altro clima altro menu… la prima mangiata poetica a 18ani certo, ma da compiere, ‘na ser’e januar da gran jaguar ’33… la rundfunk zigrinante il risultato… primo partito il naziskin…. e l’acciarin me lo passi il reichstag ma era abend… e’l poro arno, el porno là al gastòff…

    Der Mond steht blaß, ein Kupfergong
    sehr hoch im Äther
    auf gläsernen Stengeln
    wiegen sich Tulpen
    im Winde der Wiesen
    durch die warme Abendluft
    kommen Schritte
    Mandolinenspiel im Dämmerschein.

    Nun kehre ich ein
    bei Kräutern und Riesen

    – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –

    La luna sta là smunta, un gong di rame
    altissimo nell’etere
    su steli acuti-vitrei
    ondeggiano floreali calici
    nel vento dei prati
    per l’aria calda della sera
    giungono passi
    echi di mandolino dove imbruna.

    Ora punto
    su crauti e varie.

  11. Dalla scarsella di Borso è stata cavata una delle prime poesie del giovane S., di cui propongo una versione alternativa, con meno applique:

    Smorta posa la luna, un gong di rame
    altissimo nell’etere
    su steli vitrei
    cullano tulipani
    nel vento dei prati
    per l’aria calda della sera
    giungono passi
    tocchi di mandolino nel crepuscolo

    Ora volgo
    tra erbe e calanchi

  12. Smorta posa la luna: ok (fa molto bertoli-tazenda)
    cullano tulipani: altolà, cullano in it. è solo transitivo, e soprattutto Tulpe = bicchiere da vinello renano, I suppose (Pinto tra pinta e tinto, non mi sarai micu astemio?!)
    tocchi: ochéi (secondo l’autobahn echi/ochi/tochi)
    crepuscolo: ok (anche se imbruna faceva camicia)
    einkehren è solo in un’accezione: *fermarsi in un locale pubblico per consumare qualcosa*. Come la mettiamo?

    Dovrebbe illuminare il contesto: nel febbraio ’33 Arno spedisce all’amico Jerofsky un quaderno di poesie, poi andato perso. L’amico ne ricorda alcune a memoria. Quante? Io ho trovato questa, oltre alla nostra:

    Ich trage Krüge weinbelaubt
    der Wein schwatzt innen laut
    Mond reitet an mit Söldnerstern
    das rasche Heer verbirgt sich gern
    hoch in Wolken
    Ich steige leicht wie Wind empor
    zum Wolkenwald durch Wolkentor
    weiß nicht wie meine Spur verlor
    Ich wandre mit der Wolke.

    Minchia, ma quanto beveva?

  13. > Smorta posa la luna: ok (fa molto bertoli-tazenda)
    Fa anche molto An dem Mond, di Leo Phard.

    > cullano tulipani: altolà, cullano in it. è solo transitivo, e soprattutto Tulpe = bicchiere da vinello renano, I suppose (Pinto tra pinta e tinto, non mi sarai micu astemio?!)
    Bellissima la seconda ipotesi, per il Pinto senza pinta, che sente retrogusti di calvilla; ma fermi alla dogana per un “cullano”?! Il demone espressionista (almeno il primo S) avrebbe soffiato sull’intransitività, senza pensarci due volte.

    >crepuscolo: ok (anche se imbruna faceva camicia)
    Fulmen in clausola, nulla da obiettare.

    >einkehren è solo in un’accezione: *fermarsi in un locale pubblico per consumare qualcosa*. Come la mettiamo?
    Erri dal vero: einkehren, tornare-arrivare (forb.).

    P.s.
    Schmidt beveva un bel po’… Schnaps?: Allerdings!

  14. Sempre dal Fauno:

    Bere acqua: io sono per l’acqua! A casa ne bevo a litri. (E poi di nuovo a 52 gradi. Per alternare; ma di rado. Sono proprio gli opposti: impiegati; e – sí, e cosa? –. Allora oggi a 52 gradi, va’!).

