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Il lavoro fa male (mobbing 1)

di Mauro Baldrati
Agust Sander manovale 1928.jpgL’alba non è ancora spuntata. E’ una fredda giornata di fine gennaio, alle sette meno dieci del mattino è notte fonda.
Sul piazzale della Cooperativa stradini e muratori ferve l’attività frenetica che precede i trasferimenti ai cantieri. Gli operai fuorisede, appena scesi dai pulmini, hanno facce stravolte, gli occhi gonfi, i capelli dritti. Alcuni si alzano alle quattro per percorrere fino a 150 km per venire al lavoro. Qualcuno addenta un panino alla mortadella, diffondendo un odore appetitoso intorno a sé.

Entro nella sala dei camionisti, già gremita. Il fumo è acre, c’è anche quello sfigato del Ramarro che fuma il toscano, gli scoppiasse il cuore.
I soliti saluti: “dai Trapattoni, muoviti, che il Carnivoro aspetta solo te” bela uno degli autisti-cortigiani con un ghigno. Mi chiamano Trapattoni, chissà perché. Io somiglio all’allenatore di calcio come Gad Lerner assomiglia a Giuliano Ferrara, ma un giorno al Carnivoro è venuta l’idea di appiopparmi questo soprannome, e la parola del Carnivoro è legge qua dentro.
Eccolo là, il capo degli autisti e del personale operaio, seduto come un papa al suo tavolo di fòrmica, chino sul foglietto dove ha segnato i viaggi dei camion.
“Ehi, Sandro” dice uno degli autisti-cortigiani con tono di sfottò, “è arrivato il Trap!”
Sandro, gli hanno dato questo nome umano al Carnivoro. “Oh, era ora” dice, ancora col testone chino sul foglietto. Poi lo solleva, lentamente, e mi pianta addosso i suoi occhi incredibilmente azzurri, iniettati di sangue. “Mo ben, sei qua finalmente. Dimmi un po’, hai voglia di lavorare stamattina o di grattarti le palle come al solito?” Risatine degli autisti-cortigiani. Io non gli rispondo. Fisso quegli occhi iniettati di sangue e mi ficco le mani nelle tasche della tuta. “Allora, Trap, sei muto stamattina? Può un autista che non ha ancora finito il periodo di prova non rispondere a me?”. Il periodo di prova. Sempre questa storia. Mi ricatta di continuo con la minaccia di non confermarmi per l’assunzione definitiva. Ignoro le risatine dei suoi leccapiedi, mi bilancio sulle massicce scarpe da lavoro con la punta di ferro. “Quanto tempo mi fai perdere Trap?” Riabbassa il testone sul foglietto. Il Carnivoro è incredibilmente lento di riflessi, deve leggere le parole che lui stesso ha scritto la sera prima muovendo le labbra, come un semi-analfabeta. “Vai a S. Vincenzo, il capocantiere ti spiegherà cosa devi fare. Muoviti!” S. Vincenzo: un cantiere schifoso, in un mare di fango, e il capo è Il Facocero, un miserabile che pensa solo a finire i cantieri in tempi record per intascare i premi di produzione. Adesso devo dire “va bene”, si dice sempre “va bene” prima di partire. “Va bene” dico, e schizzo fuori dalla cloaca, seguito dai “muoviti!” degli autisti-cortigiani.
Mentre cammino a passo di corsa verso l’enorme tettoia dove sono parcheggiati i camion vengo raggiunto dallo Zuccone. Anche questo è un soprannome appioppato dal Carnivoro, quando lo massacrava. Lo Zuccone è stato il suo obiettivo per anni, raccontano. Lo ha dissanguato, insultato, lo ha distrutto. Adesso tocca a me, dicono. Io sono la nuova vittima, dicono.
“Dai Trap, cerca di resistere” dice Lo Zuccone. Nel suo tono di voce c’è un mix insopportabile di commiserazione, sollievo, godimento. “Adesso ci sei tu nel frullo. Io ci sono stato per cinque anni, Madonna”.
Arrivo al mio camion, un Iveco 190 rosso con guida a destra, con la gru. Apro la portiera, salgo a bordo, accendo il motore. Si diffonde un rombo oscuro, potente. Compilo il dischetto, lo inserisco nel tachigrafo. Lo Zuccone continua a riversarmi addosso il sollievo sadico che prova nel vedere me al posto che prima occupava lui. Il posto nel cuore putrido del Carnivoro.
“Zucca” dico, infastidito, “piantala di stressarmi”. Metto la retromarcia, il bestione si muove.
“Cos’è, fai lo sborone? Sta’ attento, Trap, lo sai com’è qua dentro, se non sei nessuno, se sei da solo ti schiacciano come uno scarafaggio!”
Procedo a marcia indietro fin quasi a contatto col mucchio di ghiaia, come ogni mattina. Giro il camion, punto verso il cancello. Lo Zuccone alza le spalle e sale a bordo della sua motrice antidiluviana per trasporto terra. E’ un mistero della creazione quel camion: non ha più la vernice, cade a pezzi, ma ogni mattina, senza fallo, va in moto al primo colpo.

