Pubblico e privato ai tempi del caimano
di Francesca Serafini
Ieri, un’amica mi ha detto che sono “un po’ stronza”. Nel pomeriggio, il presidente del consiglio mi aveva fatto sapere che sono una cogliona. Ieri non è stata una gran bella giornata.
C’è una differenza, però: potenza dei media. Un’amica ti ferisce in privato e ti senti sola. Un presidente del consiglio ti offende in pubblico e ti senti parte di un tutto, più vasto, orgoglioso e indignato. Io, in definitiva, di quell’uscita gliene sono pure grata, anche e soprattutto per ragioni politiche. Voglio dire: era appena reduce da un successo in termini di comunicazione e di marketing sul suo avversario (che deve fargli – in queste ore – proprio tanta paura). Lui aveva tirato fuori dalla manica – sfrontato, anche lui solo, sul timone di una nave che sembrava fino a quel punto aver perso la rotta – dico, tutto insieme tira fuori l’asso dell’Ici e riesce a monopolizzare gli ultimi giorni di questa orrenda campagna elettorale. Solo lui, e meno male che l’ha fatto, poteva dare un po’ d’ossigeno alla sinistra nel tunnel in cui l’aveva ricacciata, guadagnando altri titoli e altro spazio di segno contrario sui media con quella scartina che gli deve esser scivolata dalla manica quando ha allentato le difese e rilassato le braccia. Quella scartina non ha fatto altro che mettere in pubblico la parte peggiore del presidente, qualcosa che pensava e teneva sepolto e che gli deve esser scappato in un ambiente che in quel frangente deve essergli sembrato rassicurante, accogliente. Familiare. È come se si fosse steso sulla poltrona del suo soggiorno in ciabatte, con una ricca cena nello stomaco e una giornata pesante sulle spalle e, finalmente, nel chiuso di casa, avesse potuto dare libero sfogo a quel genere di pensieri che, in un modo o nell’altro, un po’ tutti facciamo e in altri contesti ci teniamo per noi. Per ragioni di opportunità, di interesse. Di educazione. Quelle stesse che a casa si possono dire, perché i segreti della pentola li sa il coperchio e sotto il coperchio tutti quanti borbottiamo. Continuamente.
Ieri, il presidente del consiglio non era nel soggiorno di casa sua (lì, qualcuno, magari uno dei suoi tanti figli, vedendola scivolare sul pavimento dalla manica dell’uomo – almeno in casa non più presidente e infiacchito come tutti dalla digestione – avrebbe raccolto la scartina e gli avrebbe detto, “fai attenzione, finché non si va al voto, meglio se la lasci qui, al sicuro, dovesse caderti da qualche parte”…).
E così tutti quanti – del resto non era la prima volta – abbiamo potuto buttare l’occhio oltre il coperchio, nella pentola e nel suo volgare borbottio. Difficile credere che in questa mossa ci sia dietro una strategia. Tutto può essere, conoscendo l’esperienza del presidente in fatto di comunicazione. Ma tenderei a credere che quella stessa esperienza, per una volta (e benedico il tempismo), gli si sia rivoltata contro. Parlo dell’esperienza delle sue televisioni, quelle in cui pubblico e privato tendono a confondersi da tempo. In senso negativo. Perché in senso positivo questo fenomeno era già sorto. Ci tengo a dire che Mediaset, a questo proposito, non ha inventato nulla. Non vorrei attribuire alle sue televisioni (che non demonizzo e che spesso frequento) questo merito. Le televisioni di Mediaset (e poi la Rai a ricalco) hanno solo innescato un meccanismo di degenerazione di qualcosa che già c’era e che in tempi di par condicio blob sta montando – come fare di un problema, tanto fastidioso quanto necessario, una bella risorsa – in meravigliosi pezzi che ci raccontano l’Italia di qualche caimano fa. Un paese nel quale c’era una distinzione netta, riconoscibile, fra pubblico e privato. E il pubblico (le istituzioni) poteva qualche volta venire in soccorso del privato (il cittadino), così come il privato poteva permettere – e nei montaggi di blob questo si staglia con nitore cristallino – ad altri nella stessa condizione (l’operaio, l’emigrante, la segretaria, la studentessa di provincia e via via le varie categorie rappresentate dalle persone intervistate) di riconoscersi e di capire meglio sé stessi e il proprio paese, con tutte le sue varietà sociali e linguistiche.
Oggi questo non è più vero. In un senso e nell’altro. Il pubblico, le istituzioni, tendono a una progressiva parcellizzazione in sottinsiemi più piccoli e quindi sempre più simili al privato. Le privatizzazioni delle grandi aziende pubbliche, le autonomie delle regioni, e poi dei comuni, dei municipi, dei singoli istituti scolastici. In un sistema in cui, sempre di più, al concetto di garanzia – che è sempre stato proprio delle istituzioni – si va sostituendo quello del carattere di efficienza, un tempo esclusivo appannaggio delle aziende private. E lo dico in modo neutro, senza giudizi di valore, come semplice constatazione.