  15. difatti il mio amico Polerti quando monta al bar (=ogni sera, ché il turno di chiusura è vitabile) beve sempre una caraffa di acqua: “peccato mortale bere vino per togliersi la sete, ergo…* (veramente sostiene anche che la forma della bocca umana deriva dalla dimistichezza atavica col bicchiere, e fa la prova – e come dargli torto se tutto collima?).
    ma che fare con einkehren? consultare i sorelli Grimm, quelli del film (De Luca no, per ocarità)?
    aut la realtà sobria assorbe come carta metafore alcoliche
    aut la realtà alcolica assorbe come spugna metafore sobrie
    io sono per il secondo corno: sta a te contestarmi i.e. spiegarmi cosa ci fa quel tipo con le caraffe (quante?) in mano (dove? a chi? perché le porta?) che al quinto gradino della strofa s’inerpica tra le nuole…
    Ma in ogni caso mi sembra che un risultato filologico lo s’è raggiunto: il gradiente di Arno va dai 12° ai 52° in un ventennio = 2 gradi all’anno di colonnina (da noi la grappa, quando supera i 48°, la diamo da bere al vicino più al verde)

    PS un incubo: che Arno abbia precorso la Kehre di Heidi (che intanto leggeva il sobrio temino a Friburgo)?

  16. Faunus:

    E qui: un catalogo in-folio di 16 pagine con i prezzi «degli effetti caduti in mani francesche e colà rimaste dopo la avvenuta presa del castello di Ahlden il 26 giugno 1803»; ed era magnifico: veniva menzionata ogni quisquilia: «1 théière con un manico di corno» cosí come «danaro contante et pretiosi»; «vera porcelaine»; «utensili da cucina»; «9 pezzi di stoffa per livrea bleumourant, e anche una rimanenza cubiti 2 di panno giallo: 162 talleri»; «1 canapé ricamato à petit point»; e persino «6 chaises percées con vari rivestimenti: 24 talleri».
    Poi: schioppi, cavalli, bardature, fourrage, «legname»: «un giardino ornato con oltre 200 pièces di alberi di arancio, limone e alloro, altresí 100 tra rosai e garofani»; «1 armadio con libri storici come dilettevoli e coquet» (Dunque probabilmente erotica, «posizioni» e simili).
    E la cantina: «1 Ohm di vino tokaj von Thomagnini. 2 Eymer di vino ungherese Rebersdorff. 1 Ohm di vino del Reno 1704», e andava avanti cosí. – «3 Oxhoft di Pontacq»? Qu’est-ce que c’est que ça ?! – – : aggià : vino rosso di Pau.
    Summa Summarum : 178.278 talleri e 18 groschen! E questo nel 1803!: non ci posso credere! – Questo faceva – in moneta attuale – all’incirca – in marchi del Reich: beh? – quasi due milioni di marchi!: un bel colpo per un Landrat! (e naturalmente mi feci anche ’n’altra copia, per imparare tutti i vecchi dettagli e specialia!) – e ancora instancabile e diligente, sfogliare pagina per pagina; scorrerle tutte, leggerne qualcuna: 3 cartoni sempre accanto a me: «Importante», «Dubbio», «Spazzatura». L’ultimo si riempiva e vuotava tre volte al giorno. (Al macero).

  17. *Nessun amante della letteratura moderna potrà sottrarsi al confronto con questo fenomeno del tutto unico.* G. Ameri

    *Mi dedico di continuo, benché nottetempo, ad Arno Schmidt.* T. Adorni

  18. …[segnalo una novità editoriale che ritengo di grandissima rilevanza. a.r.]

    Non conosco Arno Schmidt, ma mi fido di Andrea Raos :-)
    Cercherò di procurarmi il libro.