S.Vincenzo è molto peggio di quanto pensassi. Gli operai sono nel fango con gli stivali che affondano fino alle caviglie. E’ impossibile lavorare, ma Il Facocero non ha mai mollato un cantiere, neanche quando piove. Gli altri capicantiere mandano a casa gli operai per maltempo, ma non Il Facocero: li fa stare in baracca a fumare, perché potrebbe smettere e allora ci scapperebbe qualche lavoretto.
Eccolo che mi viene incontro col suo passo frenetico. Piccolo, robusto, cammina con un gran movimento di braccia roteando continuamente la testa in tutte le direzioni. Quando parla fanno capolino, tra le labbra sottili, i canini inferiori sporgenti che gli hanno procurato questo soprannome.
“Ohéi, Trap” urla, per sovrastare il rombo del camion, “li vedi quei tubi là?” Indica dei bancali di tubi arancioni, tubi da fogna del tipo autoportante, a circa mezzo chilometro. “Devi portarli laggiù” e fa segno in direzione dello scavo, dalla parte opposta del cantiere. “Trova un posto e sistemali. Adesso sono messi di merda, quegli stronzi li hanno scaricati alla cazzo di cane”.
“Mi serve un aiutante” dico. “Per imbragarli e legarli.”
“Ti pareva!” sbraita Il Facocero. “Se non rompi il cazzo te Trapattoni non sei mica contento”.
Sto per ribattere ma Il Facocero si gira e caccia un urlo: “Te! Marocchino! Vieni qua subito!” e grida una bestemmiaccia.
Un operaio marocchino si irrigidisce, ci guarda, poi parte di corsa, per quanto glielo permettono i tappi di fango che ha sotto ai piedi.
“Marocchino, va’ con questo qui a fare quel lavoro dei tubi. Muovetevi!” e sbraita un’altra bestemmia.
L’operaio lo guarda con una faccia scura, poi sputa e sale sul camion.
Devo fare un giro largo, sul vialetto di ghiaia rullata, perché non posso entrare sulla terra fangosa, mi pianterei immediatamente. L’operaio, che si chiama Ahmid, un tipo magrissimo, molto scuro di pelle, di circa cinquant’anni, è furioso. “Facocero è grosso maiale, porco schifoso. Lui bestemmia sempre quando sono io. Lui fa apposta, offende. In mensa mi mette sotto naso salame, prosciutto, ride e dice ‘annusa marocchino!’ Lui brucerà all’inferno, un giorno”.
“Forse ci andrà davvero, all’inferno” dico, contemplando sconsolato i bancali. “Adesso però siamo qua, Ahmid, sulla porca Terra, con questo casino da risolvere”.
I grossi bancali di tubi lunghi sei metri, del diametro di un metro, sono stati scaricati in malo modo direttamente sulla terra, senza inserire i quadrotti di legno come spessore. Così è impossibile infilare le cinghie di canapa per sollevarli con la gru e caricarli sul cassone. Cerco una soluzione, ma Ahmid è più svelto, ha già un piano di lavoro: “se tu metti gancio qui” dice, toccando l’estremità di un tubo, “e poi alzi un po’ io metto cinghia sotto”.
Perfetto. E’ l’unico sistema possibile. “Bravo Ahmid” dico, e intanto preparo la catena coi due ganci. Funziona. Sollevo piano il bancale, per non sfasciare l’imbragatura di plastica che tiene uniti i quattro tubi, e Ahmid inserisce la cinghia. La stessa operazione va ripetuta all’altra estremità, per inserire la seconda cinghia. Poi attacco le cinghie al gancio della gru e lo carico sul cassone.
Procediamo con grande lentezza, perché si formano di continuo degli enormi tappi di fango sotto agli scarponi che impediscono i movimenti. Un bancale si sfascia, e devo mandare Ahmid a prendere del filo di ferro corazzato per legarli. Poi mi pianto due volte e Il Facocero, furioso, deve mandare la ruspa cingolata per tirarmi fuori. Per spostare dieci bancali impieghiamo tutta la mattina e la prima ora del pomeriggio. Per terminare la giornata Il Facocero mi manda alla cava a caricare sabbia. Potrei anche rientrare, fare rifornimento, parcheggiare sotto la tettoia e staccare dopo otto ore di lavoro, ma è impensabile che alla Cooperativa stradini e muratori un camionista lavori otto ore. Devono essere minimo nove.
Quando torno in sede, così sporco di terra che sembro un uomo di fango, ne ho fatto nove e mezzo. Adesso devo comunicarlo al Carnivoro.
In sala autisti noto subito che bolle qualcosa in pentola. E nella pentola devo esserci io, viste le occhiate sarcastiche degli autisti-cortigiani.
