Chiose di tutti i giorni
di Gianni Biondillo
1.
Che penosa umiliazione per un autore dover spiegare le proprie parole. Chiosare a margine un proprio scritto. È una evidente dichiarazione di sconfitta, non c’è che dire. Significa che sei stato incapace di esprimerti. Ho scritto una cosa che mi sembrava evidentemente non in contrapposizione guerresca con le parole di Sartori. Ma una puntualizzazione, magari uno slittamento, un desiderio di apertura verso altri spazi. È finita come l’orrendo titolo che Stilos mi ha affibbiato e che ho evitato di riportare qui su NI proprio perché assolutamente forviante.
Il titolo era, per capirci: Torna la questione di sempre. Vale la forma o il contenuto?
C’ho ancora i brividi quando lo rileggo. Un giorno qualcuno dovrà spiegarmi come si seleziona un titolista di un quotidiano, di una rivista, etc… chi è insomma il sadico (perché è uno solo, evidentemente, dato che i titoli sembrano tutti della stessa mano crudele).
Non lo so se Sartori ha letto prima Stilos o prima NI. A naso credo prima questo sito. Mentre che Caliceti (il mitico Calix!) abbia avuto fra le mani la rivista lo si capisce dalla sua presa di posizione pro-Sartori (ma perché, la mia era contro-Sartori?). Caliceti dice: “Biondillo, in un suo recente intervento pubblicato anche su Stilos, riproponeva in modo appassionato la vecchia questione di sempre: vale più la forma o il contenuto, in un’opera?”
Mi sento ridotto ad un titolo, non mio, per di più.
Mi sembra la triste polemica solariana fra contenutisti e calligrafi. (Esistono polemiche fondamentali, diceva Gadda, e polemiche eleganti. Quella su Solaria era, per l’ingegnere, elegantissima. E, inter nos, lui facilmente catalogabile fra i calligrafi non disdegnava difendere le ragioni dei contenutisti… proprio perché in sé la contrapposizione è bizantina e infruttuosa).
Non starò a ripetere o a fare la perifrasi di quello che ho già scritto. Che per me la lingua sia centrale è dato talmente per assodato che mi sembra assurdo doverlo ripetere (come ho scritto: “non si può narrare senza una lingua, è ovvio. Di più: non si può raccontare senza una tecnica, che, a dirla con Vittorini, non è quella da cui si parte, ma quella a cui si arriva. Il percorso per raggiungerla, lo sbarco nel mondo della tecnica è, in fondo, la creazione della propria voce.” Per dire non che la lingua è una “tecnica” fredda, a se stante, ma una conquista espressiva dell’autore). L’unica cosa che in effetti contestavo a Sartori era l’idea che l’essenza della letteratura stesse tutta nella lingua. A me non basta più. Questo non significa che ho con un colpo di spugna cancellato la sua centralità, con una malafede che mi è stata appiccicata addosso da parte di un commentatore che reputavo fosse più attento alle cose che scrivo.
Quello che cercavo di dire è che per me lo scrittore non è la letteratura. E la lingua non è la letteratura. Ma l’incontro fecondo dell’uno con l’altro crea qualcosa che li supera entrambi. Usando una immagine un po’ ruffiana lo scrittore è la madre (madre? Ma sì, dai… perché no?) che accoglie il padre linguistico. Ma il frutto, il figlio di questo incontro (naturale, naturalissimo) non è più né dell’uno né dell’altro.
Non si può pensare di scrivere senza una lingua, senza un uso consapevole della lingua. Ma quello che ne scaturisce, per quanto mantenga il patrimonio genetico dei suoi genitori (scrittore e lingua) ha una sua autonomia che li supera. Solo se l’opera è viva (e non è un triste aborto) è, per ciò, vera. La sua verità avrà tratti somatici indipendenti, la sua vitalità sarà dosata dalle caratteristiche più nettamente affabulatorie di un genitore piuttosto che quelle cromatiche dell’altro. Ma non sarà né l’uno, né l’altro. Questo figlio nasce già grande, da subito desidera autonomia (come ho scritto: “il naso di Pinocchio si allunga solo un paio di volte nel romanzo di Collodi, i mulini a vento di Cervantes sono combattuti in una mezza paginetta appena da Don Chisciotte. Eppure queste immagini sforano il libro ed entrano prepotenti nel nostro immaginario collettivo”), vuole andare a vivere da solo, cerca amicizie e relazioni che molto spesso neppure i genitori condividono. Si muove, esce di casa, va all’estero. Alla fine certo si dirà: aveva gli occhi azzurri, era alto, era basso, biondo, scuro, chiaro. Ma soprattutto si dirà: era simpatico, intelligente, coglione, stronzo. Era vivo. Era morto.
2.
Sartori mi contesta che gli scrittori che oggi hanno 50-55 anni “hanno dato il meglio di se stessi piuttosto nei registri dell’intimità.” Embè? Non ho mai parlato della centralità delle storie, io. Ho parlato della inevitabilità del “dire” che ha la letteratura. Ché l’intimità non viene per caso “detta” in quei libri? Ho per caso fatto un peana del romanzo d’azione versus quello intimista?
Anche nei commenti trovo questa voglia di spartizione, questo desiderio di riconoscersi, chi da questa parte, chi da quella. Molto spesso tirando fuori a sproposito e mettendo a forza scrittori chi in una fazione, chi nell’altra.
Pensiamo a Moresco. Più passa il tempo e più scopro che sono maggiormente quelli che ne parlano (spesso a spropositissimo) che quelli che lo hanno davvero letto.
Io Antonio l’ho letto. Non tutto (cazzo, ha scritto un casino), ma molto. Tanto. E attentamente.
Io questa cosa che gira, che Antonio sia uno scrittore difficile, con una scrittura elaboratissima, con una lingua complessa, contorta, io questa vulgata proprio non la capisco.
Io che uscii con le ossa rotte dalla suprema lettura di Horcynus Orca so cosa significa lingua complessa! Se un lettore disattento aprisse a caso una pagina di quel mostrum si ritroverebbe perduto, rifuggirebbe il libro spaventato. Ma se lo stesso lettore disattento aprisse una qualunque pagina dei Canti del Caos non si sentirebbe inadeguato alla lingua che forma le pagine di quel romanzo. Il vocabolario di Moresco non ha un numero di lemmi sterminato, non inventa parole nuove, non costruisce frasi impossibili, non le decostruisce. Quello che fa venire i brividi di quel libro è l’immaginario metaforico, la messa in scena di allegorie allucinate. La germinazione fra una lingua di suo normata e la voglia di contenerci dentro un immaginario totalizzante ha prodotto qualcosa, per me, di oltrelinguistico. È lì che cerco la sua verità.
