Vi ricordate di Bagdad?

R. “Sono una donna di 26 anni e vivo a Bagdad. Ho un diploma in informatica, ma ora lavoro da casa, perché altrove non è molto sicuro. Prima della guerra lavoravo in un’azienda informatica privata.” Le sue pagine di diario sono tratte da http://riverbendblog.blogspot.com e tradotte da Massimo Parizzi per il numero 13 di “Qui. Appunti dal presente”.

Bagdad, 17 settembre 2005
Leggo e rileggo la bozza di costituzione irachena dall’inizio di settembre. Ho deciso di ignorare la voce che dentro di me ripete petulante: “Una nuova costituzione non può essere legittima sotto un’occupazione!”. E anche quella che dice: “Non è legittima perché il governo che la scrive non è legittimo”. Ho messo questi pensieri da parte e ho deciso di cercare di guardare a tutta la situazione il più spassionatamente possibile.

A cominciare dal primo capitolo, Principi fondamentali, vi sono numerosi articoli interessanti. L’Articolo 2 sembra quello che preoccupa di più giornalisti e analisti all’estero. Dice: “1. L’Islam è la religione ufficiale dello stato e una fonte basilare della legislazione, e non è consentito approvare alcuna legge che contraddica i suoi principi e norme stabiliti. 2. Non è consentito approvare alcuna legge che contraddica i principi della democrazia o i diritti e le libertà fondamentali delineati in questa costituzione. 3. La costituzione riconosce l’identità islamica della maggioranza del popolo iracheno e garantisce pieni diritti religiosi a tutti gli individui e la libertà di credo e di pratiche religiose.”

Ora, io sono una musulmana praticante. Credo nei principi e norme dell’Islam che pratico; altrimenti non li praticherei. Il problema non è l’Islam, il problema sono le decine di interpretazioni dei principi e norme islamici. L’Islam è come ogni altra religione: il suo libro sacro e i suoi vari insegnamenti possono essere interpretati in modi diversi. In Iraq lo vediamo con i nostri occhi: troviamo ampi esempi di interpretazioni islamiche diverse in due vicini, l’Iran e l’Arabia Saudita. Chi deciderà quali sono le norme e i principi religiosi che la costituzione non deve contraddire?
Nella vecchia costituzione, la “Costituzione temporanea” del 1970, che è stata in vigore dal 16 luglio di quell’anno fino alla guerra, l’unico riferimento all’Islam è nell’Articolo 4, che si limita a dire: “L’Islam è la religione dello Stato”. Non c’è nulla sul suo ruolo nella costituzione. […]

Bagdad, 17 novembre
Era sul desktop del mio pc da cinque giorni. Il primo giorno che ne ho letto su Internet, su non so che sito, mi è mancato il cuore. Fosforo bianco a Falluja. Non sapevo niente del fosforo bianco, naturalmente, e una parte di me non voleva sapere i particolari. Ho cercato di scaricare il filmato quattro volte, e mi sono sentita quasi sollevata quando, tutte e quattro le volte, la connessione è caduta. Anche E. ne aveva sentito parlare, e alla fine un suo amico, S., ce lo ha portato su cd. Per vedere il breve documentario si sono chiusi insieme in camera con il computer. Quando E. è uscito, mezz’ora dopo, era pallido, le labbra strette a formare una linea diritta, l’espressione che assume quando è pensieroso, quando pensa a qualcosa di cui preferisce non parlare. “Ehi, voglio vederlo anch’io…” gli ho detto a mezza voce mentre accompagnava S. alla porta. “È sul desktop; ma in realtà non vuoi vederlo” mi ha risposto.