Il Carnivoro è chino sulla scrivania di fòrmica, col foglietto a quadretti dove segna le ore. Sento L’Ortolano, uno dei supervip degli autisti cortigiani, che dice “undici”. Undici ore. E’ impossibile, stamattina era qui alle sette, come tutti. Quindi ne ha fatte nove e mezzo, come me, ma ne dichiara undici. E’ normale, gli autisti cortigiani lo fanno sempre. E Il Carnivoro segna. Li tratta bene i suoi leccapiedi.
“Eccolo, Sandro, è arrivato!” dice uno, gongolante.
Il Carnivoro impiega quasi un minuto per alzare gli occhi iniettati di sangue su di me. Mi guarda credo, ma le pupille sono opache, sembra un cieco. Riabbassa il testone sul foglietto, mentre le enormi mani, massicce e pesanti come mazze, si muovono frenetiche sul ripiano lucido del tavolo. Brutto segno. Quando Il Carnivoro contorce quelle dita grosse come tubi da lavandino significa che è gonfio di cattiveria fino a scoppiare.
“Adesso io voglio sapere una cosa da te, Trapattoni” dice, col testone chino sul foglietto. La voce rimbalza sul ripiano del tavolo, arriva distorta alle mie orecchie. Gli autisti-cortigiani sghignazzano. “Tu adesso mi devi dire se vuoi prendermi per il culo o cosa”. Non capisco cosa sta dicendo. Ha quel tono apparentemente ironico, greve di aggressività, che usa prima di un attacco. “No perché se è questa la tua intenzione” continua, e alza il testone; se è questa la tua intenzione: ogni tanto parla forbito, sembra un intellettuale: “è meglio che lo dici subito, che risparmiamo tempo”. Le salsicce pelose che ha al posto delle dita si contorcono, suonano un piano immaginario. Il mio silenzio deve irritarlo, perché si mette anche a soffiare aria tra i folti baffi biondi. “No perché se non è tua intenzione prendermi per il culo” tuona, e tutti ammutoliscono, si preparano a una delle sue terribili esplosioni d’ira, “allora mi devi-spiegare-e-in-fretta perché ci hai messo una giornata intera per spostare dei tubi del cazzo!”
Cade il silenzio più assoluto. La scena è congelata, tutti sembrano delle statue di sale.
Io non capisco cosa diavolo dice. Penso alla giornata di lavoro, al fango, alla cura che abbiamo messo nella movimentazione dei bancali. E’ irreale, è una follia.
“Una giornata intera!” urla. Fa paura l’urlo del Carnivoro. Qui dentro ha un potere pressoché assoluto. Può togliere un operatore dalla macchina cui è assegnato e mandarlo a fare il manovale in cantiere in qualsiasi momento. Anche un autista può tirarlo giù dal camion e mandarlo a menare botte col piccone negli scavi delle fogne. “Dalla mattina alla sera per dei tubi!” urla. “Credi che non ti abbia visto? Tu mica mi vedi, con la testa tra le nuvole che ti ritrovi, ma io sono passato da S.Vincenzo, cosa credi!”
Gli occhi azzurri iniettati di sangue sono privi di qualsiasi luminosità, sembrano gli occhi di un alcolista quando gli cala la sbronza. Spesso ho la netta sensazione che Il Carnivoro sia in realtà un perfetto rimbambito.
“No che non mi hai visto, non dire cazzate” dico con tono piatto.
Lui china il testone sul foglietto e tace. La mia risposta lo ha preso in contropiede, è abituato solo agli accorati discorsi di chi cerca di difendersi, di dimostrare che è bravo e ubbidiente. Il mio tono indifferente lo confonde.
“Cos’hai detto?” tuona, sbattendo una manaccia sul tavolo.
“Non puoi avermi visto. Perché avresti anche visto che i bancali erano stati buttati sulla terra e non passavano le cinghie. Abbiamo dovuto sollevarli da una parte e dall’altra per caricarli. Tu non hai visto un cazzo.”
Gli occhi iniettati di sangue si fissano, opachi e inespressivi, sulla mia tuta infangata. Ha già capito che ho ragione. Lo sa. Ma a lui non interessa la ragione. Deve solo sfogare il furore che lo divora. Solo che è lento, non ha capacità di reazione immediata. Se anche un solo particolare va fuori posto si paralizza.
“Te, Trapattoni!” urla, e intanto digrigna i denti e soffia aria tra i baffi. “Te! Ci hai sempre un motivo! Sei un professorino te Trapattoni, mica un autista! Non lo so mica perché ti tengo qui a fare la prova, devi andare tra i professorini!”