D’Arrigo aveva bisogno di quella (neo) lingua per dire quello che voleva dire. Non ostante alcuni momenti dove il romanzo, per me ben inteso, si involve attorno a un nulla linguistico che travalica il detto per farsi autoreferenza (e sono le pagine peggiori, perché si compiacciono della lingua dimenticandosi della verità, ma che restano splendide per l’arditezza del progetto) per me lettore alla fine ciò che mi resta, quelle che mi toccano, il mio nucleo più puro, è la vitalità di Ciccina Circé, la mano aperta del militare tedesco a Napoli, l’Orca (la morte che vive), i pellisquadra, le fere… Non so se c’è qualche pazzo che ha mai pensato di tradurlo (ma se hanno tradotto la Finnegan’s wake perché non tradurre Horcynus Orca?) quello che so è che D’Arrigo doveva scrivere in quel modo per poter dare corpo al suo mondo. Ma poi, il suo mondo, ha superato lo sforzo inaudito del parto e vive oltre i suoi stessi genitori.
Colombati (che è scrittore vero e entusiasta) del suo Perceber lo ha dichiarato in più riprese: l’eccesso di verbalizzazione, la colata espressiva, la macchina fantastica del suo romanzo, oggi, alla distanza, la vive come una armatura che ingessa il cuore autentico di certe pagine davvero sentite, davvero calde. Questa splendida dichiarazione di sconfitta è una vittoria critica dello stesso scrittore. La lingua da sola non basta, insomma. È condizione necessaria ma non sufficiente. (E la storia da sola non basta. E la struttura da sola non basta. Questo dico. L’essenza, se dobbiamo proprio cercarla, non sta lì).
3.
Scusate se parlo di me, ora. Non l’ho mai fatto. Ma Sartori, più di una volta, chiede lumi sulla bottega, e ha ragione. Dalle repliche al mio pezzo pare che la mia posizione sia quella di chi dice: la storia, l’intreccio, über alles. Chi se ne frega, poi, come la scrivo. Tanto la lingua è accessoria. Uso la mia bella lingua media, bella conforme, la storia vincerà comunque. Ma quando mai?
In Con la morte nel cuore, il mio ultimo romanzo, ho usato flussi di coscienza, capitoli in forma di sceneggiatura, grafici, neologismi, pagine grottesche, surreali, dialetti, lingue straniere, monologhi interiori, capitoli fatti solo di dialoghi, prose d’arte, citazioni poetiche, trivialità, aulicismi, anacronismi, collegamenti televisivi, elenchi numerati, sms, requisitorie, patetismi… ne avevo bisogno. Dovevo farlo così, era l’unico modo che avevo affinché riuscissi a far parlare la storia, a farla vivere. Se avessi utilizzato una lingua e una tecnica narrativa differente avrei ucciso il mondo che cercavo di creare. (Che poi io ci sia riuscito o meno, ovviamente, non ha importanza, qui).
Il mio prossimo romanzo, invece, mi ha chiesto una lingua, e una struttura, completamente diversa (me l’ha proprio chiesta, anzi: si è imposta), più piana, più sussurrata. E la scrittura che ne è scaturita è assolutamente differente. Se calassi dall’alto sempre e solo la stessa lingua (che sia essa piana o alta) annichilirei la storia o per eccesso di ridondanza o per evidente desertificazione.
(Non ho mai pensato di avere maestri. Uno però forse sì. Giovanni Michelucci. Che non ha mai costruito un’architettura che fosse uguale ad un’altra. Ma non per eclettismo. Ma perché sentiva il bisogno di rispondere adeguatamente alle richieste del sito, della funzione, del carattere architettonico, piuttosto che imporre il proprio stile riconoscibile ma omologante).
Per dire: chi ha paura della cosiddetta lingua media?
C’è una evidente differenza fra la lingua media usata dai nostri scrittori fino agli anni sessanta e quella utilizzata da quelli a noi contemporanei: la medietas a cui facevano riferimento i nostri predecessori era letteraria. Era una lingua falsa perché per nulla calata nella realtà linguistica della nazione. Era una invenzione di laboratorio, innaturale, per quanto elegante era mediocre. Nella polemica linguistica scaturita dalle pagine di Rinascita Pasolini lo diceva chiaramente: la distanza, verso l’alto o verso il basso, da quella lingua letteraria inautentica era il presupposto per la creazione di opere degne di attenzione.
Oggi mi direte, è la lingua televisiva che ha vinto e omologato il linguaggio. Non ci credo, mi sembra una faciloneria. Questa accusa, fatta a molti degli autori cosiddetti “cannibali”, questo dire: “vi siete dimenticati il latino e leggete solo i manga giapponesi”, mi sembra fortemente riduttivo. Non conosco scrittori più attenti alla elaborazione linguistica quali Scarpa, o Nove.
La lingua media di molti degli autori (molti, non tutti, ovviamente) a me contemporanei è, innanzitutto una lingua parlata, diffusa. Effettiva. Non è più una lingua media letteraria. È una lingua media vissuta. Siamo arrivati finalmente a coprire quel gap, tutto italiano, fra l’inautentico mondo letterario e “il resto del mondo”. Quel gap che nelle altre realtà nazionali era già stato coperto e aveva permesso ad Hemingway di scrivere, senza che questo vietasse a Faulkner di fare altrettanto. (Perché il bello dell’arte è che una cosa non esclude l’altra. Che la compresenza di mondi linguistici diversi non va a detrimento di nessuno).
Ci sono scrittori che questa lingua media la usano in sé, senza una vera coscienza, una vera elaborazione, una vera consapevolezza. Sono scrittori mediocri, ma di certo più autentici (per il loro disperato bisogno di “dire”) di chi usa la lingua media letteraria (elegante, ben scritta, falsa) e che vanno, in realtà, per la maggiore, anche nella critica accademica.
La fortuna critica di Piperno sta innanzitutto nel grado di riconoscibilità linguistica (media letteraria) che la critica ottuagenaria ha trovato in lui (il libro è, condivisibile o meno, indubbiamente “scritto bene”). E lo stesso mondo ha “stregato” (premiato, intendo) la Mazzantini, o l’ha criticata, proprio perché o riconosceva il modus operandi a loro confacente oppure perché non ne sopportava il lirismo esasperato e stucchevole (tutto dentro, però, a quel “scrivere letterariamente bene”).
Poi ci sono scrittori che usano la lingua media consapevolmente. Cioè è gente che è passata per le forche caudine della (propria) ricerca linguistica alta e ha deciso di impastare i mattoni con la materia del quotidiano linguistico. E lo fanno, appunto, consapevolmente. Sapendo cioè il rischio che si corre accettando una determinata lingua, ma anche sapendo che si può far nascere qualcosa che forse non ha più le stigmate del letterario, ma che (in potenza, ovviamente. I risultati, alla fine, sono quelli che contano) può, attraverso questa strada, far raggiungere una voce autenticamente propria. E se ci fate caso, la forzatura che ottengono con (e su) questa lingua è strisciante, sommessa, ma continua (e qui ci vorrebbero belle analisi testuali, da WuMing1 a Nori, del tipo di quella fatta da Scarpa su Covacich).