Ho evitato il computer per cinque giorni: ogni volta che l’accendevo il mio sguardo era attirato dal file, che mi chiamava… a volte lamentoso, pregando di essere guardato, a volte arrabbiato, condannando la mia indifferenza. Solo che non era indifferenza… era una sorta di terrore in fondo allo stomaco, che mi faceva sentire come se avessi inghiottito una manciata di sassi. Non volevo vederlo perché sapevo che conteneva le immagini dei civili morti che avevo in testa. Pochi iracheni hanno mai avuto dubbi sul fatto che gli americani abbiano usato armi chimiche a Falluja. È da più di un anno ormai che sentiamo storie terrificanti di gente bruciata fino alle ossa. Semplicemente, non ne volevo una conferma. Non ne volevo una conferma perché una conferma delle atrocità avvenute a Falluja significava la verifica di quanto siamo veramente perduti, noi iracheni, sotto l’occupazione americana, e di quanto sia incredibilmente inutile il mondo in generale: Nazioni Unite, Kofi Annan, organizzazioni umanitarie, uomini di religione, Papa, giornalisti… metteteci chi volete; abbiamo perso fiducia in tutto ciò. Alla fine mi sono fatta abbastanza coraggio per vederlo, e ha confermato le mie peggiori paure. Vederlo è stata un’esperienza quasi invasiva, come se qualcuno fosse strisciato nella mia mente e avesse dato vita ai miei incubi. Una immagine dopo l’altra di uomini, donne e bambini così bruciati e sfigurati che l’unico modo per distinguere i maschi dalle femmine e i bambini dagli adulti erano i vestiti che avevano indosso… vestiti innaturalmente intatti, come se ogni corpo fosse stato bruciato fino alle ossa e poi rivestito amorevolmente con gli abiti di tutti i giorni… la camicia da notte a pois con il colletto di pizzo, la ragazzina nel suo pigiama di cotone, con piccoli orecchini pendenti dalle piccole orecchie… Alcuni davano l’impressione di essere morti quasi pacificamente, nel sonno, altri di avere sofferto moltissimo: la pelle bruciata completamente nera che cadeva giù da ossa bruciacchiate. Immagino come dev’essere stato per alcuni. Probabilmente erano rintanati in casa, alcuni, fra le decine di migliaia che non avevano potuto lasciare la città. Che non avevano mezzi di trasporto o, semplicemente, non avevano dove andare. Erano in casa, a sperare che quello che la gente diceva degli americani fosse vero: che nonostante le loro enormi macchine e le loro armi infinite, sono anche umani. E poi è iniziata la pioggia di bombe… il sibilo dei missili mentre cadevano e il rumore delle esplosioni quando colpivano il bersaglio… e non ha importanza quanto pensi di essere preparato a quelle esplosioni, ti fanno sempre sobbalzare. Immagino i bambini tapparsi le orecchie e alcuni piangere, cercando di coprire i suoni meccanici della guerra con i loro più umani singhiozzi. Immagino che, al farsi i carri armati sempre più vicini e gli aerei più bassi, la paura sia aumentata e i genitori abbiano cercato l’uno il volto dell’altro per trovare una soluzione, una via d’uscita dall’orrore. Probabilmente alcuni hanno deciso di aspettare in casa che finisse, e altri si sono precipitati fuori, temendo la pioggia di acciaio e cemento e pensando che avrebbero avuto più possibilità all’aperto piuttosto che chiusi in una casa che, da un momento all’altro, poteva diventare la loro tomba. Era questo che ci dicevano prima dell’arrivo degli americani: che durante un attacco aereo è più sicuro star fuori. Dentro, un missile che cade vicino trasforma i vetri delle finestre in milioni di piccole lame e i muri possono crollare. In giardino, o anche in strada, devi preoccuparti solo delle schegge e dei detriti se la bomba è caduta molto vicina; ma che probabilità c’erano che accadesse? Questo era prima del 2003… e certamente prima di Falluja. Prima che uomini, donne e bambini lasciassero le loro case solo per trovarsi sotto una pioggia di fuoco.

L’anno scorso, sul mio blog, ho parlato di Falluja dicendo: “Si parla dell’utilizzo di bombe a grappolo e altre armi proibite”. Mi si è immediatamente rovesciata addosso una valanga di e-mail di americani che dicevano che ero una bugiarda, che non c’era nessuna prova e che era escluso che gli americani potessero mai fare qualcosa di così spaventoso! Mi chiedo come quelle stesse persone lo giustifichino adesso. Sono scioccate? O si dicono che gli iracheni non sono persone? O, semplicemente, negano? Il portavoce del Pentagono ha detto di recente: “Fa parte del nostro inventario di armi convenzionali e lo usiamo come usiamo qualunque altra arma convenzionale”. Questa guerra ha ridefinito il ‘convenzionale’. Ha portato l’atrocità a un altro livello. Tutto ciò che abbiamo imparato prima è diventato obsoleto. ‘Convenzionale’ è diventato sinonimo di raccapricciante. Armi convenzionali sono quelle che disintegrano la pelle in una vampata biancastra; metodi di interrogatorio convenzionali sono quelli praticati ad Abu Ghraib e in altre carceri dell’occupazione… Semplicemente… terrore convenzionale.