Gli autisti-cortigiani, felici per lo spettacolo gratuito, abbozzano una risatina, ma la mia risposta li fa di nuovo ammutolire. “La prova, sempre la prova! Perché non ti provi l’uccello, ammesso che tu ne abbia uno?” Non so come e da dove sia uscita questa battuta. Io stesso ne sono stupito. Non avrei mai immaginato di dire una cosa simile al Carnivoro. Il quale rimane paralizzato con una mano a mezz’aria, in apnea. Impiega un tempo lunghissimo per riprendersi, e tutto ciò che riesce a dire, mezzo soffocato com’è dalla sorpresa, è un altro “cos’hai detto?”.
“Ma sì che hai capito. Provati quell’uccello che dovresti avere, e vedrai se non fai meno il matto. Ti ho spiegato com’erano messi quei tubi. Chiedi in cantiere. Chiedi a quel culo rotto del Facocero”.
Già, Il Facocero. Non glielo direbbe mai quel verme. Il Facocero si sforzerebbe di capire cosa vuole sentirsi dire Il Carnivoro e poi cercherebbe di accontentarlo. Non spenderebbe una sola parola in mia difesa. In difesa di nessuno.
Intanto la scena si è di nuovo congelata. Un autista cortigiano rompe l’incantesimo, si gira e dice, sottovoce: “o vacca di una miseriaccia” seguito da una risatina. L’autista-cortigiano non ha capito nulla di quanto sta succedendo qua dentro. Nessuno ha capito. Pensano che Trap sia impazzito. Solo noi due, io e Il Carnivoro sappiamo cosa sta succedendo, cosa possiamo e non possiamo fare. In questi pochi secondi si è creata una situazione estremamente complessa, con molte variabili.
Primo: la lentezza di riflessi della bestia. La mia reazione è inammissibile e offensiva per lui, che non concepisce che smancerie, sorrisi, complimenti, o tentativi penosi di difesa. Non riesce a reagire, deve pensarci stanotte, ma domani sarà un altro giorno.
Secondo: se mi manda via per me sarà una liberazione. Non è umanamente accettabile lavorare in un simile letamaio. Eppure non ho il coraggio di andarmene, di tornare sulla strada, perché a cinque chilometri da qui, in un minuscolo appartamento con lo sfratto, una bambina di quattro mesi chiede un futuro, non merita un padre disoccupato cronico. La mia risposta insolente è quindi un atto di viltà, è la richiesta di mandarmi via, finalmente, perché da solo non ce la faccio. La mia è vigliaccheria, proprio come la sua, che lo immobilizza come un topo morso dalla vipera, perché, nella sua paralisi, ha ben presente il terzo elemento, che è il camion. Trovare un autista per il 190 è un’impresa disperata. Dopo che è andato in pensione il leggendario Birrocciaio, che l’ha guidato per quindici anni, io sono il quinto autista che prova. Il 190 richiede un lavoro duro, ha delle sponde di ferro pesantissime che bisogna aprire e chiudere di continuo, si sale e si scende dal cassone per sistemare la roba, si spostano dei pesi, si esce quando piove, quando nevica, si sta sotto il sole d’agosto a manovrare la gru, mentre passano i camion che sollevano nuvole di polvere; nessuno vuole andare sul 190. Tutti aspirano a un quattro assi come quelli degli autisti-cortigiani, nuovissimi, silenziosi, con aria condizionata: si sta sempre in cabina, si è vestiti bene, con la camicetta, le scarpe da città; io invece alla sera ho la tuta lercia di terra e polvere, e gli scarponi da cantiere anche d’estate.
Io questo lo so, e lo sa anche lui.
A un certo punto si riprende, suona il piano immaginario con le dita-salsiccia, digrigna i denti. “Basta!” sbotta. “Dimmi quante ore hai fatto e sparisci!”
“Dieci!” dico. Mezz’ora in più. Che vada a farsi fottere, ne ha appena regalato una e mezzo a quel fetente dell’Ortolano. La considero un parziale risarcimento per l’aggressione subita.
Il Carnivoro china il testone sul foglietto e sembra immergersi in una lunghissima, elaborata riflessione. Lo sa. Le ore sono nove e mezzo, ma se fiata lo smerdo con L’Ortolano e tutti gli altri leccaculi. Infine appoggia la penna sul foglietto e, con una lentezza inverosimile, scrive “10”. Rimane immobile col testone chino, mentre esco sul piazzale e me ne vado verso casa.
Siamo inguaiati entrambi. Due viltà si neutralizzano i vicenda. Lui mi odia, io lo odio e siamo condannati a sopportarci.

