Niente più culto dei morti nell’Italia del Novecento
di Christian Raimo e Nicola Lagioia
Io e Nicola eravamo stati amici – molto amici, stretti, sodali, soprattutto nei due anni in cui le cose stavano andando talmente a scatafascio che potevamo passare le ore a fare battute sarcastiche sul fatto che non avevamo i soldi per comprarci una corda da agganciare al soffitto.
In un’Italia divorata dalla crisi economica, nel maggio assolato e ventoso in cui per un periodo ci dividemmo un appartamentino a San Giovanni, le cose erano andate più o meno in questo modo: io ero depresso perché ero depresso e Nicola era depresso perché – fuori tempo massimo, nevrotizzato dai sensi di colpa – si stava sputtanando i pochi soldi che gli passava una web-agency facendosi nelle vene. Io lo guardavo con gli occhi abbacinati, abbozzavo meraviglia: preparare tutta quella roba lì, le bustine di cellophane, i filtrini di ovatta, il cucchiaino… Tutti i pulpiti su cui sarei dovuto salire per contraddirlo o almeno biasimarlo mi sembravano troppo alti, e del resto ero convinto che lui ce l’avrebbe fatta perché aveva una fidanzata, Betta, che nonostante tutto gli voleva bene, come lui era convinto che io mi sarei salvato perché avevo una famiglia che mi avrebbe fatto in qualsiasi evenienza da materasso protettivo; ma questo, appunto, non ce lo dicevamo.
Ora, come succede nei peggiori racconti, erano passati due anni e mezzo, e io ero tornato a vivere al Tuscolano con i miei, che è vero, erano sempre stati protettivi, ideologici nella loro concezione di famiglia – mia madre, ora in pensione, parlava continuamente di quanto fosse importante tenere unita la famiglia, qualunque cosa volesse dire. Nicola non avevo potuto vederlo per più di un anno, tutto il tempo che aveva passato nella clinica di disintossicazione, dove i medici gli avevano intimato di troncare con tutte le relazioni pregresse – le persone colpevolmente indulgenti – finché non fosse arrivato alla consapevolezza di essere pulito.
Così era successo che da un giorno all’altro, nel moto inerziale della coabitazione a San Giovanni, io mi ero ritrovato ad aver perso un amico, con la promessa vaga che sarebbe ritornato, e appunto ora, dopo il purgatorio, sembrava proprio che qualche nodo iniziasse a sciogliersi: Nicola veniva a trovarmi, si lasciava offrire un caffè dopo l’altro, e parlava, mi chiedeva scusa, spesso senza legami con qualche colpa chiara.
Nel frattempo, cos’era avvenuto? Betta era stata paziente, aveva contato le entrate e le uscite da questo centro di disintossicazione, e per non consumarsi nell’empatia dell’attesa si era trasferita per un anno a Lisbona a completare un dottorato in lusitanistica. L’anno si era consumato, lui e lei si erano rivisti scoprendo, senza nemmeno troppa meraviglia, che i tempi solitari nei laboratori di ceramiche o in biblioteche affossate dalla retorica della nuova Europa non erano riusciti a smentire il fatto che si amavano. Così si erano sposati, e adesso Betta aspettava un bambino.
Nicola era felice, questo pensavo, ma in effetti non era proprio così.
Anche soltanto pochi giorni dopo che si era istallato nella sua casa nuova, cominciò a farmi telefonate mattutine. Mi chiamava verso le otto e dieci, diceva: “Beh?”
Il sole della città si scioglieva, e io restavo in genere chiuso in casa, traducevo fumetti francesi e americani, chiacchieravo in chat e per mail con fumettofili sparsi in giro per il mondo con il pretesto di chiedergli delucidazioni su questo o quel termine. Nicola adesso era la voce che mi svegliava al mattino, mi interrogava sull’umore della giornata. E poi, dopo avermi domandato pro forma cosa sognavo, mi raccontava i suoi, di sogni. Si confessava devastato. Faceva sogni complicatissimi, articolati, interminabili, a spezzoni, che poi il riflusso onirico delle cinque del mattino provava a ricucire. “È cominciata la prima notte del viaggio di nozze, cioè io pensavo che fosse normale, il nervosismo, o tutto quello che c’eravamo bevuti, perché cazzo, sai che succede, succede che mi sogno Pinelli, non Pinelli mentre cade dalla finestra della questura ma i giornali dell’epoca, mi sogno Il Giorno che dice che ci stanno gli anarchici che sono colpevoli, mi sono sognato le assemblee nelle fabbriche con gli operai che dicevano: noi non facciamo più uno sciopero in vita nostra se questo deve portare a ’sto casino coi morti ammazzati. Mi sono sognato Camilla Cederna, che non so manco com’era fatta”.