Questo per dire che io non ululo di disperazione guardando il panorama che mi attornia. Di fuffa se ne è sempre scritta. Se ne scriverà sempre. Non amo il lamentismo, non mi piace dire che oggi in Italia non c’è speranza alcuna. Perché di gente che fa, che scrive, e che scrive anche cose belle ne vedo molta. Scritture diverse, con approcci linguistici molto diversi. Storie, narrazioni, emozioni, pensieri, metafore potenti. Ci sono quelli che ho nominato, ma ce n’è una bella schiera: c’è il magistrale Voltolini paesaggista raffinatissimo, c’è l’epica di De Cataldo, c’è Evangelisti il costruttore di mondi, c’è Garlini lirico ed emozionante (e non parlo dei miei amici scrittori più cari, che sanno benissimo cosa penso dei loro romanzi).
Il bicchiere per me non è semplicemente mezzo pieno. Per me il bicchiere tracima. E ci bevo volentieri a questa fonte.
L’indice della discussione alla quale questo articolo appartiene:
– Massimo Rizzante, La patria dei luoghi comuni, in Nazione indiana, 10.01.06.
– Giacomo Sartori: Lo scrittore, il mercato, Piperno: ovvero del conformismo, vibrisse, 28.01.06.
– Massimo Rizzante: Storia o geografia del romanzo?, Nazione indiana, 01.02.06.
– Giacomo Sartori: La sciagura dei romanzieri italiani, Nazione indiana, 10.02.06.
– Andrea Inglese: La lingua provvisoria, Nazione indiana, 20.02.06.
– Gianni Biondillo: Una lingua che “dice”, Nazione indiana, 22.02.06.
– Ivan Roquentin: Gianni Biondillo: a proposito di una lingua che dice , 23.02.06.
– In Lipperatura, la discussione in calce a uno stralcio dell’articolo di Biondillo. 23.02.06
– Giacomo Sartori: La rimozione del problema della lingua: ovvero del conformismo, che qualcuno preferisce chiamare restaurazione, Nazione indiana, 24.02.06.
– Giuseppe Caliceti: Restaurazione e conformismo, vibrisse, 26.02.06.
– Giampiero Marano, Il regime della visibilità e la “poesia-problema”, Nazione Indiana (e absolute poetry), 27.02.06
Certi titoli ti fanno passare per un perfetto imbecille, alcuni riescono a dire esattamente l’opposto di quello che dice il pezzo. E non ci puoi fare niente. Non tutti purtroppo hanno il titolista del Manifesto. E forse non vogliono averlo: certi titoli da far cascare le braccia, evidentemente, attraggono il lettore medio dei quotidiani.
Questo è un ottimo pezzo e lo condivido quasi per intero: neanche a me “basta più” questo o quello. Ma non intervengo solo per assentire: è che mi sento in dovere di ringraziare chiunque parli del più grande e più trascurato dei libri, Horcynus Orca. Non se ne parlerà mai abbastanza. Sono anche lieto di quella dichiarazione di Colombati (non Colombari): mi attendo molto, ora che ha deciso di abbandonare l’armatura.
Approfitto del tuo intervento per dirti che sei un bravissimo romanziere. Sono un libraio (indipendente) e nel mio piccolo ne so qualcosa.
@ Gianni: “L’unica cosa che in effetti contestavo a Sartori era l’idea che l’essenza della letteratura stesse tutta nella lingua. A me non basta più. Questo non significa che ho con un colpo di spugna cancellato la sua centralità, con una malafede che mi è stata appiccicata addosso da parte di un commentatore che reputavo fosse più attento alle cose che scrivo.”
Non ti nascondo che sono perplesso (così come è vero che per uno scrittore doversi chiosare può essere penoso). Secondo me il pezzo era chiaro, e ti trovi a dover ripetere quanto hai già detto, in parte (e il mio è tutt’altro che un rimprovero, ma è certamente una constatazione).
Un’ipotesti riguardo il fraintedimento (come sai non è mia abitudine cavarmela a buon mercato, ma se si fraintende si fraintende) è che si perseveri con spontanea ostinazione nel ragionare per dicotomie/opposizioni/antitesi, e gli aut aut sembrano il naturale prodotto di qualunque genere di affermazione “chiara”: perché se è chiara è anche “netta”, e se è netta avrà un analogo e un opposto, e così via. Non mi riferisco a Sartori, ma allo svolgimento di un dibattito e a una certa forma mentis.
(riguardo tutto il resto, più che altro sul terzo punto, tornerò diffusamente)
P.S.: chiedo scusa per eventuali refusi
caro Gianni Biondillo, trovo molto interessante, anche se su certi aspetti non sono d’accordissimo, l’ultima parte del tuo intervento, quella sulla lingua. Ma lascio spazio alle folle, e spero che qualcuno apporti altra buona carne al fuoco. Alcuni commentatori hanno insistito sulla supposta pretestuosità e inutilità di questo dibattito. A me francamente – soprattutto se poi vengono fuori spunti di analisi di questo genere – non sembra proprio. Se qualcuno conosce degli spazi dove questi temi sono affrontati più seriamente, che li indichi.
E una precisazione: anch’io sono convinto, come te, come in fondo quasi tutti noi che siamo qui, che ci sono tanti scrittori italiani che valgono, anch’io non sopporto – e mi sembrava di averlo detto e ridetto – chi dice il contrario. Il problema è che quasi tutti questi scrittori – basta fare il confronto con gli altri paesi, sul quale mi permetto di insistere – sono terribilmente marginali. Nei confronti del pubblico, della critica, appunto, delle case editrici… E’ questo in realtà, che mi fa ululare. Che poi ci siano anche tanti scrittori meno interessanti, perchè no
gs
Ho come l’impressione che ognuno dica la stessa parola (lingua) ma non le dia lo stesso significato.
A volte mi pare di capire che qualcuno crede che quando si insiste sulla lingua si insiste su una lingua + aggettivo (media, elegante, ben scritta, falsa), e ho come l’impressione che si giri un po’ a vuoto.
I primi a occuparsi del linguaggio poetico sono stati i formalisti russi a cominciare da Slovskij, ma non l’hanno inventato, lo hanno visto all’opera negli autori e lo hanno definito e classificato.
Secondo Slovskij l’effetto di “straniamento”, cioè lo slittamento semantico che lo scrittore ottiene con i procedimenti espressivi, rende l’immagine nuova, liberandola dall’ AUTOMATISMO DEL LINGUAGGIO QUOTIDIANO.
Poi anche i formalisti cominciano a non essere più d’accordo, chi dice che il fattore fondamentale è il ritmo, chi le strutture dei versi, chi l’aspetto semantico.
E più “strumenti fondamentali” scoprono più posizioni teoriche si sviluppano (sono un po’ grossolana, lo so).
Poi arriva la scuola di Praga, Jakobson eccetera eccetera eccetera.
Ma si parla sempre soprattutto di linguaggio poetico, e questo potrebbe essere un alibi per dire che la prosa ha bisogno, o sopporta, una maggiore quantità di materiale standard, che presenta una transizione più frequente verso la lingua comune, quella per intendersi del manuale di istruzioni.