(Foto: Agust Sander, manovale – 1928)

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42 Commenti

  1. Molto bello. Mi ha ricordato il miglior Bukowski. Poi è proprio vero: il lavoro debilita l’uomo. E pure la donna. Complimenti.

  2. Si, bello, “rough”. Sopratutto per i soprannomi che trasferiscono la realtà in un teatro -un artaudiano teatro della crudeltà. Poiché queste sono le cose che succedono in certi gironi dell’inferno quotidiano. Mors tua, vita mea…; in realtà si muore entrambi, ognuno girato dalla propria parte. La pesantezza dell’odio, dell’ignoranza, del potere sono il contrappeso alla pesantezza dei tubi, del fango, del 190 (anche il camion col suo nome sfiora fattezze umane). È un cerchio che si chiude. E il taglio secco, quasi cinematografico, pur in una storia completamente diversa, mi ha ricordato (altro che Bukowsky) “Il salario della paura” -quel bel road movie in bianco e nero (anche questo racconto è un bellissimo bianco e nero) con Ives Montand nelle vesti di un camionista.

  3. Dice tantissimo. Sono in 3: il padrone, il servo e la cosa – Carnivoro, Trap e 190. Il carnivoro mangia/il crudo, non lavora/il cotto. Chi era il Trap? quello che ha fermato Pelé, o rey, il mediano che media/lavora in difesa con ripartenza, che trattiene (per la maglia)/contiene il padrone incontinente. Il perno vero del racconto è il camion/bilico appunto, un concentrato del rapporto. Agli estremi di questo triangolo, l’abbrutimento/Ahmid e il sogno/emancipazione.
    Se le cose che ho detto hanno un senso, ringrazio Hegel, Fenomenologia dello Spirito, sez. Autocoscienza. Servo/padrone, che ha un finale “leggermente” diverso (la “spiega” più bella è nel commentario di J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenom. d. Spirito). Un’indicazione così mi farà passare per saputello, ma io ragiono diversamente: ad es., finita una traduzione la do da leggere al maggior numero di persone disposte, e se mi trovano una virgola sbagliata, io non dico loro saputelli, anzi bacio dove camminano. Così se dico che secondo me, sottolineo secondo e anche me, Birocciaio va con 1 erre…
    Grazie davvero a Baldrati

  4. Bello, teso, duro, intenso,
    non una parola sprecata,
    anche colore fango odore meccanica fango unto,
    ben fatto: davvero ricorda un poco Vite vendute,
    i camionisti con la nitroglicerina,
    il lavoro come condanna.
    Bravissimo Baldrati!

    MarioB.

  5. Sono contento che questo racconto piaccia, l’ho pubblicato con gioia. Anche a me fa venire in mente Vite vendute di Henri-Georges Clouzot, film che un appassionato del VERO cinema non puo’ perdere.
    Baldrati ha i numeri.

  6. @ franz k.

    grazie per aver scritto “VERO cinema”.

    Nota saputella: “Vite vendute” è il titolo italiano alla prima uscita del film. Successivamente fu redistribuito col titolo originale “Il salario della paura” (“Le salaire de la peur”, 1953).

  7. non so.
    non mi convince dall’inizio alla fine.
    ritmo, certo.
    ma sembra uscito da una situazione pre-sessantanove.
    inoltre succede solo quello che ci si aspetta che succeda.
    il solo personaggio che non faccia troppo volutamente e schematicamente schifo, oltre l’io narrante che si crogiola nella propria onestà e giustezza sin quasi alla fine, è il politicamente corretto Arguto Marocchino.
    bucoschi c’entra come io col re del siam.
    clouzot ancora meno.
    dove trovare e come rivedere quel film?
    noto en passant che quasi mai il cattivo sembra così tanto cattivo da avere le dita come tubi.
    la morale sarebbe: chi si fa pecora il lupo se lo magna?

  8. Pensavo (solo) a certi racconti di Buk dove scarica quarti di bue, o fa il frenatore in ferrovia, o al grande Post Office. A certe cose pesanti che ti capitano se fai “solo” il tuo dovere e trovi uno stronzo che ti tratta da alieno, perché, di fatto, alieno sei. Bellissimo racconto – è proprio vero- in bianco e nero.

  9. @ tashtego

    Non riesco a capire il “presessantanove”. O quanto raccontato (e altro) non esiste più oggi nei cantieri?
    Inoltre: che significa che succede quello che ci si aspetta?
    Il racconto può naturalmente non piacere. A me però, scusami, non ha molto convinto la tua critica-la trovo solo (ma perchè?) molto arrabbiata.

  10. @maline
    per quale motivo dovrei arrabbiarmi?
    possibile che non si possa esprimere un’opinione direttamente, senza mediazioni e giri di parole?
    atmosfere pre-sessantanove: mi rendo conto che è solo una mia sensazione, dunque espungi pure la notazione.
    il racconto mi sa di poco autentico: troppo schematisci i cattivi.
    si ama troppo l’io narrante.
    non ci sono sfumature, l’amico che cerca di solidarizzare è un coglione, gli altri sono tutti leccaculi, solo il Nostro e Il Marocchino Buono sono degni di considerazione: ma andiamo, non lo vedi da te?
    insomma questo pulp di camionisti non funziona, maline.
    leggi bene.
    (ora maline, anche se non vorrei, dico anche che ho frequentato a lungo i cantieri edilizi per lavoro: sono ambienti complessi, molto interessanti, dove i rapporti di dominanza e sopraffazione sono molto più sottili della caricatura che ne fa questo racconto: se ci si accosta alla realtà bisogna farlo perbene)

  11. @ tashtego

    d’accordo, è la tua lettura. Mica te la contesto.
    Però non è un reportage. È un racconto. Il fatto di essere magari schematico non è per forza un difetto. È un bianco e nero -si è già detto. Se vuoi, un poco straniato, magari statico (in senso teatrale) -ma non pulp.
    Quanto all’io narrante, non lo vedo come il centro del racconto. Propendo più per la tesi di db -il camion.

  12. @ Dario (db): sì, in italiano si dice “biroccio”, però nella versione regionale, cioè dialettale, è “barroccio” o “barroccino”, ed io propenderei per questa seconda, poiché ho cercato di rapportarmi anche alla lingua parlata.

    Mi hanno fatto molto piacere i riferimenti al bianco e nero. Io vengo dalla fotografia, e il bianco e nero è da sempre lo strumento preferito per le ricerche, per la creazioni di immagini che “dicono”. La fotografia ferma una porzione di realtà, ma l’arresto è solo apparente; tutto continua a muoversi, dentro l’osservatore: e il bianco e nero è considerato l’ideale per questo processo, che molti fotografi definiscono “emozionale”. Quindi l’idea di una scrittura in bianco e nero è estremamente affascinante per me.