Bagdad, 25 novembre
Ci siamo svegliati ieri mattina a questa notizia: un capo tribale sunnita e i suoi figli uccisi a colpi di pistola. “Mercoledì uomini armati in uniforme dell’esercito iracheno hanno sparato e ucciso un anziano capo tribale sunnita e tre suoi figli nei loro letti, dicono i parenti…” Solo che a leggerlo su Internet non è assolutamente come vederne le immagini in televisione. Hanno fatto vedere i corpi e i membri della famiglia: una vecchia che piangeva e si graffiava la faccia e si strappava i capelli e gridava che i soldati del ministero dell’Interno avevano ucciso i suoi figli. Gli hanno sparato davanti alla loro madre, alle mogli e ai bambini… Anche quando macellano le pecore, le portano fuori dall’ovile perché le altre pecore non siano atterrite alla scena. In guerra pensi l’impensabile. Immagini l’inimmaginabile. Quando non riesci a dormire la notte, la mente vaga ad abbracciare varie possibilità. Cercare di immaginare e determinare il futuro di una nazione dilaniata dalla guerra è quasi impossibile, così la mente si concentra su cose più tangibili: amici… parenti vicini e lontani.

Credo che in questi ultimi due anni e mezzo ogni singolo iracheno in Iraq abbia preso in considerazione la possibilità di perdere uno o più dei suoi familiari. Cerco di immaginare di perdere le persone che più amo al mondo: potrebbero restare sepolte sotto le macerie… o essere brutalmente assassinate da estremisti… o volare in pezzi per un’autobomba… o venire rapite per un riscatto… o potrebbero brutalmente sparargli a un posto di blocco. Tutte possibilità inquietanti. Cerco di immaginare che cosa accadrebbe a me, personalmente, se dovesse succedere. Quanto ci vorrebbe perché s’insediasse il bisogno di vendetta? Quanto ci vorrebbe per essere reclutata da qualcuno in cerca di persone che non hanno niente da perdere? Persone che hanno perso tutto in un colpo solo. Quello che credo che il mondo non capisca è che le persone non diventano attentatori suicidi perché – come al mondo viene detto – così avranno settanta o chissà quante vergini in paradiso. Le persone diventano attentatori suicidi perché è una fine vendicativa a una vita che non vale più la pena d’essere vissuta, una vita probabilmente mutilata con violenza della sua umanità da un terrorista locale, o da un soldato straniero. Io odio gli attentatori suicidi. Odio il modo in cui il cuore mi batte all’impazzata ogni volta che passo accanto a una macchina dall’aria sospetta, e ogni macchina ha l’aria sospetta di questi tempi. Odio che le moschee sunnite e le moschee sciite siano prese a bersaglio da ogni parte. Odio vedere i corpi ammonticchiati negli ospedali, vedere stringere i denti per il dolore, vedere uomini e donne piangere… Ma capisco perfettamente come ci si arriva. Una vittima teneva per mano sua figlia. “Quegli uomini hanno detto alla ragazza di spostarsi e hanno sparato al padre” ha raccontato un parente. Qualcuno si sorprenderebbe se la suddetta figlia crescesse con un odio così feroce e un bisogno di vendetta così grande da prevalere su qualunque altra cosa nella sua vita? O tre giorni fa, quando militari americani e iracheni hanno sparato a una famiglia in viaggio da una città a un’altra uccidendone cinque membri. “Sono dei bambini. Non sono terroristi” gridava un parente. “Guardate i bambini” diceva, mentre un impiegato dell’obitorio portava il corpo di un piccolo bambino nella cella frigorifera.