Io trascorrevo le giornate a procacciarmi un lavoro serio. La mattina, dopo essere stato svegliato da Nicola, telefonavo in banca per chiedere se era arrivato qualche bonifico. La ragazza della Banca Etica era gentilissima al telefono, confidenziale, se mi sentiva col naso chiuso mi consigliava dei rimedi contro la rinite, ma ribadiva sempre: “No, mi dispiace, solo venti euro”. Mi ripetevo: diamoci da fare, e consideravo che mi sarebbe piaciuto essere coinvolto in un progetto di documentario sui produttori che avevano cambiato il cinema italiano negli anni ’60 e ’70 (Bini, Grimaldi, Rottieri), oppure fare il giardiniere come Chance in Oltre il giardino, oppure sfogliavo Porta Portese e mi segnavo annunci del tipo: “Cercasi pony express personale – compenso da concordare”. Da spararsi, insomma.
Mi sarei anche riadagiato in quella depressione che ti fa svegliare all’una e ruminare per mezz’ora sul sito di Repubblica dove qualche autorevole istituzione europea sentenzia con fare sempre meno indulgente che la situazione dell’Italia è sempre più disastrosa, se non fosse stato per Nicola che mi faceva la sua telefonata regolare delle otto e dieci: “Ho sognato Cicconi, hai presente il fotoreporter che seguiva Craxi dappertutto? Ho sognato che riceveva una telefonata da Hammamet e poi se ne andava in giro per Milano a scrivere sui muri: Craxi torna, perché Craxi gli aveva chiesto di farlo”.
“E… come va con Betta?”, chiedevo.
“Con Betta va bene”, diceva Nicola, “ma non lo so. Non capisco. Come cazzo devo fare, devo farmi vedere secondo te da uno psicologo?”
La mia esperienza con gli psicologi era stata fallimentare: mi presentavo sempre al primo colloquio perché era gratuito, piangevo, mi vergognavo della mia vita, la mia indolenza viziosa, mi aprivo del tutto, e poi la volta dopo non mi facevo vedere perché non avevo i soldi, o perché ero convinto che non mi avrebbero creduto a vedermi scoppiare in lacrime una seconda volta.
“Basta che non ti ricominci a fare”, rispondevo a Nicola, del tutto fuori luogo.
Nella mia testa i giorni passavano come dei granelli di sabbia grumosi che non trovano l’apertura tra i due coni di una clessidra. Dicevo di volermi liberare da tutto quello che mi paralizzava. E, non potendo pagarmi uno psicologo, mi appuntavo tutto su un quadernino: i tempi morti, le recriminazioni, i sottintesi, le pressioni psicologiche, i ricatti affettivi, i rancori repressi, le accuse velate, le ossessioni compulsive, le insonnie, i bilanci continui, le ferite non rimarginate, i nervosismi, le tensioni sottocutanee, i rimpianti, le relazioni coi fantasmi, le smorfie, i tentativi inutili di essere spontanei, le strategie meschine, le dinamiche guaste, le delusioni. La mia vita di rapporti sociali.
Poi una mattina pensai che per salvarmi dovevo occuparmi delle altre persone, e così anticipai Nicola e gli telefonai alle otto meno un quarto. Gli chiesi: “Oggi va meglio?”.
“No”.
“No?”
“Ho sognato un cadavere. Un cadavere, e non so di chi è”.
“Beh, dài, è tetro, ma è un sogno normale”.
“È il cadavere di qualcuno. Sta vicino Tarquinia”.
“Non ho capito”.
“È la seconda volta che lo sogno. È la seconda volta. Mi sogno un collettivo di gente, di qualche gruppo di gente che non si capisce se sono compagni, fascisti, massoni, che cazzo ne so, che stanno in una specie di bar del centro, e parlano, dicono di un amico loro morto, che non è stato sepolto, e che bisogna seppellire”.
“E allora?”
“Non so che cazzo devo fare! Sembra che si rivolgano a me. Nel sogno mi chiamano proprio, dicono, dobbiamo farlo fare a Nicola”.
“Fare cosa?”
“Seppellire il cadavere di questo”.