    E a proposito di emozioni: Tashtego, leggo con grande interesse le tue critiche, ma mi sembrano soprattutto tecniche, e quindi discutibili. Maline dice giustamente che un racconto non è un réportage. Si fanno caricature? Quanti fotografi hanno realizzato dei ritratti considerati immortali che sembrano delle caricature del personaggio? Senza entrare nel merito del testo, con spiegazioni ecc. che mi strapperebbero solo dei balbettii, ho la sensazione che tu stia alzando uno schermo. Una barriera di regole, non so. Cosa c’è dietro questo schermo lo sai solo tu.

  13. Mauro, quando descrivi il 190, ho visualizzato il camion antropomorfizzato di Duel di Spielberg.

  14. off topic
    luigi ghirri fotografava solo a colori.
    diceva che occorre accettare la sfida del colore e rilanciarla.
    il bianconero è in prima istanza una sottrazione di informazione all’immagine fotografica, che ha origine da un’iniziale insufficienza tecnica.
    insufficienza che si è trasformata i mezzo espressivo, come sempre succede in questi casi.
    da lì la percezione, e la convinzione tuttora persistente in molti, che la fotografia con intenti estetici e il bianconero coincidano, siano pressoché una cosa sola.
    ma la sottrazione di importanti elementi visivi, rimane.
    probabilmente una cosa del genere accade nel racconto qui sopra.
    la sfida consiste proprio nella sottigliezza, nella complessità con cui si manifestano i rapporti di dominanza e sopraffazione, sta nelle sfumature.

  15. Giancarlo: il mostro meccanico di Duel? Adesso mi suggerisci una variante: il Trap autista senza volto, che piomba nei cantieri e semina il panico…

    Tashtego, Luigi Ghirri è stato un fotografo molto particolare, orgogliosamente in controtendenza, che operava soprattutto nel paesaggio e nell’architettura, tendendo a una grande semplificazione del colore. Io l’ho molto amato, e l’ho anche recensito, proprio qui su NI. Ma quanto affermi: “il bianconero è in prima istanza una sottrazione di informazione all’immagine fotografica, che ha origine da un’iniziale insufficienza tecnica” è una sentenza arbitraria e profondamente riduttiva. Avedon, Irving Penn, Diane Arbus, gli stessi Mapplethorpe e Newton, fotografi discutibili ma a mio avviso grandi, hanno sempre usato il b/n per i ritratti. Per non parlare del nostro più grande fotografo di architettura, Gabriele Basilico, la cui produzione è, credo, unicamente in b/n. Il b/n permette di ottenere una forma molto avanzata di sintesi. Ma non è il caso, credo, di compilare elenchi di fotografi. Quello che mi sembra di notare, con rispetto parlando, è che tu non stai “criticando” un testo, ma lo stai deprivando di qualunque emozione. Lo stai desertificando.

  16. Il bianco e nero non è sottrazione ma interpetrazione.. si scrive con la luce ma si disegna con le ombre, caricando di innumerevoli sfumature l’immagine.
    Come per il racconto di Mauro, teatrale e cinematografico allo stesso tempo.
    Al centro del racconto il camion-bilico che li tiene “entrambi inguaiati”.
    Lavorare-lavorare-lavorare- dover produrre.
    Per camionisti e non.
    Bravo Mauro

  17. Due parole sul bianco e nero. Sarebbero riduttivo se i due fossero colori. Ma colori non sono. E non sono la mancanza di colore bensì i creatori del colore. Sono luce e non-luce, o buio. Sono i due poli di una sfera cromatica che creano la differenza e quindi costituiscono. Il bianco e nero è fonte di interpretazione, di letture diverse (anche per questo ad es., non a caso molto usato nella fotografia erotica): ecco perchè molti grandi lo hanno usato e tutt’ora lo usano. Il fatto che all’inizio non fosse possibile la foto a colori non inficia la sua complessità e completezza. Il bianco e nero lascia più spazio alla riflessione. Proviamo a ripensare, in campo cinematografico al primo Wenders a “Nel corso del tempo” (accidenti, di nuovo un camion ;-)), proviamo a immaginarlo a colori -credo sarebbe valso la metà (non parlo ora del contenuto, a cui pur bene si adatta, ma della resa visiva). Il bianco e nero è espressione come il colore. E a mio avviso non è possibile paragone -è una scelta.

  18. @ tramutoli

    Hai ragione… Ma lì era già passato… dall’altra parte. Il Trap operaio rimane per me un rossonero: è come tale che fermò, come dice db, o rey…

