Polar/ Henri Frédéric BLANC
Il colonnello
traduzione di Alessandra Mosca e Paolo Trama
Essendo prologhi, prefazioni, introduzioni e altri preamboli destinati a non essere letti, ne approfitterò per dire due o tre cose che meritano di essere ascoltate.
Ho conosciuto Léo Baboulène grazie alla mia vicina di pianerottolo, la signora Molinari, la cui figlia, Zézette, era, ed è tuttora, mentre traccio queste righe, infermiera all’ospedale militare di Laverain. Il vecchio venerando, ex combattente della Grande Guerra, era alla ricerca di un orecchio per raccogliere i suoi ricordi e di una penna per stenderli sulla carta. Io fui quell’orecchio e quella penna. Nei dintorni del Vecchio Porto, gli scrittori non mancano, alcuni sono conosciuti non solo a Marsiglia, ma anche nel resto dell’universo – per evitare di dimenticarne qualcuno non ne nominerò nessuno – ma, ahimè, il tempo stringeva, e il veterano prese quello che aveva a portata di mano: me. Spero che lì dove si trova adesso non se ne penta.
Che la casualità del buon vicinato avesse designato me per questo compito, cadeva proprio a pennello, perché devo ammettere che ero un po’ stanco dell’industria del romanzo. Avevo sete di cose vere, fossero anche irrisorie, come i due piccioni che vedo dalla finestra, stretti l’uno contro l’altro su una tegola, mentre soffia un tale maestrale da svasare i fiori. Le storie inventate mi sapevano di grasso del computer, avevo l’impressione che la letteratura diventasse l’arte del non dire nulla. Non finiremo mai di elencare cosa è diventato disdicevole, scorretto ed è scomparso dalle Belle Lettere in nome del progresso delle Lettere – e della salute delle cifre.
Il mondo dell’arte è ormai una corsa verso il vuoto, ognuno vi partecipa con la propria piccola abolizione che cerca poi di gonfiare a dismisura. Il tale autore teatrale rinuncia a illuminare la scena, il tale pittore abbandona l’uso del colore… Ognuno mostra il proprio disgusto, aspira alla nudità trascendentale del Nulla, incoraggiato da una massa di esteti brevettati che trovano superfluo il senso: sono talmente chiaroveggenti che per loro non c’è bisogno di aggiungere altro. Quanto agli imbecilli più tradizionali, hanno solo da guadagnarci dal trionfo della vacuità: un’arte vuota è più ospitale per i poveri di spirito.
La letteratura è un’uscita di sicurezza: se anch’essa è bloccata… In sintesi, non mi aspettavo più niente dalla finzione, quindi il veterano che mi avrebbe raccontato la sua guerra giungeva a proposito, mi avrebbe riposato la mente. Insomma, finalmente qualcosa di diverso dal romanzo!
Léo Baboulène è nato a Villefranche nel 1895, ha vissuto negli ultimi quarant’anni a Marsiglia. In realtà, sognava di trascorrere la vecchiaia al sole della Riviera francese, dalle parti di Nizza: considerava la vista sulle palme un gran lusso. I suoi mezzi modesti l’avevano costretto a fermarsi a Marsiglia, dove poi si è stabilito.
Il sole scotta di più che a Nizza, l’aria è più tagliente, il mare più amaro, i delinquenti più allarmanti, i coglioni più coglioni, ma mi ha confidato di non essersi mai pentito di aver ormeggiato qui la sua barca per tutte le facce interessanti che ci sono da scoprire – una vera miniera di musetti curiosi, secondo lui. E poi le donne, le donne! Così varie, così profumate, sporgono in avanti i loro seni pesanti e zuccherini, quei frutti di mare, con una sorta di impudicizia pagana, di volgarità sacra, un’arroganza carnale meravigliosa ereditata dall’Antichità; poiché non è destinata a sedurre gli uomini (che esse sfiorano con sguardi sprezzanti, o peggio: atoni), quella sensualità oltraggiosa, quell’indecenza saccente – è per sedurre gli dei. Loro, le ragazze di Marsiglia, le adorabili cagoles, sono ormai le uniche custodi di questo segreto: gli dei hanno un debole per il cattivo gusto.