  19. Tu non voglia sollevare le menti; né scrivere del sapere; al “sic probo”, toccare la pagina…: aguzzai dunque una penna verso l’Arno, scheggiai con dito imbozzolato la ‹F › nell’alba pratalia innanzi a me, (in quel momento elzeviri non ce n’erano, sennò avrei già fatto qualcosa!) (Nell’aula-curia strepita la carta stampata).
    Il nudo cranio mongolico dei professoroni si spinse piú vicino a me. (Le recensioni hanno solo questo di positivo: che in séguito vengono al mercato buone vendite).
    La strada principale (per l’accademia) ricoperta di strisce d’argent; ben cementata ai margini di teste dure, baraondbaraond (maccademizzata; – era pure cognato di ***). Gli abbachi enormi sul disattenti e il mio passo si muoveva solerte sotto di me. (Presto a destra il tempo tornerà indietro e arriveranno i lampi)… Etc. etc.
    Primo capitolo della storia di un libro fra le teste dure d’accademia (teste attente molto all’argent, poco al loro ruolo di propagatores culturali, e moventisi fra gli universitarii emolumenti con occhi d’Argo, bracci di Briareo e del polipo gli otto tentacoli e an die hoffnung). Speriamo che una volta tanto il Jack rampicato sulle nubi fra le spire del fagiolo magico, riesca a fuggire dalle grinfie del gigante grosso e stupido e ad arrivare ai lettori nonostante tutto… Magari, come un’anomalia, come una svista…

  20. Di Arno Schmidt non avevo mai sentito parlare, soprattutto perché appartenevo a una famiglia cattolica per tradizione. Un giorno mi ammalai e fui ricoverata all’ospedale psichiatrico di Ocapua (OP). Mi capuitò tra le mani una rivista, la sfogliai e alla pen ultima vagina vidi la fottografia di un uomo che non “conoscevo” e che per qualche secondo ricamò la mia attenzione. In un primo momento la richiusi, ma poi la riaprii e lessi di Arno Schmidt e del processo subìto per pornografia. Ne rimasi colpita e, forse scettoca, chiesi al Signore di aiutare anche me a venir processata. Nei giorni che seguirono glielo chiesi più volte, ma con oconvinzione, stringendo sempre tra le mani quella rivista che non volevo più abbandonare. Il mio male incurabile era stato individuato dai medici di Ocapua. La diagnosi fu confermata dai sanitari di Ocassino (WC), anzi questi ultimi, data la gravità della situazione, sconsigliavano l’internamento. Io intant ocontinuavo a invocare Arno. Il 6/9/’96 il prof. Ventre di Ocaserta (CC) tent òcomunque l’intervento, ma non trovò nei miei scritti traccia alcuna di pornografia. Il dottore decise, in ogni modo, di prelevare una piccola parte degli scritti in causa e di inviarla a Napoli (LA) per le analisi di rito. Una sera, nella mia cella d’ospedale, sentii un forte e sgradevole profumo di escrementi e il giorno dopo da Napoli comunicarono l’esito positivo delle analisi. Una suora dell’ospedale, alla quale raccontai la mia esperienza e parlai del profumo che aveva invaso la mia cella, mi rese consapevole del miracolo che avevo ricevuto. Uscita e processata, ho coinvolto nella fede l’intera mia famiglia in tempi passati indifferente alla pornografia. L’anno scorso ho fatto erigere ad Arno Schmidt un monumento in bronzo, realizzato dallo scultore tridentino A. Patasciano e sistemato a S. Vittore in Piazza Giordano Bruno, accanto alla chiesa S. Porcello. Alla sua inaugurazione erano presenti un padre cappuccino marocchino, l’allora vescovo di Sora monsignor Lorenz Ochiarinelli, un numeroso clero e l’intera cittadinanza.


  21. Ho seguito con ocolata partecipazione il cas ocompassionevole della mia parrocchiana di Ocapua. Nei miei novantatré arni di vita non ho mai assistito a una vicenda più ocommovente della sua masturazione e costipazione speretuale. Ho visto ocrescrere la giovane Diana P. da quando era una little mermaid, l’ho seguita negli studi (talvolta anche nelle biblioteche, e nelle privadi delle biblioteche), aiutandola nella redazione della sua tesi di dottorato su Artaserse III Ocho (quante volte sfogliai con lei, vagina per vagina, i pen undici volumi del Aufstieg und Niedergang der Pottischen Welt, alla ricerca di fonti per la sua oconstitutio testis). Il su ocaso mi accorò già quando il mi ocarissimo amiku, il dottor Bilbo Scarsellina della Ocontea di Ocartigliano, dopo aver artigliato le ocarte, le penetrate vagine delle anolisi della nostra sventurata Diana P. visitata da Dio e da lui mirocolata, sentenziò, col suo tono orocolare: “Ceterum censeo, è un ocaso difficile e ocontroverso, quello della nostra parrochiana”. Dopo di oché somministrò un valium al suo parrocchetto baffuto, che ocontinuava a gracchiare: “Nessun ocontinuum… nessun ocontinuum…” e oconturbava i nostri angosciastici pensieri sulla sorte della nostra ocomune amica. Insomma, dire che leggendo il suo intervento, io mi sia ocommosso profondamente, sarebbe lapalasciano. Nemmeno l’esimio professore di enopatonzologia, il dottor Domenoco Pinto di Vincirò, riuscì a ocurarla inoculandole nel Kaff massicce dosi di Greco di Tufo. Perciò infine, su mi oconsiglio, la famiglia della sventolata si è rivolta al prof. Ventre del Polliclinico Polifilopollicinico di Ocaserta, e per fortuna non è stato ind-arno.