Tutto questo nella stessa epoca in cui – contraltare mediatico – ciò che è privato (una lite tra condomini, tra moglie e marito, tra due amiche – sic!), tutto questo, viene esibito in pubblico, in modo spudorato e – questo ben più colpevolmente – generico. Il più piccolo, ombelicale, nevrotico borbottio del singolo dato in pasto alla pubblica piazza senza che la piazza, attraverso un qualunque elemento circostanziato di inveramento, possa capire qualcosa in più di sé e del proprio paese.
Che facevano i tronisti della De Filippi prima di dar letteralmente corpo alla risemantizzazione del termine in epoca repubblicana? Da quali famiglie vengono, che mangiano, qual è la loro realtà? Il paese dov’è? La casa da comprare, l’affitto che costa troppo, la squadra di calcio che oggi ha una finale o quella che lotta per la retrocessione; il brutto voto preso proprio questa mattina all’esame, o quello buono che così la laurea si avvicina e magari trovo lavoro, magari a tempo determinato, magari un giorno sì e due no, ma sempre lavoro è? Dov’è Daniela? E la sua sedia a rotelle? Quella sera, in pizzeria, che non c’era con voi nessuna volontaria, e lei doveva andare in bagno, e ha chiesto a te di accompagnarla (l’unica donna oltre a lei). Che, certo, subito, ti sei offerta, cercando di nascondere l’imbarazzo, perché avevi il terrore di non essere in grado, di non farcela a sollevarla e così via. In un crescendo di inettitudine e di goffaggine, finché a un certo punto è stato chiaro che era il caso di adagiarla sul water (una cosa che non avevi mai fatto, una di quelle che i genitori da piccoli ti dicono che non devi proprio fare quando sei nei bagni pubblici; e qualche volta, anche a casa degli altri, ché nessun bagno sarà pulito come quello di casa tua); insomma, lì, in quel momento, ti sei bloccata, e Daniela ha sorriso. Ha detto, “tranquilla, ci sono abituata, come faccio se no…”. Hai sorriso anche tu e le sei stata d’aiuto. E ora la ricordi, Daniela, ora che se ne è andata, e la saluti da qui. Perché è così che si fa, piccola mia, nell’Italia di oggi.
Ieri, quando sono andata al letto, non ci pensavo più alla cogliona che mi ero presa, al presidente del consiglio e alla campagna elettorale. Mi sono addormentata col pensiero all’amica che mi ha detto che sono “un po’ stronza”. Un tarlo. Un borbottio continuo, pervasivo e totalizzante. Pensavo a quello che era successo tra noi. Riconoscevo gli aspetti su cui aveva ragione lei; e quelli, invece, in cui mi sentivo di rimanere ferma nelle mie convinzioni. Un andirivieni di torti e di ragioni, come se le pareti della mia testa assumessero il rosso del confessionale di Mediaset. E ho capito una cosa. Si possono avere giudizi diversi sul Caimano, ma su un punto Moretti ha ragione: comunque vadano le elezioni, il presidente ha già vinto. Perché siamo tutti un po’ coglioni.
Non saprei, Francesca. Può darsi che tu abbia ragione, ma leggendoti ho perso il momento in cui l’insulto del Presidente, da politico che era, si è generalizzato nel privato, cambiando significato, fino a rimbalzare contro di lui in una diversa accusa: così non credo di averti capito fino in fondo. La mia prima impressione, comunque, è che non valga la pena sprecare tutta questa intelligenza (e forse neanche le allegre e autoironiche magliette della festa di chiusura dell’Ulivo) per assumere come significante un insulto che andrebbe invece lasciato cadere, col disprezzo che merita, nel dimenticatoio pubblico e privato. Il rovello che resta a circondare un’offesa nelle nostre menti, è il lavorio degli anticorpi che tentano di distruggerla e intanto – per contrappasso – la tengono sotto la nostra attenzione, viva. Aspettiamo che finiscano il loro lavoro, invece di alimentare la vita dell’offesa, no? Dimenticare, talvolta, è il modo più maturo e più efficace di neutralizzare l’avversario, riducendolo al silenzio. O almeno spero. Ciao e in gamba come sempre, Giovanna
io invece penso che noi di sinistra non capiamo l’esatto valore della violenza, anche verbale, e quindi non sappiamo davverom cos’è la nonviolenza.
Qui c’era poco da andare in piazza dicendo “siamo tutti coglioni” visto che oggi il Caimano ha detto che vincono loro visto che non sono coglioni.
C’è poco da sprecare intelligenza, la loro violenza (verbale ma anche strutturale e militare: affamano i poveri e uccidono in Iraq e a Genova) NON VA ACCETTATA. I casi sono due: o so sceglie la violenza e allora si risponde COGLIONE SARAI TU E QUELLI CHE TI VOTANO, o si dice di non insultare ma NON SI PUO’ RIBALTARE UNA VIOLENZA CON L’IRONIA. Pena appunto non coglierne la natura di violenza.