E il mare, quell’eternità liquida espansivamente blu che penetra nella città senza smancerie… Anche altrove c’è il mare, mi spiegava Léo Baboulène, ma a Marsiglia fa parte della famiglia, le sardine sono delle sorelline; i riccetti, dei cuginetti… Eternità liquida, sì, erano queste le sue parole. Non aveva niente del poeta, ma era più colto di quanto non lasciasse intendere, come molti militari della vecchia scuola. Leggeva quello che gli capitava a tiro – Simenon per esempio – la caserma gli aveva insegnato a gestire la noia piuttosto che a tentare di sconfiggerla. Certi libri non invecchiano talmente sono morti, mi disse un giorno picchierellando la copertina di un romanzo premiato. Secondo lui, la letteratura era un uccello delle isole, il cui piumaggio troppo appariscente aveva il difetto di attirare le pulci. Avrebbe preferito che fosse un grido, un grido di cristallo le cui facce fossero tutte visibili, da contemplare al dritto e al rovescio, un bel grido scolpito che i dannati del mondo, i massacrati, i perduti, i prigionieri, i poveri, le prede delle macchine, i veri abitanti della terra, avrebbero potuto utilizzare come un’arma, un grido materializzato e ben affinato da scaraventare in faccia ai mangiatori del mondo.
Il vecchio colonnello non era solo al mondo, ma quasi: la sua unica figlia, di ottantatre anni e mezzo, è internata in un ospizio nei Vosges; quanto a nipoti e pronipoti, sono disseminati ai quattro angoli del pianeta. Leggendo la sua testimonianza, si potrebbe avere l’impressione che sia un passatista; nei fatti, egli era un rivoluzionario nel senso originario del termine: riteneva che la specie, dopo aver compiuto un ciclo completo, dovesse tornare al nido, ritrovare la natura. Quando cala il buio, bisogna tornare a casa. Pensava che lo specchio dell’avvenire si trovasse nel passato più che nel presente. È anche vero che Léo Baboulène tendeva ad accusare «il progresso moderno» di essere il responsabile della sua vecchiaia e della sua decrepitezza: guardarsi allo specchio lo mandava in bestia contro «quei fannulloni che si occupano del tempo».
Eppure, nonostante i militari, i funzionari, gli hamburger, posso attestare che aveva ancora fiducia nell’uomo: «Se sputano sulla bellezza, diceva duramente, significa che la sanno riconoscere». Aggiungo che la misoginia sporadica del centenario era da parte sua pura affettazione: mi è sempre parso squisito verso le infermiere che, tra l’altro, l’adoravano. Apparteneva ad una generazione che ignorava quella tartuferia femminista dei nostri vecchi capi che reclamano in pubblico l’uguaglianza dei sessi e poi, in privato, fanno a gara ad approfittare del proprio potere per abusare, abbindolare, raggirare e circuire le donne, trattarle come bestie, come carne da portare a letto.
Le sue idee politiche non avevano niente di sovversivo. Quando era di cattivo umore, alla fine del pomeriggio, affermava che il mondo era diventato prussiano. Di solito, al mattino, diceva invece che il commercio deve favorire e agevolare l’uomo, e non il contrario. Il mercato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il mercato. È un’idea fin troppo semplice per avere successo tra gli intellettuali e vincere il Nobel, ma non è stupida. A ogni modo, il veterano che se la prendeva spesso con la ‘ripoublique’, ha finito col riconciliarsi con essa quando si è reso conto che la sua testimonianza sarebbe potuta diventare un fatto pubblico. La democrazia, in effetti, non è solo il diritto di parlare, è anche il diritto di essere ascoltati. Sono orgoglioso quindi di aver potuto, prestando un orecchio fraterno al vecchio, salvarlo all’ultimo momento dal solco dell’estremismo, e assicurare in questo modo la salvezza alla sua anima.
La sua vita prima dell’ospedalizzazione era quella di un comune pensionato, apprendista dell’inesistenza. (Diceva spesso: «Non sono in fin di vita, sono all’inizio della non-vita»). D’inverno andava alla biblioteca municipale, più per riscaldarsi gratis che per leggere. Parlo della vecchia biblioteca. La nuova, che si presume attiri i bisognosi del quartiere, somiglia più a una minaccia di tortura che a una promessa di cultura. Questa minuziosità sinistra, questa macchina della conoscenza, questa gabbia per teste d’uovo alla gelatina, questa scatola di scarpe gigante è noiosa a sufficienza perché gli spiriti gravi vi si ritrovino, ma lo sfortunato bipede amico del gaio sapere non potrà penetrarci che proteggendosi con il corpo.