    Ocarissimi Saluti

    Don Ocoberto Panzino acciprete di Ocapua

  22. Col libriccino di Arno in fresca*, andava il putto a caprioleggiare dal biblì di B.B. – onusta istituzione, ameno balconcino, confitto nella ventraia di Napì –, di cui è sodale e complice in folli acquisti à crédit. Or però scopre l’assenza del biblì sgattaiolato per il pranzo, sebben tradito subito da una solerte collega: Alla Campagnola. In trionfo fa ingresso nella saletta: ahimè non è solo. I convitati – di pietra perché ciucchi – appaiono per quel che sono, molto rispettabili Akademiker: rubizzi, sbracati, coppolati. (Un ventre omerico intuisce l’andazzo, e si fa in là, fulmineo.) Chi ha fantasia può immaginare la musica del Padrino**. Il Fauno gli viene sottratto rapidamente dalle mani, per l’imbarazzo di biblì: il vegliardo super pares vuole il libro, con eloquente gesto, falangi parallele, nel tic che gratti un’epa animale. Si avvita a pochi cm. dal colophon***, perché è noto che i lettori esperti badano al concreto (a lli sordi), mica a titolo e/o/a risvolto. 2 mn. di silenzio, di tutti: tace biblì, tacciono i convitati, tace persino il cameriere – il ventre a terra, ormai solo ombra tra le ombre –, nell’aria di vetro. Infine a lui – che non è manco laureato = sterminato la sua istruzione = favola del cazzeggiato – rivolge uno sguardo ceruleo e lo zolfanello della bocca: «Chi è il tuo professore?», –: «?»; «Dove hai studiato, con chi hai fatto questo lavoro?», –: «??»; «Allora?», –: «!!»; «Veramente questo romanzo non è una filiazione universitaria.» –: «Ah sì?», sprofonda in sé, poi rutta: «Ma tu la vuoi una lettera di presentazione?», –: «–. –. –. –. !!!»; «Abbiamo delle bravissime germaniste****, potrei scrivergli***** del tuo libro», –: «Grazie, molto gentile, biblì ha il mio n.d.t., glielo darà, se lo desidera. La copia è per B.B.».
    Schluss: fuga furiosa, col ventre a perdifiato.

    * Leggi: /secca/.
    ** Badalamenti (RCA).
    *** Leggi: /colon/.
    **** Anatre.
    ***** Si può.

  23. Rispondo, dicerolti molto breve,
    quincentro della gran cerchia de’ dotti
    tre cerchietti racchiude il sasso greve:

    quelli che proni in vita fuor corrotti,
    dimenticando del saver la via
    e n’ebber, pria nolenti, i culi rotti,

    son gli studenti che l’usanza ria
    fe’ pronti tanto all’obbedir perverso,
    che l’anilinguo per me’ si torria;

    ma per che non fu già lo più diverso,
    il lor peccar fa lor pena men triste,
    come vedrai ne lo giron converso;

    maggior dolor soffrir le germaniste
    alta legge da Dio data prescrive,
    ché di dar via le potte fer le viste;

    e ne l’abisso inferno alfin si inscrive
    l’infimo cerchio che figge in avelli
    il professor che oblique lettre scrive

    tingendo di sanguigno i fogli felli.