Mentre io da qualche tempo – nella vanità del tempo – ero ossessionato da quella che chiamavo la vita potenziale, dalle esistenze malauguratamente sterili in cui la possibilità del tutto non porta né a un’identità né, men che meno, alla felicità. Faust, Don Giovanni; gli altri come Goethe e come Kierkegaard che tentavano di esorcizzare il rischio di disperdersi concentrandosi in analisi filosofiche di questo genere di parabole di vita. Era Kierkegaard quello che mi spaventava di più. La sua storia d’amore inespressa con Regina Olsen che lo tormentò tutta la vita. Lui che dopo un anno le rimandò indietro l’anello di fidanzamento. Le scrsse una lettera “di un’inguaribile malinconia”. Per una misteriosa “spina nella carne”, aggiunse. Per il “gran terremoto” che aveva significato la morte recente del padre, il padre stimatissimo, adorato, di cui però aveva scoperto, dopo la morte, una terribile colpa, anche questa misteriosa.
Poi ecco arrivare un’altra bordata: Nicola mi aveva telefonato alle due di notte ma non mi aveva svegliato. Era da almeno un’ora che mi contorcevo su me stesso. Avevo provato a addormentarmi in tutti i modi, mi ero imbottito di camomilla, avevo buttato giù un aulin, ma l’unica forma di pensiero che mi era rimasta era una piastra nera che pulsava, un oggetto di cui non riuscivo a capire la provenienza mentale.
“Si chiama Pianesi! Danilo! Danilo Pianesi!”, aveva urlato Nicola. “Mi senti? Ti ho svegliato?”. Gliel’avevano detto sempre in sogno, gli avevano, come dire, presentato la salma. “Fatti una doccia, vestiti, ti passo a prendere tra mezz’ora”.
“Eh? La doccia?”, ero catatonico.
“Bisogna andarlo a seppellire, bisogna andarci mo’, stanotte”.
“Cosa?”, avevo detto, e l’unica cosa lucida che avevo aggiunto era: “E che le hai detto a Betta?”.
“A Betta, gliel’ho detto. Tutto”.
“Nicola”, avevo detto io, e mezz’ora dopo ero atterrato in una Roma pre-albore, popolata dai van che trasportano i giornali e dalla luce mielosa che pareva colare come resina dalle stelle scialbe del cielo metropolitano.
“Nicola”, gli avevo detto, “hai cacato il cazzo. Te lo giuro, ho un rapporto con la realtà che, okay, non è del tutto lineare. Forse sono ancora in depressione, forse sono semplicemente confuso, e anche tu evidentemente hai qualcosa che devi mettere a fuoco, ma ti prego, secondo me questa cosa, queste paranoie viziose ci mandano ai matti, finiamo a fare gli esplosi come tre anni fa”.
Lui era scoppiato a ridere ma poi aveva tirato su col naso, si era asciugato le lacrime, e: “Mic”, aveva singhiozzato, “non lo so se è vero che c’è un cadavere, non lo so perché continuo a sognarmi tutta questa gente, morti ammazzati, storiacce, Paolo Di Nella, Raul Gardini, i fratelli Mattei, Calvi, e ti giuro non me ne è mai fregato niente, non so manco chi cazzo è ’sta gente, nomi mai sentiti, Rumor, Nardi, mai avuta nessuna attrazione morbosa per complotti, cronache nere, non so perché è così, ma adesso mi devi accompagnare”.
Si era stampato da internet una mappa con tutte le indicazioni per arrivare a questo fantomatico posto che in realtà esisteva e si chiamava Porsenna, un paese scalcinato dell’alto Lazio dove si sarebbe dovuto trovare un bar con l’insegna “Lappy Caffè”, dietro il quale sarebbe dovuto partire un sentiero su cui, dopo circa un chilometro, avremmo trovato il cadavere. Tutto al condizionale, tutto secondo il sogno.
Mi ero messo io alla guida, lui mi faceva da navigatore. Sonnambulicamente, eravamo usciti da Roma sull’Aurelia, passando accanto al profilo marziano della discarica di Malagrotta e all’American Hospital dove mio nonno era morto di tumore due anni prima. Ero nervoso e mi sudavano le mani, un sintomo che si manifestava solamente agli esami dell’università o ai colloqui di lavoro, ma con Nicola restavo muto: avevo paura che la sua espressione spiritata si rovesciasse in una forma ancora più selvaggia, avevo il sincero terrore che da un momento all’altro arrivasse a confessarmi, che ne so, di essere guidato dal sogno ed ergo ci saremmo dovuti lanciare giù dal cavalcavia con la macchina in corsa.
Invece fece peggio. Poco prima di Civitavecchia, mentre già mi stavo abituando all’idea di passare semplicemente una nottata stronza fuori Roma, Nicola mi ordinò all’improvviso di svoltare per una stradina sterrata senza nessuna indicazione, io eseguii senza replicare e quando, dopo neanche cinquecento metri, venimmo succhiati dal buio denso della campagna romana, lui mi fece cenno di fermarmi. Accese la lucetta all’interno della macchina, poi si sporse dietro e tirò fuori una busta. E siringhe incellophanate, un cero rubato in qualche chiesa, un paio di lacci emostatici nuovi nuovi, cotone idrofilo. “È ero. Roba sì”, disse. “Ce la dobbiamo fare”.