  19. La rete è “incredibile”, ossia interessantissima. Ad es., se uno racconta una palla, molti abboccano, se uno dice la verità, molti dubitano. Al bar, ossia da vivi, non succederebbe così. Faccio due esempi:
    1- un mio fratello, Franco Borso di anni 51 attualmente cassintegrato alla Ocean di Bassano ergo operaio in pectore e in catena (componenti di frigo cui poi le varie ditte appiccicano l’etichetta), è stato per circa 10 anni camionista di un magazzino edile. La cosa che più gli rugava era avere il camion brutto dei 3 a disposizione e…
    2- una mia amica; Melina Mulas, ha esposto a Modena 2 mesi fa le foto dei lama tibetani in b/n esposizione naturale (possibile anche 5 secondi? non me n’intendo). Non è buddista, si è fatta forza e si è presentata a Rishikesh al Dalai. Era tesa, anche perché nuvolo: ma…
    Non vado avanti perché ci sarebbe sempre qualche pirla che…
    Come dicevo, la situazione del racconto è analoga a quella di servo/padrone in Hegel. Scusa Mauro se insisto, ma se non l’hai letta DEVI farlo, col commentario a lato: ti riserverà sorprese che dir gradevoli è veramente troppo poco (io al posto tuo mi commuoverei).
    La differenza è nel medium, che Hegel chiama cosa e tu camion. Il padrone gode immediatamente del lavoro del servo. Il servo invece non si rapporta immediatamente al padrone, ma mediatamente = mediante la cosa, che lui lavora (ad es. da un cesto di mele/cosa fa una marmellata/prodotto cotto). In questo spazio di lavoro, si fa una cultura = sapere della cosa. Mentre all’inizio è più il servo a dipendere dal padrone, ora è anche il padrone a dipendere dal servo, perché solo il servo sa la cosa. Ora, per vie che se vuoi scoprirai da solo, Hegel chiama questo sapere libertà, ma NB chiama questa libertà stoicismo = essere libero in catene (come mio fratello, se ce la fa).
    Nel tuo racconto il sapere del camionista è a scadenza: il padrone ha bisogno di lui, ma quando il 190 si scasserà, il servo che farà? Mentre il legame hegeliano cioé è dialettico/emancipatorio, quello baldratiano è a double bound fisso/ patologico. In questo senso mi piacerebbe che fosse datato agli anni ’70, e invece temo che sia tremendamente attuale.

  20. Allora.
    Premetto che le mie obiezioni non intendono “desertificare” un bel niente.
    Ma se la prendete a questo modo tralascio ogni ulteriore considerazione sul racconto di Baldrati.

    Mi preme invece spendere qualche parola sulla questione del bianconero fotografico e sull’equazione bianconero=foto artistica.
    Non sto affatto negando la grandezza dei fotografi da voi citati (aggiungo che un grande fotografo di architettura è Andrea Jemolo), sto negando l’equazione di cui sopra.
    Sto affermando che se quei fotografi hanno usato il bianconero lo si deve ai limiti tecnici che ha avuto il colore, soprattutto in stampa.
    Lo si deve ad un paradigma di gusto che si è venuto formando circa il concetto di espressività in fotografia.
    Non lo si deve ad una maggiore “artisticità naturale” del bianconero.
    Aggiungo che il bianconero possiede notevoli capacità di riduzione dell’immagine ai suoi dati più essenziali e percepibili, alla plasticità dei soggetti (volumi sotto la luce).
    Il BN è più straniante e perciò stesso più efficace.
    Starei per dire: più facile, ma forse non è vero.
    Per alcuni secoli è esistita una disciplina come l’acquaforte – oggi praticamente sparita – con alcune peculiarità tecniche molto vincolanti che andavano gestite.
    Ciò a condotto, col tempo, alla formazione di una sorta di “codice estetico interno” legato alle difficoltà tecniche e derivato da queste, un po’ com’è accaduto alla foto in BN.
    Da qualche tempo la fotografia in BN è a mio avviso un manierato arcaismo, tipico di chi ha intenzioni artistiche un po’ facili e andanti (un difetto di Basilico è l’eccessivo atteggiarsi dell’architettura e dalla città che ritrae): oggi i fotografi e gli artisti (USA e Gran Bretagna) più avvertiti accettano in pieno la sfida del colore: le tecniche avanzate di stampa digitale consentono la piena gestione del risultato.
    Invece una volta il passaggio del laboratorio poteva risultare artisticamente devastante.
    Ogni forma d’arte va misurata col suo statuto tecnico.

  21. Nell’arte una tecnica non uccide l’altra. Quindi possono convivere il colore e il B/N senza problemi alcuni.
    Detto ciò, quello che dice Tash è molto vero. E la fotografia contemporanea sta lavorando molto sul colore (e anche sulla “postproduzione”, uso di programmi di fotoritocco, etc.)

  22. Si diceva che la fotografia avrebbe ucciso la pittura. In realtà si sono aperte nuove strade -anche e sopratutto alla pittura.

  23. Io sono d’accordo con l’interpretazione hegeliana di db. E anche con il fatto che il bel racconto/scatto quello che volete di Baldrati sia tremendamente attuale. Quello che mi ha colpito è il finale, la doppia viltà di cui si parla. E’ il momento del riconoscimento, dello specchio. Una doppia debolezza come dice Baldrati non consente l’emancipazione del servo come nota db. Insomma, due servi, nessun padrone. Anche in ciò sta l’attualità del racconto, nell’invisibilità del padrone, che, pure, esiste lo stesso

  24. Tash,
    “la fotografia ha ucciso l’arte figurativa”. Ne sei certo? La fotografia esiste da un secolo e mezzo, eppure non ha vietato alla pittura, al fumetto, all’incisione, etc., di continuare a fare “figurativo”. Potrei farti una “storia dell’arte figurativa” del ‘900 fatta di soli capolavori.
    La fotografia non ha sradicato la pittura figurativa, semmai l’ha liberata da certi obblighi formali.

