Cronache Pavesiane/ Nessun morda (in tre atti)
Immagine,Goya
di
Francesco Forlani
Ouverture
In Dicembre, sfidando il tempo di una fila pazzesca e le paure delle autorità alle prese con la minaccia di una discesa in centro delle bande incendiarie della periferia Parigina, insieme a un’amica, sono andato a vedermi al Grand Palais la mostra dal suggestivo titolo:
“Mélancolie Génie et folie en Occident”
Di malinconico avevo ancora sul cappotto “Burberrys” , acquistato di seconda mano alla Roquette, solo i postumi del recente incontro col mio responsabile di conto alla BNP, Guillaume Lambert, che qui saluto. Eppure l’attesa fisica valeva quella psicologica, percorsa non solo da immagini di nuche davanti a me, ma anche dalla certezza che in quella stessa fila ci fossero più psicanalisti che a un convegno su Lacan.
Primo atto
Che cosa cercavano in quella mostra? Quale mostro che le infinite ore di sedute non avessero già rivelate? Forse le rappresentazioni che nel corso del tempo quel sentimento avesse provocato? E io?
Certamente non una risposta a qualcosa, convinto come sono che dopo i trenta e poi negli infiniti anta, l’essenziale si sveli attraverso l’interrogazione piuttosto che nell’asserzione, e allora in lungo e in largo, a braccetto con lei, ho attraversato uno per uno tutti gli spazi espositivi.
( A questo punto effeffe si sofferma su alcuni quadri, si guarda intorno, legge molte delle dotte citazioni e tabelle, percorre dall’antico Egitto al’antico primo novecento la mostra per un tempo complessivo di 45 mn)
All’uscita, tra un tiro di sigaretta e una boccata d’aria, il pensiero va a due momenti ben precisi. Uno all’evoluzione della parola che da Malinconia, passa al termine Accidia, poi allo Spleen romantico fino all’asettico “depressione”. E cosi’ decidevo che d’ora in avanti avrei usato la definizione inglese, seppure portata in auge da Baudelaire, non potendo esportare quella assai più bella, napoletana, appucundria, decantata da Pino Daniele. Depresso? No, grazie.
L’altra ragione di meditazione veniva invece dalla scoperta di un quadro di Goya, le signore, credo fosse il titolo. Vi si vedevano due “Sciure” piuttosto attempate e imbellettate, truccate in modo provvisorio e impreciso e completamente devastate dal tempo, non potendo il trucco velare quella insindacabile scadenza, il corpo più morto che vivo come travolto da una danza macabra che smascherava ogni forma di vanità.
La particolarità del quadro era che la malinconia non era il soggetto del dipinto, ma il sentimento provocato nello spettatore da una straordinaria messinscena del grottesco.
Bene.
Entracte
Secondo atto
Era da tempo che volevo andare al Regio e quando mio fratello, che qui ringrazio, mi ha procurato un invito alla Manon Lescault devo confessare che ne ero rimasto lusingato.
Prima di entrare, però, dovevo pur mangiare un boccone e cosi’ me ne sono andato in uno dei caffè di via Po, non distante da Piazza Castello, per partecipare a quell’indispensabile rito collettivo torinese dell’aperitivo.
E qui vorrei chiedere agli indiani torinesi o ai lettori di questa straordinaria città come cazzo è possibile che mangi trentamila cose, piccole cose, al prezzo di un Campari e un’ora dopo c’hai una fame della madonna? Certo lo so che come dice il nome, aperitivo, la funzione é quella di aprire per quanto la speranza dell’ottanta per cento sia di chiudere, ma così va la vita e perché lamentarsene…
E non potevo immaginare, anzi avrei potuto, ma non credevo ai miei occhi quando ho assistito alla scena seguente: una cinquantina di donne anni settanta, pardon, anni? Settanta! Vestite di pellicce lucide e nere- non so perché ma l’immagine che vi avevo associato era quella dei topi di fogna dai manti bagnati, che corrono lungo le banchine a sera a primavera- assiepate in ogni tavolo, sedia, ripiano disponibile e lanciarsi verso il tavolo del buffet con la stessa furia di un grappolo di giocatori di rugby in una mischia risolutrice. Il rosso dello smalto cadeva come intonaco tra i petits fours mentre tutto il locale era come tsunamizzato da espressioni veloci, alcune dialettali, dal digrignare di denti anzi di dentiere che nello scivolamento ingurgito di mortadelle scattavano come tagliole .
Insomma si ripeteva in “live” quanto visto due mesi prima. Prima che la malinconia mutasse in depressione ho pagato mi sono catapultato fuori insieme al mio spleen. Che cosa mi rendeva insostenibile la visione di quel quadro? La vecchiaia? La morte? Il loro divenire che in qualche modo mi riguardava e resuscitava l’idea romantica di qualche oscuro Werther di provincia prigioniero di un antico sogno romantico da “only the heroes die young”? E cosi’ sono sceso verso Piazza Vittorio consumando il tempo a disposizione prima dell’inizio dell’Opera con una passeggiata.
Terzo atto
Quando sono entrato a teatro il personale all’ingresso mi ha indicato il guardaroba e la scala da prendere. Ero tra gli ultimi ad entrare ma cinque minuti erano più che sufficienti per la spoliazione tanto più che le ragazze, decisamente belle , sistemavano, solerti sulle grucce i soprabiti.
E mentre una di loro riponeva con cura il cappello su un apposito mobile, mi accorsi con estremo stupore che sulle stampelle come rastrelliere giacevano le pelli del tempo, allineate e coperte come se le proprietarie fossero riuscite nel miracolo di liberarsi della propria età, degli acciacchi e di quell’idea di fine che deve rendere infernale la vita a parecchi.
Loro erano dentro a vivere con Manon Lescault una seconda ripetuta giovinezza ho pensato, sognando una morte simile, chissà, cioè cantando.
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Grande intervento effeffe. Lasciami citare, quanto ad accidia, Conrad, l’agente segreto, l’inossidabile signor Verloc.
“”Gli ozi del signor Verloc, per la verità, non erano igienici, ma lui ci si trovava a meraviglia. A modo suo, vi si dedicava con una specie di fanatismo inerte, o, forse meglio, con un’inerzia fanatica. Nato da genitori solerti ad una vita di fatiche, aveva abbracciato l’indolenza per un impulso profondo, inesplicabile ed imperioso, come quello che fa preferire a un uomo, fra mille altre, quella certa donna. Era troppo pigro per divenire anche solo un demagogo, un portavoce dei lavoratori, un dirigente operaio. Troppa fatica gli sarebbe costata. Aspirava ad una forma d’ozio più perfetta: o forse era vittima di una sfiducia filosofica nell’utilità di qualunque sforzo umano. È questa una forma d’indolenza che chiede e implica un certo grado d’ingegno, e il signor Verloc non ne era privo.
chiuse virgolette, grazie.
Confermi l’impressione avuta al nostro ultimo incontro di condividere con te l’amore verso alcuni maestri. Grazie
effeffe