Chi ha bisogno di Al Qaeda per reclutare ‘terroristi’ quando c’è il Da’awa [partito islamico], lo Sciri [Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq] e un’occupazione americana? Al ministero degli Interni negano tutto, naturalmente. Esattamente come negano l’intera storia della casa delle torture di Jadriya e tutti gli altri omicidi e stragi di cui sono responsabili. Sono arrivati a dire che, riguardo alla casa delle torture di Jadriya, gli americani mentono. Nelle ultime tre settimane sono stati assassinati almeno sei illustri professori. Alcuni erano sciiti e altri sunniti, alcuni ex ba’atisti e altri no. L’unica cosa che avevano in comune è che svolgevano un ruolo di spicco nelle università irachene prima della guerra: sono Haykal Al-Musawi, Ra’ad Al-Mawla (biologo), Sa’ad Al-Ansari, Mustafa Al-Heeti (pediatra), Amir Al-Khazraji e Mohammed Al-Jaza’eri (chirurgo). Non conosco i dettagli di tutti gli assassinii. Conoscevo Ra’ad Al-Mawla, ex professore e capo dipartimento della facoltà di scienze dell’Università di Bagdad, sciita. Era un uomo tranquillo, un gentiluomo cui ci si poteva sempre rivolgere quando si aveva un problema. Gli hanno sparato nel suo studio, fuori del campus. Una perdita terribile. Prima di lui, questo mese, un altro professore ucciso è stato il preside della facoltà di farmacia. Nel corso dell’anno aveva avuto dei problemi con studenti del Da’awa. Dopo la vittoria elettorale di Ja’afari [primo ministro ad interim, esponente del Da’awa] e gli altri, i loro seguaci all’università volevano festeggiare all’interno del campus. Capendo che la cosa avrebbe creato problemi, Al-Mawla non lo permise, consentendo solo i soliti striscioni. Rispose che quella era un’università, un posto per studiare e imparare, e la politica doveva restarne fuori. Alcuni studenti lo minacciarono, e all’interno dell’università vi fu qualche piccolo scontro. È stato ucciso una settimana fa circa, forse di più. Chiunque stia dietro a questi assassinii, l’Iraq sta velocemente perdendo i suoi cittadini più istruiti. Sono sempre di più i dottori e professori che lasciano il paese. E il problema non è soltanto di una grande fuga di cervelli: è che questa classe colta, sempre più ridotta, è anche la classe laica irachena…

Bagdad, 5 dicembre
Non ho potuto vedere l’inizio del processo [a Saddam Hussein] oggi. Eravamo tutti in cucina, dopo un momento di panico da topo, a cercare di capire da dove il roditore fosse entrato, quando sono stata attirata da urla da stadio provenienti dal soggiorno. Mio cugino era in piedi di fronte alla televisione a regolare il volume: dall’aula del tribunale venivano un sacco di schiamazzi. Era iniziato da poco, e gli avvocati della difesa stavano abbandonando il processo perché, a quanto pare, a Ramsey Clark [ex ministro della Giustizia degli Stati Uniti, membro del collegio di difesa di Saddam Hussein] non veniva permesso di parlare in inglese; una cosa che aveva a che vedere con la sovranità della corte o del processo e la sconvenienza di parlare in una lingua straniera (un po’ ironico, considerato che l’intero paese è sotto occupazione straniera). Più tardi gli avvocati sono rientrati, anche se non ho potuto vedere nemmeno questo.

Ho iniziato davvero a seguire quando hanno fatto entrare il primo testimone, che era anche il primo querelante. Ha parlato di tutta la situazione a Dujail [cittadina a nord di Bagdad dove, dopo un fallito attentato alla sua vita l’8 luglio 1982, Saddam scatenò una feroce repressione; furono uccisi 143 abitanti, 1500 vennero incarcerati e torturati, altri mandati in campi nel deserto]. È stato un racconto toccante e pieno di dettagli; dettagli che davano da pensare, considerando che allora il testimone aveva solo quindici anni. Il problema del racconto era che si trattava in gran parte di sentito dire. Aveva saputo da qualcuno che qualcosa era successo a qualcun altro ecc. Non sono un avvocato, ma un’appassionata di “The Practice” [sceneggiato televisivo trasmesso in Italia come “Professione avvocato”], e se guardare Dylan McDermott mi ha insegnato qualcosa, è che il sentito dire non è una prova accettabile.

Il secondo testimone è stato più puntuale, ma aveva dieci anni quando tutto era successo, e questo non ha aiutato la sua causa. Alla fine, quando il giudice gli ha chiesto contro chi stava sporgendo denuncia, ha risposto che non stava sporgendo denuncia contro nessuno. Poi ha cambiato idea e ha detto che sporgeva denuncia contro uno degli imputati… Poi ha aggiunto che la sua denuncia era contro tutti i colpevoli del crimine… E infine che era una denuncia contro “tutti i ba’atisti all’epoca”.
Non potevano trovare testimoni più credibili? Avevano quindici e dieci anni… è semplicemente senza senso.