Secondo Freud, “l’unico modo per dimenticare è ricordare”. Di che parlavamo?
Grazie per il riferimento all’intelligenza (non poi così tanta, se non è riuscita a condurti per le pieghe delle sue divagazioni a un senso compiuto). Se c’è, tranquilla, non si spreca. Esprimendosi, semmai, si alimenta.
Baci, Fra
Sì, perfettamente d’accordo, su livelli diversi. Ma c’è uno “smemorato” per le reti radiofoniche che dà esilaranti lezioni in proposito.
Baci divertiti e ammirati, Gv
A me sembra che Francesca abbia avuto un’intuizione illuminante nell’accostare l’espressione “coglione”, utilizzata dal Presidente del Consiglio, alle trasmissioni che inquinano, da qualche anno a questa parte, i palinsesti delle nostre reti televisive.
Si tratta di due forme di imbarbarimento che lasciano sconcertati. Ed è ancora più deprimente la circostanza che esse, per lo più, determinano un incremento di audience, anziché di indignazione generale.
Insomma, la cosa più grave è che si sta perdendo di vista l’importanza simbolica che assumono – che devono assumere – le istituzioni e, in generale, i ruoli. Invece, il concetto (apertamente teorizzato) che si vuol far passare, è che non ci deve essere più distinzione tra pubblico e privato, tra ufficiale e ufficioso, tra formale e informale, tra arte, addirittura, e pettegolezzo.
E così, non è più importante che chi si esibisce davanti a un pubblico sia dotato di talento, che stia una spanna sopra alla generalità delle persone (e del mondo) per le sue qualità, per il suo impegno, per il suo essere “altro”, per il suo essere “mito”. No, è importante che manifesti le sue più basse inclinazioni, le sue debolezze più banali, i suoi rancori, le sue sfuriate, le sue gelosie; è importante che sappia insultare senza imbarazzo e reagire agli insulti con altrettanta violenza. E’ la logica del reality: il talento non serve più. L’artista di turno (in decadenza o meno) deve abbassarsi al livello del suo pubblico, che deve avere il potere di liquidarlo con un voto. Così si nega l’essenza stessa dell’arte e dello spettacolo. L’artista dovrebbe esaltarti per quello che esprime in scena, dovrebbe elevarti per le sue abilità, dovrebbe farti sognare e commuovere per come si esibisce. La sua vita privata, in definitiva, non dovrebbe interessare. Chissà quanti grandi scrittori, quanti grandi attori, quanti immensi poeti sono intrattabili, imperdonabili, insopportabili nella vita privata: ma ciò non toglie nulla al sublime delle loro opere, che una volta realizzate vivono di vita propria, prescindendo dalle persone in carne ed ossa che le hanno poste in essere. E solo le loro opere sono dotate di immortalità, non i loro autori!
(Per inciso: so benissimo che coloro che si prestano ad apparire nei reality hanno ben poco di sublime, e che il paragone con i grandi artisti è sicuramente iperbolico. Tuttavia, il concetto di base è quello di negare l’ “alterità” dell’esibizione e dell’arte).
Alla stessa maniera, si vuole che le istituzioni non debbano più trascendere le bassezze comuni, non debbano più parlare col tono (a volte ampolloso, a volte metallico, a volte di circostanza – certo – ma comunque “elevato”) con cui ci si rivolge alle grandi collettività, con cui si fa riferimento agli interessi generali, con cui si esprimono concetti di portata ampia, in grado di incidere sui destini delle moltitudini, in grado di fornire soluzioni – sia pure parziali o partigiane, e quindi a volte non condivisibili – a problemi di carattere generale. Insomma, il linguaggio delle istituzioni non deve essere più “politico”, nel senso alto della parola, ma rude, basso, istintivo, dozzinale.
E mi è sembrata curiosa l’espressione utilizzata da Giovanna, che auspica di non sprecare intelligenza per rendere “significante” un insulto. Forse intendeva dire “significativo”. Ma la questione è proprio qui: che le istituzioni dovrebbero ponderare bene non solo il significato delle cose che vogliono esprimere, ma anche il “significante” con cui le esprimono. Perché effettivamente, se si dice “coglione” nel privato delle quattro mura domestiche, allora l’espressione utilizzata può anche essere poco importante (perché è vero che a casa siamo tutti un po’ volgari e superficiali). Ma in pubblico le cose cambiano: il significato, che può essere lo stesso, muta radicalmente, per via del fatto che il suo “significante”, riverberato dal contesto, diventa molto più significativo. Significativo, cioè, della concezione stessa che si ha delle istituzioni: non il luogo di tutti, aperto a tutti, rispettoso di tutti. Ma il luogo delle quattro mura domestiche dove, volendo, anche se non è elegante, se proprio scappa, si può pure ruttare in santa pace.
E, in tutta onestà, non è molto edificante sentire il rutto delle istituzioni.