Perché allora non parlare più semplicemente di stile, cioè della voce specifica di ogni scrittore, nello stile, mi pare di poter dire, interagiscono le forme del contenuto e le forme dell’espressione. Dove non interagiscono la lingua, che è il coltello di dissezione del reale, non opera e non produce frutto, non crea quelo scarto la cui assenza che fa si che un’ opera di puro plot (Agatha Christie) ci emozioni meno, anche ce si fa passare pìiacevolmente del tempo, di un opera ad alto tasso di straniamento che penetra con maggior forza nella nostra sensibilità, (Melville?).
Per questa scivolata dallo standard allo straniamento non occorre che la lingua sia tortuosa, iperforzata, piena di neologismi invenzioni e lemmi astrusi, la lingua non è puro lessico.
Calvino opera questo straniamento? direi di sì, eppure non è Gadda.
Straniamento, insomma, non vuole dire stranezza.
quelo scarto!!
Insomma, scrivo come un cane, mi pento e mi scuso.
ELIO:
Colombari? Cazzo, odio il correttore automatico di word. Pensa che Michelucci era diventato Michelacci! Correggo subito, grazie. (e sì, lo so, fai parte del HO-FanClub)
PIER e IVAN:
grazie.
GIACOMO:
come scrissi qui su NI: “Ai margini non significa marginalità. Ai margini, sul confine, sul limine, in periferia, si addensano gli eserciti barbari. Dai margini si erodono gli imperi.” Bisogna avere fiducia.
TEMP:
già. (non che scrivi da cani, intendo…. non confondere!!!) ;-)
Gianni, non mi rimane che una cosa da fare, dopo questo articolo: andarmi a comperare i tuoi libri. Troppo che rimando e sono serio: non è una presa in giro.
Buona serata. Trespolo.
(evvaiii! Ho intortato pure questo!!!)
;-) G.
dite quello che volete, a me gb piasce. lui è come il crodino, piasce piasce piasce più più più.
bravo gb, se fossi una targa c’avresti la guida a destra.
Biondillo scrive:
“qui ci vorrebbero belle analisi testuali, da WuMing1 a Nori, del tipo di quella fatta da Scarpa su Covacich”
E perché non cominciamo a produrle, sistematicamente, autore per autore? Anzi, come già ho proposto: perché non intervistiamo gli autori su questo aspetto del loro lavoro, con domande puntuali e dettagliate?
guida a destra detto senza alcun riferimento soteraneo alla destra politica, me pare chiaro.
Luciano: abbe’!!!! ;-)
Alessandro: ma che vuoi ancora da me, il sangue? ;-)
Gianni, pensavo a un lavoro collettivo di Nazione Indiana (estesa ai suoi frequentatori, anche sporadici). Potremmo usare tutti questo spazio per proporre domande da fare agli autori, e poi decidere a quali autori inviarle.
“Lascio spazio alle folle”: ecco un buon motivo per ululare.
Gianni, ma se non mi piacciono vedi che casino faccio dalle mie parti :-)
Buona notte. Trespolo.
PS: certo che il fatto che sia ancora sveglio a quest’ora a scrivere ‘ste cose è veramente preoccupante…
…sulle traduzioni di Horcynus Orca forse sono in grado di dire qualcosa: nel 1961 la Mondadori, sulla base del primo capitolo dei ‘Fatti della fera’ (il titolo provvisorio del testo col quale D’Arrigo aveva vinto il premio Cino del Duca nel 1959) che era stato anche pubblicato da Vittorini sul ‘Menabò’ n.3 l’anno prima, aveva firmato alcuni contratti coi maggiori editori esteri per le traduzioni. Ovviamente, le difficoltà si fecero subito enormi. Inoltre, com’è noto, D’Arrigo ci mise del suo, quando dopo la fine della stesura (più o meno nel 1966) intraprese la revisione linguistica dell’intero testo aggiungendo poi l’inserto (quello fondamentale che va dalla pagina 1000 alla conclusione, dove ‘Ndrja se la vede col Maltese e realizza l’intenzione di gareggiare alla regata) che portò il romanzo a tre milioni di battute. (!!)
Quando nel 1974 arrivò il ‘visto si stampi’ quei contratti erano carta straccia: Marco Paolini si occupò della questione traduzioni: la versione tedesca naufragò dopo poche decine di pagine; la spagnola (sulla quale, con acume, D’Arrigo sperava molto) non andò mai in porto; di quella inglese si vocifera esistano alcuni capitoli e sarebbe interessante trovarli. Per un attimo si pensò addirittura alla versione in svedese: D’Arrigo, infatti, non nascose l’ambizione di essere candidato al Nobel (tanto che nel 1975, anno dell’uscita di Horcynus Orca, fece un viaggio a Stoccolma insieme alla delegazione mondadoriana per una mostra dedicata all’editore milanese in occasione della consegna del premio Nobel a Montale, autore dello ‘Specchio’ Mondadori).
Da allora non se ne è parlato più… ammetto che è bella l’idea che Horcynus Orca venga tradotto, ma in effetti bisogna ammettere anche che molti tra i migliori editori del mondo ci hanno provato (certo, 30 anni fa) senza risultati soddisfacenti…
Scusandomi per il parziale OT, ancora sull’Orca: qualcuno ha visto il film? com’è?
“(Non ho mai pensato di avere maestri. Uno però forse sì. Giovanni Michelucci. Che non ha mai costruito un’architettura che fosse uguale ad un’altra. Ma non per eclettismo. Ma perché sentiva il bisogno di rispondere adeguatamente alle richieste del sito, della funzione, del carattere architettonico, piuttosto che imporre il proprio stile riconoscibile ma omologante)”.
Usi spesso l’architettura, Gianni, per appoggiarvi argomentazioni di altro genere.
E tuttavia spesso i paragoni architettonici che fai contengono impliciti giudizi critici che quasi mai mi sento di condividere: Michelucci ha diversi periodi “stilistici”, abbastanza riconoscibili l’uno dall’altro per l’uso e gli stilemi del linguaggio.
La Chiesa sull’Autostrada, per esempio, è esattamente il contrario di quello che tu dici: si impone, al di là di qualsiasi esigenza di sito o funzionale, come organismo totalmente autoreferenziale, da prendere o lasciare in toto.
Del tutto diverso è il discorso per la Stazione di Firenze, naturalmente, che è di altra epoca.
Aggiungo di striscio che nella cosiddetta modernità la forma si fa contenuto, quasi sempre.
Cioè il contenuto risiede per gran parte nella forma secondo la quale si esprime.
Il che equivale a dire che questa distinzione aristotelica, se mai ha avuto un senso, da almeno cento anni non vale più: e giustamente il titolo che ti affibbiano di irrita.
Però il problema è che, a fronte delle vecchie categorie all’interno delle quali si inseriva l’arte, non sembrano essercene di nuove, utilizzabili con altrettanta semplicità e chiarezza.
Quando ero studente di architettura negli anni Sessanta, avevo professori interamente votati al modernismo (gli anti-modernisti erano stati letteralmente cacciati o emarginati dal movimento degli studenti nel 1963).