  25. @ gianni biondill.
    La fotografia ha de-necessitato il rapporto dell’arte con reale, come referente comune tra artista e osservatore, tra arte e pubblico (starei per dire “popolo”).
    Gianni.
    Quando si guarda un quadro che risale ad un’epoca pre-fotografica, secondo me bisogna sempre pensare: a quel tempo questo era l’unico modo possibile di rappresentare il mondo e il super-mondo, di condividerne la percezione, trasmetterne il mito.
    L’artista era prima di tutto un medium tra gli uomini e la realtà (e la sovra-realtà).
    Oggi un quadro figurativo è frutto di una scelta soggettiva dell’artista, del suo progetto poetico: è insomma frutto di un’opzione personale, non di un obbligo fondamentale.
    La figura non rientra più nei compiti di statuto dell’arte.
    Esistono altri mezzi più precisi e apparentemente più oggettivi.
    Se la figurazione è un optional, paradossalmente il suo referente non è più la cosiddetta realtà, ma altre forme di figurazione della stessa, ivi compresi la fotografia, il cinema, eccetera (per esempio l’iperrealismo americano si chiama in realtà photorealism: riproduzione di fotografie).

  26. Tashtego, mi sembra che procedi per sentenze. Perché non le lasciamo ai giudici e al papa le sentenze?
    Esiste un dibattito perlomeno trentennale sulla fotografia come forma di arte più o meno “pura”; io appartengo alla tendenza di chi invece la considera come un artigianato produttivo che ha come scopo quello di creare immagini, col réportage, il ritratto, il paesaggio, la pubblicità e la moda: è produttiva perché ha un committente, un veicolo di comunicazione (i giornali, i manifesti ecc.), e si esprime per mezzo di una mediazione con un mezzo tecnico – analogico o digitale, non cambia di molto – e con la realtà che è chiamata a riprodurre, o interpretare. In questa attività artigianale fa ricerca, può esprimere un’estetica, uno stile e delle emozioni. Ora, Biondillo mi sembra più informato sulla fotografia come momento di performance artistica in sé, e se vuole può informarci, può spiegarci; personalmente la cosa mi lascia un po’ tiepido. Io credo, con moltissimi fotografi che ho conosciuto e altri di cui ho letto interviste, che le ricerche fotografiche possano certamente trovare uno sbocco espositivo nelle gallerie d’arte, ma la mostra per eccellenza della fotografia resta la pagina del giornale, o di un libro (o anche lo schermo di un video, non cambia la sostanza).

  27. @boldrati
    perché le mie sarebbero “sentenze” e le tue invece no?
    dove sta la differenza boldrati?
    non saranno invece entrambe opinioni espresse sinteticamente?
    cioè in sintonia col mezzo?

  28. Che poi sarebbe Baldrati, e non Boldrati, ma ti perdono perché so di avere un cognome problematico [probabilmente dovrei cambiarmelo, come fecero Robert Capa e Helmut Newton (che non se li filava nessuno quando andavano in giro coi loro cognomi difficili)].

    Quando scrivi “Sto affermando che se quei fotografi hanno usato il bianconero lo si deve ai limiti tecnici che ha avuto il colore, soprattutto in stampa.” è una sentenza così assoluta e paradossale, rinforzata con “una volta il passaggio del laboratorio poteva risultare artisticamente devastante.” che mi trema la tastiera tash. I fotografi che ho citato (e ne ho dimenticato uno dei giorni nostri, Delgado, che lavora solo in b/n) operavano su due livelli: i lavori su commissione e quelli di ricerca. In quelli su commissione, quando le condizioni lo permettevano, usavano il b/n; nelle ricerche quasi unicamente il b/n, per scelta dichiarata, e non per difficoltà tecniche. Tanto più che molti utilizzavano fotocamere a grande formato (20 X25) che garantivano una resa del colore identica alla realtà. Non vi era nessun “passaggio artisticamente devastante”. Questa mia non è una sentenza, come invece lo è la tua, perché conosco il lavoro dei fotografi, ho letto le loro interviste e ne ho intervistato io stesso. E oggi, in era digitale, le riviste che danno particolare peso alle immagini, come quelle di moda per esempio [e tu dirai: orrore! E chi se ne frega della moda? Appunto, chi se ne frega, però attraverso la moda, quando la mediazione con la committenza lo permette, la fotografia si esprime ad alti livelli. E ci sono pagine e pagine in b/n. E pensa che ci sono i vestiti da far vedere, si rinuncia al colore dei vestiti: e sai perché? perché il b/n è altamente emotivo. Questa non è una sentenza, è una sintesi che arriva da anni di lavoro e di ricerca, mia e di altri fotografi. E tu, se mi permetti una digressione sul personale (ma sì che me lo permetti) hai una forte avversione per tutto ciò che emotivo. Quando senti odore di emotività alzi uno schermo arcigno di Super Io incorruttibile e si salvi chi può] e anche riviste di ritratto, soprattutto americane e inglesi, fanno un largo uso di b/n.

    Anche “La fotografia ha de-necessitato il rapporto dell’arte con reale, come referente comune tra artista e osservatore, tra arte e pubblico (starei per dire “popolo”).” Mi lascia così. Che si può dire? Ah. Oh. Ostia.

    Insomma, io la vedo così tash.

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