Durante la bella stagione, Léo Baboulène andava in giro ad osservare i cantieri che spuntavano un po’ dappertutto a Marsiglia e nelle nostre orecchie grazie al dinamismo municipale. Ogni tanto, il vecchio guerriero dava un consiglio al caposquadra, proponeva una modifica, ma dubito che abbiano tenuto in considerazione il suo parere. Approfittava spesso con larghezza anche delle panchine pubbliche.
Capitava che il colonnello in pensione esitasse a ramazzare dal marciapiede un frutto marcio, o a curiosare disinvolto con l’estremità del bastone nella spazzatura, come fa un numero crescente di anziani, a volte – fenomeno nuovo – in piccoli gruppi per farsi coraggio, sotto gli occhi indulgenti dei malviventi e dei trafficanti seduti sulle terrazze dei caffè. Ma come ha fatto notare un giorno, non senza sagacia, un eletto seduto in terrazza con i suoi amici, la cui cravatta aveva le tinte cangianti di un uccello del paradiso fiscale: «Non sono tanto le persone ad impoverirsi, quanto le spazzature ad arricchirsi».
Léo Baboulène era costretto a letto da qualche settimana quando l’ho visto per la prima volta nella sua stanza dell’ospedale Laveran. Questo si trova in un quartiere ancora poco esplorato della città, una specie di inferno moderato con palazzi anonimi, marciapiedi per persone frettolose o perdute, campi di calcio spelacchiati, lampioni che diffondono una luce da incubo – quel tipo di incubi in cui non succede nulla.
All’interno dell’ospedale non c’era altro che corridoi inquieti e porte nervose. Ma il quarto piano, dove si trovava la camera del veterano offriva, attraverso la griglia delle finestre dipinta con colori vivi, un felice panorama di colline marsigliesi. Colline nude, severe, aride, più ricche di sogni che di materia, ove folleggiano gli ultimi spiriti liberi, non militarizzati – intendo dire i conigli.
Il supremo flusso di energia offensiva del vecchio colonnello si è concentrato nella sua bocca, sulla sua lingua, mentre ogni giorno lo registravo sforzandomi di non perturbare lo svolgimento del nastro scucito, sfilato, crivellato da lampi di vita della sua memoria. La mia inespressività volontaria, che egli prendeva per malinconia, talvolta lo irritava, ma era l’unico modo, credo, di sospingerlo negli ultimi tranci dei suoi ricordi, o piuttosto di trascinarlo fino al fondo della sua ricerca allucinata del passato.
Ecco perché non mi faccio scrupoli a firmare questo libro. Ho toccato gli estremi dell’impassibilità. La mia espressione congelata, gli occhi spenti, il naso impavido, la bocca sigillata hanno contribuito non poco, mi sembra, ad attizzare la vena crepuscolare del grande vecchio e a fargli vincere il suo ultimo fantastico combattimento. Non ho la pretesa di aver avuto un ruolo decisivo nella Vittoria del 1918, posso solo affermare di non aver sbarrato la strada, sfoggiando smorfie e gesti inopportuni, al soffio del Verbo, all’opera probabilmente retroattiva della Provvidenza.
Henri-Frédéric Blanc est né en 1954 à Marseille. Largement traduit à l’étranger, il a publié
chez Actes Sud : L’empire du sommeil, Combat de fauves au crépuscule, Jeu de massacre, Démonomanie et Nuit gravement au Salut.
altre infos :http://www.amazon.fr/exec/obidos/ASIN/2268055396/qid=1143028707/sr=1-3/ref=sr_1_9_3/171-4211206-2161013
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Molto bello. Forza e leggerezza.
Grazie Francesco.
Su http://www.maltesenarrazioni.it c’è una vecchissima intervista a Blanc. Leggetela. Marco Drago.
Grazie per la dritta. comunque l’ho stampata e gliela porto a luglio (ma sicuramente gliel’avrete spedita) quando ci vedremo al festival del Polar e del mediterraneo di La Roque d’Anteron
effeffe