Questi professori ti dicevano, in continuazione, che se la forma non è NECESSARIA allora c’è FORMALISMO, cioè forma fine a se stessa.
Al contrario, ma più debolmente, dicevano che la funzione da sola, senza una forma che la interpeti e la esprima, non ti dà automaticamente architettura.
Rifiutavano non solo il concetto, ma la stessa parola “STILE”, in quanto, dicevano, presuppone linguaggi a priori: gotico, romanico, classico, rinascimentale, eccetera.
Non si accorgevano che il modernismo, che propugnavano come un metodo, a sua volta si appoggiava ANCHE su elementi stilistici anch’essi da assumere più o meno a priori, senza i quali il metodo avrebbe avuto ben poco senso.
Infatti, per esempio, una cosa che per noi studenti era assolutamente vietata, pena il rifacimento dell’esercitazione progettuale o la bocciatura all’esame, era disegnare un organismo che avesse, anche solo lontanamente, elementi di SIMMETRIA.
Concludo queste note sconnesse con una considerazione.
Quando si parla qui di ricerca linguistica nella scrittura ci si riferisce, di solito ai linguaggi che puntano al ridondante, all’invenzione, eccetera, e quasi mai alle ricerche “per levare” che puntano a ottenere il massimo dell’efficacia espressiva col minimo dei mezzi.
Questo credo sia un sentire comune.
Credo si senta in giro, inconsciamente, una specie di BISOGNO DI RIDONDANZA, come se i normali mezzi di espressione linguistica si fossero consumati, come se le parole d’uso corrente avessero perso il filo a furia di affettare realtà e argomenti percepiti come fasulli.
Come se il “contenuto” avesse contaminato la “forma”.
È accaduto altre volte nella storia, con andamento ciclico.
Il pezzo di Tashtego si attaglia perfettamente alla letteratura, i termini sono gli stessi.
Con l’unica precisazione che lo stile in letteratura non ha lo stesso significato che in architettura (gotico, romanico ecc.) perché con “stile” si intende la voce dell’autore.
Ma a parte questa differenza terminologica, ci siamo.
Se poi a forma sostituiamo “lingua” a forma, dire: “se la forma non è NECESSARIA allora c’è FORMALISMO, cioè forma fine a se stessa”, è come dire se la lingua non è economica, c’è formalismo, o anche fasullismo, inutile stranezza, (o inutile piattezza).
Beh, grazie per la bloggrafia sulla questione, ma un po’ mi secco a ripercorrere tutto. E’ da un po’ (troppo) che tira sta storia, no?
Comunque ragazzi, Gianni dice più che benissimo. (Ma già diceva benissimo fin dall’inizio e poi invece ognuno ha capito quel che voleva capire.)
E Temperanza fa un discorso molto ma molto serio e interessante (sul quale non metto parola per non fare invasione di blog; sul quale peraltro Temp dice benissimo; e sul quale da sempre “verterebbero” i miei studi se sapessi cosa vuol dire “vertere”, e ci ho fatto del resto nel secolo scorso la mia pallosissima tesi di laurea).
Ultimissima, polemiche fondamentali per me son tutte, anche quelle che son poi sbagliate sempre solo secondo un chi.
@temperanza
credo che lo stile sia lo stile, cioè un sistema di caratteri peculiari nel quale collettivamente si esprime un’epoca, al di là delle declinazioni particolari.
esiste il gotico di arnolfo di cambio, per dire, che è molto diverso da quello di un altro architetto, per restare nella metafora architettonica, ma sempre gotico è.
non si fugge allo stile perché non si sfugge all’epoca in cui si vive.
la crisi che viviamo da decenni è crisi delle certezze della modernità nella quale non ci sentiamo più a nostro agio e perfettamente identificati, anzi.
OT: Tash. Di Michelucci ne parliamo in separata sede. Ho avuto due fortune: di stringergli la mano e di scrivere un libro su di lui.
ciao, G. ;-)
scusate, solo un’ultima cosa:
un altro concetto su cui i professori di composizione architettonica insistevano molto era quello di SINCERITA’ STRUTTURALE: la struttura grazie alla quale un edificio si regge non deve essere mascherata, mai: al contrario, meglio sia sempre percepibile in modo evidente.
oggi per noi questo dettato è quasi incomprensibile.
@tash
Faccio fatica a far rietrare nello stesso stile Moresco e Baricco.
O Zanzotto e Bertolucci. O Valduga e Magrelli.
Qual’è lo stile che li unisce? Se c’è deve avere un nome.
La letteratura è una cosa più “sporca” delle altre forme di espressione, anche dell’architettuta che è una delle più sporche;–)
Credo che lo “stile” che ci accomuna tutti abbia ancora a che fare col modernismo, come tarda variante del Rinascimento.
Ma qual è si potrà dire solo quando ne saremo completamente fuori, dunque forse tra cinquecento anni.
@ Marco V
Del naufragio della versione tedesca si hanno maggiori notizie? Quale editore ci aveva provato? Il traduttore è anche incognito?
P.s.
Io ho sotto il naso una cosa graziosissima: un capitolo in tedesco di un’opera “giovanile” di Pizzuto!
bariccate????
@ Alessandro Canzian: non so se sia meglio intervistare gli autori o procedere “in autonomia”. Guarda che davvero parlar di se stessi è una sorta di maledizione per tutti (tra l’altro, storicamente parlando, qualche autore si è anche “commentato”, “criticato”, analizzato: ma sono in pochi, non credo sia una coincidenza)
Grazie, Ivan, se non altro per esserti accorto che avevo fatto una proposta.
In un attimo di orrifico deja-vu ho visto gli Indiani come un avatara multiplo di Rahel von Varnhagen
….Egr. Sig. Biondillo apprezzo quel che scrive..perlomeno quel che capisco…purtroppo non riesco a seguirla nella lettura fino alla fine..non ne ho i mezzi..! Ma una domanda..non crede che esser intellettuali porti all’obesita’.?
No, Mauro. Io lo ero già da ragazzino.
allora..se non e’ question di pesi …….probabilmente e’ la forma che fa’ la differenza..Uno è uno ed è uguale ad uno, e pure l’eleate ce lo sa, mentre nega dualità. !!
si è dilatato il carattere dei commenti?
in senso proprio, cioè sullo schermo.
a me sì.
@ Miku
.. non lo ricordo.. ricordo che contattarono Seix Barral, Du Seuil, la Collins, la Weindenfeld & Nicolson… e devo aver letto da qualche parte anche Rowohlt (tedesca? Non so). Ma prendi tutto con le pinze… non ho controllato… comunque so che D’Arrigo non incontrò nessun traduttore del suo romanzo… anche se proprio il traduttore tedesco ci provò, qualche anno prima dell’uscita del romanzo, perché aveva lavorato sulla prima parte in bozze consegnata dall’autore (quindi circa 700 pagine), ma lui non volle incontrarlo: le sue condizioni di salute era già pessime e l’umore… beh.. non poteva peggiorare.. ;) .. certo è che tre quarti del romanzo in tedesco esistono, ne sono certo.