A un certo punto gli avvocati della difesa volevano di nuovo abbandonare il processo perché, sembra, qualcuno della sicurezza o qualche agente di polizia li provocava da lontano, facendo gesti minacciosi ecc. Il giudice ha chiesto che la persona in questione (l’agente) fosse fatta uscire, ma non prima che nell’aula si scatenasse un pandemonio. Saddam s’è messo a gridare, i difensori a lanciare accuse, e Barazan [fratellastro di Saddam e suo coimputato; ex capo del Mukhabarat, i servizi segreti iracheni] si è alzato in piedi e ha iniziato a inveire contro la persona che noi non potevamo vedere. La corte era un caos. Urla a più non posso, strilli, ammonimenti, sproloqui, accuse… Mi sentivo male per il giudice. Sembrava fare il possibile per tenere la situazione sotto controllo, ma tutti continuavano a interromperlo e a dargli ordini. Lui è un uomo cortese e paziente; sarebbe un buon giudice in casi di divorzio, ma non mi sembra che abbia abbastanza forza per presiedere questa corte. Non ha il potere per tenere tutti al loro posto.

Non assomigliava a un processo. Mi ricordava un ‘fassil’, come noi lo chiamiamo, quello che organizzano gli sceicchi tribali quando due tribù entrano in conflitto. I capi delle tribù vengono convocati insieme ai principali membri delle famiglie coinvolte nella disputa e, dopo un po’ di strepiti, accuse e maleparole, cercano di sistemare le cose. Così sembrava oggi. Continuavano a interrompersi l’un l’altro e, a un certo punto, sono volati addirittura degli sputi… Era frustrante e insieme imbarazzante; e ben poco professionale. Una cosa che mi ha colpito, riguardo ai racconti dei testimoni su quello che successe dopo il tentato assassinio di Dujail, è che, in gran parte, è esattamente quello che sta succedendo adesso in certe zone dell’Iraq. Raccontavano che un intero frutteto era stato abbattuto perché il Mukhabarat pensava che qualcuno si stesse nascondendo lì e che da quella zona avessero cercato di sparare a Saddam. Come l’anno scorso, quando gli americani hanno sradicato dei frutteti a Diyala perché pensavano che vi si nascondessero degli insorti. Poi parlavano di arresti di massa – uomini, donne e bambini – ed era quasi come se stessero raccontando la Ramadi o la Falluja di oggi. E le descrizioni degli spazi di detenzione angusti e delle torture erano quasi esattamente uguali alle testimonianze dei prigionieri di Abu Ghraib ecc. Viene da chiedersi quando sarà il turno di Bush, Rumsfeld, Cheney e gli altri, di trovarsi davanti a una corte in veste di imputati.