Aveva la stessa espressione di un bambino ritardato che però la sa più lunga di te.
“Te l’hanno ordinato nel sogno?”
“Non ti sei mai fatto”.
“Non mi sono mai fatto”.
“E non mi hai mai aiutato a smettere, quindi”.
“Quindi che?”
“Quindi adesso ti buchi. È tagliata bene, è tranquilla”.
Traducevo fumetti americani guadagnandomi a mala pena i soldi sufficienti per i salumi in vaschetta che costituivano l’80% della mia dieta, molti giorni ero troppo pigro anche per gingillarmi in un dormiveglia di ricordi sempre meno a fuoco delle scopate magre fatte mesi prima, dovevo seimila euro al mio zio diplomatico che a giorni sarebbe tornato dal Mozambico: perché non dovevo assumere dieci milligrammi di questa polvere brunastra così apparentemente innocua, eterea come il polline di un soffione?
Nicola mi cercò la vena come avrebbe potuto fare mia madre da piccolo per iniettarmi la penicillina. Non disse niente tranne: “Niente, non ho neanche un cazzo di ricordo delle cose di quando mi facevo, c’ho solo il ricordo automatico del meccanismo, tipo che ti ricordi come si va in bicicletta, non so se hai capito”.
L’odore di fuori era quello di brace umida, i fischi della natura (vento, foglie, insetti) si andavano a incrociare con i fischi delle macchine che provenivano dalla parte opposta. La botta mi arrivò da sotto, come se la pancia venisse massaggiata all’improvviso da cento mani, come se una donna invisibile si accucciasse tra le mie gambe. “Non ti ricordi, non ti ricordi”, rideva Nicola, “non ti ricordi niente di quando ti fai, e cosa ti puoi ricordare, il colore del soffitto che hai guardato per due ore, o che cazzo di scarpe aevevi”. Per me, per il novellino, non c’erano referenti fisici di un piacere del genere se non memorie sessuali, cianografiche tattili di orgasmi remoti, forse dell’adolescenza, di quando il sesso è davvero l’accesso privilegiato al mondo reale. Dicevo a Nicola: “Bene”. Ripetevo: “Bene”. O anche soltanto: “Nicola”, veramente come quando scopi. E poi facevo domande slegate, dicevo: “Questo cos’è?” E poi ho detto: “Isacco”, ho detto, “era l’unico figlio, Isacco, veramente figlio di Abramo, e lui l’ha dovuto sacrificare. Cioè gli è stato chiesto di sacrificarlo, e lui ha detto sì. Si è alzato di buon mattino. Non ha tergiversato. Dio gliel’ha donato e poi gliel’ha chiesto esplicitamente: prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, quello che tu ami”, mentre Nicola girava la chiave nel cruscotto e ingranava le marce facendole slittare una sull’altra. Io non avrei saputo guidare: “Io non saprei guidare, adesso”, ho detto, “ma forse è solo questione di fidarsi, ma per fidarsi ci vuole Dio che ti chiede qualcosa, un Dio che ti abbia dato già la terra, e un figlio in tarda età, ma sto bestemmiando. Beeestemmio? Che faccio tutt’uno io che mi hai drogato e Abramo che gli viene chiesto di sacrificare il figlio”.
“Ti ho drogato?”
“Forse non avrò mai il coraggio di Abramo! Troverò sempre scuse! Soltanto però il fatto che ci sia, che sia esistito un uomo che abbia ascoltato la volontà di Dio e l’abbia messa in pratica, per me, dico, per me, è quello che mi dà coraggio, no? Com’è che dice, non quelli che dicono Signore! Signore!, ma coloro che fanno la volontà del Padre mio”.
“Pure noi”, ha detto Nicola, “potremmo seppellire non solo il tizio, potremmo seppellire tutto quello che ci capita a tiro. Tutto quello che ha bisogno di essere seppellito”.
La strada davanti ai nostri occhi magnetizzati era un rettilineo buio a cui però sembrava fossimo legati da un binario. Non avevo paura, non avevo assolutamente paura.