Eppure, se stiamo parlando di uso consapevole della lingua, è con l’intenzione dell’autore che dobbiamo avere a che fare. L’intenzione. Quindi è l’autore che dovremmo consultare e interrogare: cosa aveva in mente quando ha usato questo particolare stile, registro, soluzione lessicale? Ribadisco che sarebbe qualificante vedere su Nazione Indiana conversazioni con gli scrittori su questi aspetti specifici del loro lavoro. Di Evangelisti molti dicono che “scrive male”, eppure è evidente leggendo i suoi libri che non ammucchia le parole a caso. E allora intervistiamolo su cos’è per lui la lingua, che rapporto ha con quel che racconta, come mai scrive in quel modo o quei modi. Facciamo domande su questo ad autori diversissimi tra loro, da Erri De Luca a Tiziano Scarpa, da Gianni Celati a Bruno Arpaia, da Simona Vinci a Isabella Santacroce, da Antonio Moresco a Valerio Evangelisti, da Luca Doninelli a Eraldo Affinati ecc. Se costa troppa fatica per un singolo, definiamo insieme un set di questioni da porre e prepariamo un questionario/inchiesta sulla lingua da spedire agli scrittori.
@ Marco V
Rowohlt, possibilissimo, sì. I tedeschi si muovono quasi sempre con grande tempestività: l’editore Piper pubblicò il Pasticciaccio nel 1961… e Ulysses poi, ne hanno scodellato uno già nel 1927 (!).
Secondo me, Alessandro, hai ragionissima.
Il problema, forse, sono molti degli scrittori italiani, che non è detto che abbiano tutta ‘sta voglia di aprire la bottega agli estranei. (evitando, al contempo, l’autocelebrazione).
E in ogni caso quello che bisogna fare e scriverli ‘sti benedetti libri!
;-) Ciao, G.
Sono d’accordo con Ivan: “parlar di se stessi è una sorta di maledizione per tutti”.
Anche per questo non chiederei mai a uno scrittore che ammiro di aprirmi le porte della sua officina: preferisco provare a farlo da solo, in sua assenza, col rischio (impagabile) di fraintenderlo a ogni pie’ sospinto; oppure aspettare che lo faccia lui di sua iniziativa, nel caso gli s’imponga come una necessità (Gombrowicz docet).
Mi resterebbero da interpellare tutti gli altri, ma a che pro?
P.S. Lo “Stefano” che ha scritto più sopra non sono io.
Secondo Mayakovskij, aprire l’officina e mostrare ai lettori i ferri del mestiere e il modo di utilizzarli era dovere dell’autore e del poeta. In altri paesi non mi pare che gli autori si facciano problemi, in questo senso. Si pensi a William Burroughs e a quanta attenzione dedicò a spiegare i metodi di composizione delle sue opere.
Biondillo nell’ultima parte del suo intervento dice delle cose secondo me estremamente interessanti sulla lingua degli scrittori italiani. Dice, per certi versi giustamente, che la lingua della maggior parte degli scrittori attuali non è più la “lingua media” degli scrittori del dopoguerra (si veda per es. “Lo stile semplice” di Testa), ma una lingua – delle lingue – che pescano nella lingua parlata. E ne tira poi delle sue conclusioni molto nette, che io personalmente trovo molto opinabili. Ma ripeto, l’insieme delle sue affermazioni nella terza parte del suo post (le prime due non aggiungano nulla, mi sembra, e come qualcuno ha fatto notare, a quanto aveva già detto) mi pare degno di grande attenzione. Se non sono intervenuto è perchè non volevo trasformare questo dibattito in un “duello” tra Biondillo e me (come lui ha ribadito la sua posizione, io potrei ribadire la mia, e via di seguito…). Duello che mi sembrerebbe estremamente poco interessante.
Il problema è secondo me, dove vogliamo arrivare con questa discussione. Vogliamo sentire il massimo di voci diverse? Vogliamo provare a sentire cosa ne pensa qualche critico? Vogliamo provare a sentire cosa dice qualche scrittore, cominciando magari proprio da quelli che fanno parte di NI (penso in particolare a Helena J., che io ammiro molto), e da quelli che qui in NI vengono spesso nominati?
[personalmente provo una vera e propria avidità – ben sapendo che vanno maneggiate con estrema cautela – nei confronti delle parole degli scrittori che mi interessano; la proposta di Canzian mi sembra quindi molto interessante].
Siamo d’accordo con uno spirito consistente nel mettere più carne possibile al fuoco? Vogliamo metterci nell’ordine di idee che le posizioni possono essere anche molto diverse, e che è normalissimo che sia così? Vogliamo dare pari dignità a queste posizioni diverse, invece di volerle subito negare e/o metterne in dubbio la pertinenza? Vogliamo metterci nelle idee che è indispensabile dare spazio e tempo a analisi anche molto divergenti, per arrivare a un vero e profondo confronto? Vogliamo favorire al massimo, proprio grazie alle nostre differenze di età e di formazione, che è la nostra ricchezza, il “lievitare” delle idee, l’arricchimento reciproco di voci e approcci anche molto diversi? Vogliamo favorire al massimo il dialogo e “le contaminazioni” tra le varie posizioni. Siamo o non siamo d’accordo che vadano evitate le schermaglie, che non portano a nulla? O preferiamo invece i duelli, vogliamo a tutti i costi che ci siano dei “vincitori”, dei “vincitori immediati”? Vogliamo a tutti i costi che una interpretazione abbia subito la meglio? Ci interessano i battibecchi?
Solo con la prima di queste due impostazioni – che per un blog, me ne rendo conto, è una grande scommessa – mi sembra che può venirne fuori qualcosa degno di nota. Qualcosa che riempirebbe un po’ quel vuoto che si ripercuote sulla superficialità di molti discorsi sulla narrativa italiana, e sulla stessa attività di molti scrittori odierni. Qualcosa all’altezza delle aspettative degli intervenenti – che spesso mettono lì dei commenti di altissima qualità, come è successo qui – in NI.
Si tratterebbe allora di trovare il modo – ma può essere molto più facile di quello che sembra – di chiamare altre voci a confrontarsi sul tema in questione, vale a dire la lingua (o anche più in generale lo “stile”, appunto) nella narrativa italiana attuale
gs
Sartori, mi spedisce il suo indirizzo e-mail? Ho del materiale da segnalarle in privato, a titolo di esempio del discorso che si può costruire. Il mio è alessandrocanzian@supereva.it. Grazie.
Ho letto con interesse la sua lunga digressione. Tra alcune cose stimolanti, mi ha colpito negativamente un passaggio, che per essere esplicito mi sembra ingiustificato, ideologico.
“C’è una evidente differenza fra la lingua media usata dai nostri scrittori fino agli anni sessanta e quella utilizzata da quelli a noi contemporanei: la medietas a cui facevano riferimento i nostri predecessori era letteraria. Era una lingua falsa perché per nulla calata nella realtà linguistica della nazione. Era una invenzione di laboratorio, innaturale, per quanto elegante era mediocre”.