Bagdad, 15 dicembre
Le elezioni sono l’unica cosa di cui si senta parlare da almeno dieci giorni. I manifesti sono ovunque a Bagdad. Si presentano decine di partiti, ma quattro o cinque ‘liste’ spiccano sulle altre. La Lista nazionale irachena di Ayad Allawi (numero 731), che adesso include qualche altro illustre fantoccio come Adnan Al-Pachachi, Ghazi Al-Yawir, Safiya Al-Suhail ecc. Ayad Allawi è uno sciita laico, affiliato Cia, ex ba’atista. L’Alleanza irachena unita (555) di Hakim, Ja’affari e vari altri fondamentalisti pro-Iran, oltre a sadristi [seguaci di Moqtada al-Sadr]. La Coalizione del Kurdistan (730): Barazani, Talbani e qualche altro partito. Il Fronte nazionale del dialogo (667), lista per lo più sunnita, laica, che include il Partito democratico cristiano iracheno ed è capeggiata da Salih Al-Mutlag. Il Fronte dell’Accordo Iracheno (618), per lo più partiti islamici sunniti. Siamo stati sommersi di propaganda elettorale quest’ultima settimana. Ogni canale iracheno che giri presenta questo o quel candidato. Allawi, Hakim e una manciata di altri, però, predominano. Nessuno si cura granché delle liste rimanenti perché, francamente, nessuno ne sente parlare molto spesso. La faccia di Allawi è dappertutto, e così la testa col turbante di Hakim. È sconcertante far correre gli occhi su un muro apparentemente innocente e trovarvi una fila di identici Hakim che ti sorridono a denti stretti dall’alto. L’ultima sua conferenza stampa che ho visto è stata qualche giorno fa. Metteva in guardia i propri seguaci dalle frodi elettorali, cosa un po’ ironica considerando che quest’anno il suo gruppo è stato accusato di frodi di ogni tipo. Quello che ha attirato il mio interesse però è stato il pubblico. Le donne sedevano da un lato e gli uomini dall’altro, sessi separati da uno stretto corridoio. Le donne indossavano tutte nere abbaya [lunghe tuniche] e sulla testa il velo. Poteva essere una scena di Teheran. Alcuni dei manifesti della campagna di Allawi mostrano lui e Safiya Al-Suhail. L’unica cosa che posso pensare è che l’uso di Safiya nei manifesti di Allawi voglia essere un gesto verso le donne irachene, che quest’anno si sono sentite più oppresse che mai. Il problema è che se c’è una donna con cui le irachene non possono simpatizzare è Safiya Suhail. È figlia di un capo tribù assassinato all’estero negli anni Ottanta o Settanta, non so bene. È cresciuta in Libano e quando è in tv ha un’aria così arrogante, stizzosa e goffa, con il suo accento iracheno spruzzato di dialetto libanese…

È una guerra di manifesti. Un giorno vedi quelli di Allawi con Safiya Suhail, il giorno dopo il faccione di Allawi è coperto da immagini di Hakim e Sistani. I sostenitori di Allawi hanno lamentato che quelli di Hakim sabotavano i manifesti elettorali. Anche gli sms, ultimamente, sono tutti sul voto. (Abbondano le battute volgari sulla lista 555; non posso spiegarle sul blog, ma gli iracheni sanno di che cosa sto parlando). I nazionalisti laici tendono a parteggiare per Salih Al-Mutlag (della lista 667), che è visto come meno fantoccio degli altri. Dopo tutto è l’unico a capo di una delle liste elettorali più popolari che non ha ricevuto la benedizione dell’esercito americano e di Bremer quando l’Iraq è stato invaso nel 2003. Appoggia la resistenza armata (ma non il terrorismo) e ha un gruppo di nazionalisti antioccupazione di primo piano che lo spalleggiano. Si dice che dopo le elezioni la sua lista aiuterà Allawi a dar forza al movimento laico. L’incidente del giorno, ieri, è stata la notizia di un’autobotte o un camion trovato nella città di Wassit pieno di schede elettorali falsificate provenienti dall’Iran. Si dice anche che in diverse provincie sunnite le sezioni elettorali non siano state equipaggiate come si deve. C’è stata una scaramuccia fra la Guardia nazionale irachena e il comitato elettorale per sovrintendere al voto a Salah Al-Din. Questa volta andrà a votare più gente ; non perché all’improvviso gli iracheni credano alla democrazia imposta dagli americani sotto occupazione, ma perché quest’ultimo anno la situazione è stata intollerabile. Hakim e Ja’affari e i loro leccapiedi sono riusciti a fare tali pasticci che adesso Allawi sembra accettabile agli occhi di molti. Io ancora non riesco a sopportarlo. Allawi resta un fantoccio degli americani. I suoi manifesti elettorali, e gli orrori di quest’ultimo anno, non hanno cambiato questa cosa. La gente non ha dimenticato le sue colpe nel disastro di Falluja. Per alcuni iracheni, tuttavia, dopo un anno di arresti, rapimenti, assassinii e centri di tortura segreti, è preferibile a Hakim e Ja’affari. C’è un detto in Iraq che da un po’ si sente ripetere da tutte le parti, e che ho già citato nel blog: Ili ishuf il mout, yirdha bil iskhuna, “Chi vede in faccia la morte, è contento di una febbre”. Allawi e compagnia sembrano essere la febbre di questi tempi…

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4 Commenti

  1. Contributo straordinario, di una lucidità agghiacciante e di un dolore estremo.

    Mi associo anch’io ai ringraziamenti, Andrea.

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