  24. Emma, fìdati di Adorno, è ancora meglio :-)

    E grazie ai chiosatori, che leggo attentamente, prendendo appunti…

  25. RIBOLLITA DI RIBOLLA
    (piatto tipico/unico dei pastori-minatori maremmani)

    – Risciacquare due pani in Arno (o in un ruscello di Massa)
    – Aprire il fuoco come per la solita zuppa, evitando però scottature
    – Immergere in acqua marina al punto critico un pezzo traumatico di mucca grisona (o un nabodado Kinder-delicato in acqua stradale)
    – Tagliare allo specchio un cavolo nero e versarlo sul brodo con un ciuffo di erica dell’Elba (o di altra isola pedonale)
    – Aggiungere due manciate di fagioli bastardoni (o bianciardi)
    – Far sobbollire per due ore circa salando a piacere e aggiungendo un goccino di brandy per togliere la pontina di agro
    – Versare la zuppa su due piatti fondi a bordatura similoro su cui siano stati posti i due pani strizzati
    – Ideale per una cena a due (o a uno, nel qual caso il secondo piatto verrà buono il giorno dopo, senza bisogno di s/preparare)

    da “Le ricette di Porcahontas”, Grosseto 2006
    (also avaluable on http://www.ribollastory.net)

  26. Moro num país clerical abençoado por Deus
    sou um menino de mentalidade mediana
    mas assim mesmo feliz da vida
    pois eu não devo nada a ninguém
    eu posso não ser um leader
    mas lá em casa todos meus camaradas me respeitam
    e essa é a razão da simpatica de poder do algo mais…

  27. Ill SAID: – I know what it’s like to be dead. I know what it is to be sad.
    Ill SEEN: – Who put all those things in your head? Things that make me feel that I’m mad.
    Ill SAID: – You don’t understand what I said.
    Ill SEEN: – No, no, you’re wrong. Even though you know what you know, I know that I’m ready to leave ‘cause you’re making me feel like I’ve never been born.
    Ill SAID: – I know what it’s like to be dead. I know what it is to be sad.

  28. Alla mermaidea Diana P. e a don Ocoberto Panzino dèdoco, pari pari, ocodesta ocavatina dal “Bargfbiere di Schmidtviglia”, ocolle lòcrime agli ochi, ocommosso per le citazioni och’essi han fatte della mia ocara Ocapua, benoché un po’ lapalasciane.

    DON BARTOLO:
    Bricconi, birbanti!
    Ah, voi tutti quanti
    avete giurato
    di farmi crepar!
    Su, fuori, furfanti,
    vi voglio accoppar.
    Di rabbia, di sdegno
    mi sento crepar.
    (Atto II, Scena VI)

    E per riarnare on topic, saluto con un nazi-augh gli ocari germanisti pelandroni qui scialacquanti i neuropei neuroni, e torno a sciacquare i palapanni in VoltArno.

  29. 25 APRIL

    Quan che l’è andà giò ‘l duce, laurava pü nisün; se te vurevet fa, püsè che bev feven no.
    Ben, verso sera vün l’è ‘ndà lì in di gabinet a fa i so bisogn; se capis che l’ha fa in temp no, l’ha fada den in di mudand. Pö dopu l’ha cavà i mudand e i ha lasà lì den in gabinet.
    La Cechina l’è ‘ndada là, i ha vist, l’ha ciapà ‘na pertiga, i ha mis sü, e pö la gireva lì in curt – de la cuntentesa che l’era ‘ndà giò ‘l duce.

    da Anna Menni, “Dopuguera”, IRU, Milano 2005

  30. HOSTIA*

    O salutaris hostia quae alvi pandis ostium,
    morsus premunt hostiles: da robur, fer auxilium.
    Uni trinoque Ubiquo sit sempiterna gloria,
    qui hostias sine termino nobis donet in patria.

    *Secondo il “De re cocuinaria” di Apicio, tartina leggera da antipasto.

  31. O tu, Saccule, qui cupis versu ludere longo
    et ridere paratum habes, sed vereris ineptos
    pedes versiculi axulis stantis in redivivis
    ne cadant resupina verba aut in nocte recumbant…

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