Sono un cultore dell’opera e della figura di Beppe Fenoglio, la cui opera letteraria si è consumata in quell’arco di tempo che lei indica (“fino agli sessanta”) come produttore di una “lingua falsa e mediocre”. Questo non solo è eccessivo, ma profondamente sbagliato. Ora, le generalizzazioni sono sempre poco opportune, ma qui l’abbaglio è grande, e fare ammenda su quell’affermazione (nonostante Pasolini) è un semplice atto di giustizia per un uomo, Fenoglio, umiliato già in vita da troppi tribunali, e capace di produrre una lingua così alta che con Luigi Meneghello non possiamo che accreditarla della “virtù senza nome” che regala le opere immortali.
Mi scusi, Turco, ma Fenoglio non utilizzava la “lingua media letteraria” di cui parla Biondillo, che non si riferiva certo a lui. Il suo particolarissimo lavoro sulla lingua lo pone al di fuori di tutte le correnti del suo tempo. Anzi, in lui si realizza proprio quell’allontanarsi dalla “lingua media” in diverse direzioni: verso l’alto dei riferimenti classici, verso il basso dialettale e addirittura verso un’altra lingua (l’inglese), per trovare qualcosa di nuovo.
Questa non è certo “lingua media”:
“…il cane di guardia si precipitò al limite della catena, ululando. Enorme, trafiggente era la risonanza dell’abbaio ed essi fuggirono via e lontano, mentre la bestia continuava a latrare allo spettro-suono dei loro passi lontananti.” (da “Il partigiano Johnny”
@ Alessandro Canzian: ho provato a scriverti, ma il messaggio mi è tornato indietro. Il tuo materiale comunque mi interessa. Resta però il fatto che, se davvero si volesse avviare una riflessione su NI sulla lingua, la cosa dovrebbe partire da un numero sufficiente di persone, non da “due gatti”. Le polemiche attorno alle allucinanti posizioni della Gaetani(o sei con Baricco o non hai il diritto di aprire il becco), però, confesso, per la sconfinata ristrettezza e grettezza culturale prima ancora che su sul piano “politico”, mi demoralizzano molto. Anche perchè, con questo clima, diventa improponibile – mi sembra – di “accogliere” delle voci diverse.
gs
Mi scusi, Canzian, ma Lei non fa che ribadire quanto da me sostenuto, il che mi conforta. Ed il distinguo che noi andiamo a sostenere, Biondolillo proprio non lo fa, anzi. Il che giustifica una lettura quanto meno riduttiva di quell’assunto. Grazie comunque della risposta.
Mi associo allo sconforto di Sartori, ho letto anch’io con fastidio la sequela di modestissime polemiche che si è sviluppata altrove, ma queste fiammate non so più se di stupidità sociale o di maniacalità prima o poi si spengono, e magari si riuscirà a parlare ragionevolmente. Mi aggrappo, non solo per i destini di questo blog, alla convinzione che alla lunga l’erba buona la vince, o per lo meno non viene del tutto soffocata, e che più i commenti sono ragionevoli, per non dire seri, più la gente che va fuori di brocca o che deve autopromuoversi cerca altri spazi.
GUIDO. Scusa se non ho risposto subito, sono stato senza connessione per 3 giorni. Ma mi fa piacere vedere che Alessandro ha risposto per me, così come avrei risposto io.
Fenoglio è uno di quegli autori che, appunto, avevano a noia quella lingua artificiale. E proprio grazie a lui ed ad altri come lui che ci si è affrancati negli anni da quella lingua.
Tutto non si può dire. Quando si scrivo pezzi come questo si devono dare alcune cose per scontate, altrimenti si rischia il saggione di 8.000 pagine con 100.000 note a piè pagina!!!
(a proposito: mi chiamo Biondillo, non Biondolillo. E’ tutta la vita che sbagliano il mio cognome!) ;-)
ALESSANDRO: forza, dai… la facciamo o no questa cosa? Prenditi la responsabilità delle tue idee!!! ;-)
Grazie della risposta, e chiedo venia per l’errore sul cognome. Ne so qualcosa anch’io con vari Turbo, Lurco e compagnia (non) bella.
Io ci sono! Non mi sorprende questa cosa del mio indirizzo e-mail che rimbalza i messaggi: a me al momento sembra tutto a posto, ma supereva fa spesso le bizze. Quello non è il mio indirizzo privato, è quello “d’appoggio” che uso per il lavoro e per iscrivermi alle liste. Mi sa che lo cambierò. Ad ogni modo il “materiale” che volevo spedire a Sartori era un florilegio – messo insieme in fretta e furia – di dichiarazioni di scrittori italiani contemporanei sulla questione specifica della lingua. Dopo aver letto che gli scrittori italiani non aprono volentieri la porta dell’officina, mi sono venute in mente alcune interviste lette in rete nel corso del tempo e sono andato a cercarle. Alcune le ho ritrovate, altre no, comunque ho visto che diversi autori rispondono volentieri a sollecitazioni sullo stile, l’uso delle parole ecc. Ho montato un po’ di risposte dove secondo me si toccano punti importanti, e mi sembra che da quei punti potremmo partire per compilare un elenco di domande. Ora devo uscire, magari in serata sistemo quel file.
ALESSANDRO: giannibiondillo@hotmail.com
Devo dire che anch’io, dopo i commenti al post di Lello Voce, sono molto scoraggiato. Non so più se NI è il luogo e il contesto giusto per le conversazioni che ho in mente. Se un autore apre le porte del suo laboratorio ed è disposto a mostrare come usa i ferri del mestiere, ci sta accogliendo e ospitando in uno spazio suo, e nel caso di alcuni autori è una scelta non facile. Credo che chi la compie abbia diritto a che la cortesia venga ricambiata con un minimo di disposizione all’ascolto e con un minimo di civiltà.
Non dobbiamo farci sommergere dallo scoraggiamento. Gli sconfitti saremmo noi, alla fine.
;-)
Hai ragione, Biondillo, ma non è una questione di scoraggiamento, almeno per me, è una questione di noia, perché se si è costretti, come farò io d’ora in poi, a “stare bene attenti” a non sorridere, a non giocare, a non fare una battuta, a non fare un cenno privato in qualche modo a un poeta sulla sua poesia (e per fortuna Lello Voce non solo ha capito ma ha il senso dell’ironia) perché questo potrebbe portare a un parto plurimo e improvviso di stupidità, tu dimmi il senso che ha stare in rete. Allora meglio i vecchi rapporti scritti, orali e vis-à-vis, dove sai quel che dici e a chi lo dici e se un passante cretino vuol dire la sua gli dici cortesemente, guardi, vede quel rettangolo là in fondo? è la porta.
A me non piace chiudere, men che meno chiudermi preventivamente, ma la noia è un dittatore potente, almeno per me.
NI è un ottimo posto, a mio avviso, la noia non mi viene dal posto, e certe conversazioni, come dice Canzian si possono, anzi, si debbono fare anche qui, perché al chiuso si sono sempre fatte e si continuano a fare. Ma certo, a volte si perde la voglia.
ma sì, in fondo lo scoraggiamento, anche per quanto mi riguarda, è passeggero;
e l’idea di Alessandro C., è buona: quindi gli consiglierei di fare le cose con calma, e radunare e scegliere bene il “suo” materiale;
gs
Va bene, ci rimetterò mano, in realtà posso già dire qualcosa e proporre una sorta di riflessione, molto slegata. Sartori ha un approccio più sistematico del mio e può trarne qualcosa di più coerente. Finora, comparando le varie spiegazioni e dichiarazioni mi è sembrato di trovare due grandi questioni, due problemi di cui ciascun autore è consapevole e cerca di affrontare giungendo a diverse soluzioni, e credo che le domande da porre dovrebbero riguardare proprio quelle due questioni.
– il rapporto (o l’impasto, lo scontro, la sovrapposizione) tra italiano e altre lingue. Almeno per quel che riguarda la fascia istruita della popolazione, non viviamo più in una realtà nazionale monolinguistica o al massimo bi-dialettale (cioè dove si parla l’italiano e il proprio dialetto locale). E’ ovvio che ci sono sempre stati autori italiani poliglotti, e autori italiani che parlavano altre lingue e traducevano autori stranieri, ricavandone influenze. Svevo non avrebbe scritto in quel modo senza l’esposizione al tedesco e allo sloveno. Fenoglio non avrebbe scritto in quel modo senza l’amore per l’inglese. Ma oggi, con la globalizzazione sempre più spinta e l’entrata di prepotenza dell’inglese (o “una specie” di inglese mondializzato) nella vita di tutti i giorni, con la maggiore possibilità di viaggiare (mentre Fenoglio amò l’inglese da lontano e non andò mai in Inghilterra, oggi vai a Londra con nove euro!), il maggiore accesso a mass media in inglese (internet e tv satellitare entrano in sempre più case), la facile reperibilità di libri in inglese (Amazon ecc.), come cambia l’approccio dell’autore italiano alla propria lingua madre? In un’intervista Pincio dice che è arrivato a scrivere in italiano grazie al dover parlare inglese, negli anni in cui viveva a New York. Dover parlare una lingua straniera tutti i giorni lo ha reso più consapevole delle parole e gli ha fatto venire voglia di scrivere. In un’altra intervista Wu Ming 1 spiega di essere arrivato alla lingua del suo romanzo solista passando per il jazz, il vernacolo afro-americano e le pratiche di improvvisazione poetica diffuse tra i neri negli USA, e che il suo lavoro parallelo di traduttore ha avuto una grande importanza. Insomma, come viene reinventata la lingua letteraria italiana nell’epoca dell’inglese come lingua franca planetaria? Wu Ming 1 usa l’espressione “baciare la lingua altrui come quando ci si bacia”. Un amoroso meticciato, mi sentirei di definirlo. Altri autori invece, di fronte allo stesso problema, propongono soluzioni che sembrano diametralmente opposte (ricordo l’intervento di Tiziano Scarpa nel libro “Scrivere sul fronte occidentale”), però partendo dallo stesso presupposto: l’italiano non è più solo.
– la sperimentazione “non visibile” (o “lingua d’arte di secondo grado”, per usare una definizione di Tiziano Scarpa a proposito di “Fiona” di Covacich). Tutti gli autori di cui ho rintracciato dichiarazioni parlano di un lavoro sulla lingua che procede per piccoli straniamenti, a volte accorgimenti minimi e quasi impercettibili che però si accumulano, finché non ci si trova di fronte a una lingua che è mutata sotto gli occhi pagina dopo pagina, quasi senza che il lettore se ne rendesse conto. La descrizione più efficace è quella di Scarpa, ma ripeto che tutti gli scrittori vanno in quella direzione o trovano quel lavoro nei testi degli altri. Genna e Wu Ming 1 parlano anche di scrivere in versi e poi “rovinare” in parte questi versi (l’espressione è mia, non loro), “sbagliarli” aggiungendo o togliendo qualcosa, eliminando gli a capo per ottenere un testo in prosa. Una metrica nascosta, in pratica.
Evangelisti, descrivendo lo stile letterario di Jean-Patrick Manchette, fa l’esempio di una frase solo in apparenza normale: “Un attimo dopo lei non aveva neanche la forza per tenere gli occhi aperti, e la mandibola le si afflosciò. Sarebbe morta in pochi istanti se Terrier non avesse allentato la pressione, ma la allentò”, la disseziona facendo notare che il soggetto della frase “fluttua” in men che non si dica dalla donna alla mandibola di nuovo alla donna e infine a Terrier, e spiega: ” In sole due righe, un duplice cedimento della volontà di Cécile: nei riguardi del proprio corpo e di fronte a Terrier. Logica e consecutio temporum avrebbero voluto che tutto ciò avvenisse in quattro tempi, o almeno in tre. Ma a Manchette tutto interessa salvo che lo spreco di congiunzioni, e condensa il tutto in due sole righe, a prezzo di un fraseggio in apparenza sconnesso (…) Quando il procedimento è applicato, con cura maniacale, a un intero romanzo, frase dopo frase, paragrafo dopo paragrafo, il risultato è quello di una rarefazione vagamente straniante: precisamente l’effetto che l’autore si propone”. Evangelisti non lo dice mai in modo esplicito, ma si capisce che anche lui lavora in quel modo sulla sua prosa apparentemente molto piana.
Perché queste scelte? Riassumono drasticamente i Wu Ming in una loro dichiarazione: “Lo sperimentalismo è accettabile solo ed esclusivamente se aiuta a raccontare meglio. Se invece non è che il proverbiale dito dietro cui si nascondono mediocri o pessimi narratori, per quel che ci riguarda possono ficcarselo nel…”
Mentre le spiego ho l’impressione che le due questioni siano in realtà la stessa, ma non saprei spiegare perché. Ricapitolo: come risuona l’italiano durante e dopo l’esposizione ad altre lingue, inglese in primis – che tipo di lavoro cosciente sull’italiano letterario fa l’autore esposto a quell’influenza – c’è una sperimentazione linguistica anche nella letteratura più “narrativa” e raccontocentrica, solo che è meno visibile – questa minore visibilità è una scelta dell’autore, che calcola l’effetto non in base alla singola frase ma in base al testo nel suo complesso, che a volte rivela addirittura una metrica nascosta.
Gli autori di cui ho raccolto analisi, confessioni e dichiarazioni sono finora: Tiziano Scarpa (a proposito di se stesso e di Mauro Covacich), Giuseppe Genna (a proposito di se stesso e di svariati altri autori), Giancarlo De Cataldo, Valerio Evangelisti, Wu Ming, Tommaso Pincio. Come si vede sono scrittori diversissimi tra loro, eppure si rintracciano analogie. Questi autori affrontano gli stessi problemi.
Errata corrige: la frase era “leccare la lingua altrui come quando ci si bacia”.
Che schifo