Il telefono di Nicola aveva preso a suonare ripetutamente ma, se pure registravo il fenomeno, lo squillo, non riuscivo a riconoscergli una funzione, era un allarme astratto. Nicola ridacchiava, guidava concentratissimo, come se la linea tratteggiata al centro della strada fosse qualcosa di divertente, e mi urlava un discorso accorato che aveva a che fare con qualche strage, non riuscivo a capire quale, Peteano?, Italicus? Stazione di Bologna?: “Guarda quanti sono! Sono venuti tutti qui per il funerale! Li senti?”, chiedeva a me, “li senti fischiare? Tutti?”. Io ero obnubilato, un sonno di nuvole che non era un sonno, facevo caso a dei pezzetti di vetro che erano sopra il cruscotto. Mi toglievo dei fogli dalla tasca e leggevo le cose che ci avevo appuntato.
Finché Nico cominciò a perdere colpi, volontariamente, non accelerava più, controllava la macchina ma lasciava che andasse per conto suo. Eravamo in un posto che non sembrava molto diverso dalla periferia romana, case basse modello borgata, e insegne di negozi enormi, ognuna diversa dall’altra. Ma non mi rendevo conto se quello che percepivo era fedele alla realtà o se riuscivo a sovrapporci ricordi miei, elaborati per l’occasione. “E Moro Moretti e Morucci? E Moretti Morucci Moro?”, rideva da solo Nicola. “Sta bene Curcio? Bisogna telefonargli e accertarsi che sta bene. Io scendo”, aveva frenato di colpo ed era saltato via dalla macchina, come se il sedile avesse preso fuoco. Io che facevo? O piuttosto, che cos’ero? Avevo problemi di autorappresentazione. Recepivo le informazioni con ritardo, l’avevo visto allontanarsi e avevo pensato che dovesse pisciare, e siccome anch’io dovevo pisciare, in cuor mio speravo che lui, il mio amico ritrovato, a quel punto, dopo che ci eravamo drogati insieme, dopo che lo avevo accompagnato a cercare un indizio di una sua follia personale, mi ricambiasse uno di questi favori: che pisciasse anche per me, mi liberasse dalla fatica di alzarmi e inoltrarmi nel bosco, e così, placido, mi lasciasse finalmente addormentare.
E così accade. Vista dall’alto, vista fuori di me, questa scena si colloca a circa 110 chilometri da Roma, a dieci da Cecina, a duecento metri da un maiale. Mi ero addormentato davvero, assorbito da una narcosi buffa e morbida, commestibile avrei detto. La temperatura era di 11 gradi, il nostro corpo ne registrava 25 perenni. Sognavo di aver prurito, oppure ce l’avevo sul serio. Nicola ghignava come un caratterista che ha finito il repertorio ma è ancora al pieno di energie. Mi scosse e mi svegliò dalla circolarità del sonno. Il suo telefono squillava, lui continuava a non rispondere, il drin era l’om universale, finalmente concesso a noi poveri umani. “Andiamo, uccidiamo, seppelliamo”, mi disse. E io: “Perché ha lasciato Regina Olsen?”, gli risposi, una domanda che era un avanzo del sogno.
Nicola mi disse: “Io non ho lasciato nessuno”.
Aveva in mano la stessa siringa con cui c’eravamo fatti poco prima, e un altro grumetto di roba in una palletta di quelle che vinci girando una manopola al luna-park. Avrei accettato di farmi di nuovo? Volevo farmi di nuovo. Invece lui mi trascinò, mentre io raschiavo il fondo dello stomaco: “Ora siamo amici, Nicola? Ora siamo o non siamo amici? Ti fidi di me? ti ho accompagnato dove volevi”.
Il maiale era legato a una corda che era legata a un recinto di filo spinato. Il buio, o forse la mia vista, lo faceva sembrare più piccolo di quello che in realtà era. Una bestia di qualche quintale stava dormendo davanti a noi in piedi. Era qui da secoli, pensai.
“L’ho trovato”, disse Nicola.
“È qui da almeno un secolo”, gli dissi, “guarda come è quieto”. Nicola preparò la siringa: adesso non era più un genitore solerte, era un medico, un medico in una situazione di emergenza, che si faceva luce con la luminosità ebete del telefonino per fare attenzione che l’ago risucchiasse la polvere.
Questo racconto, ispirato alla “Domenica delle salme”, fa parte dell’antologia Denadreide pubblicata da Bur
nicola che si fa nelle vene…
non ci credo manco se lo vedo…
minchia e che fine di merda che ha fatto se è lo stesso che si va a sedere di fronte a Pezzi a fare il gggggiovane.
@incredulo
Due noti criminali della banlieue marsigliese, come Kris Raimò & Nick Lajoie sono notoriamente capasci di tutto.
@ incredulo. tratto dal primo romanzo di nicola lagioia
“Sono successe molte cose dalla nostra ultima volta…”
Direi steso per terra, la stanza completamente avvolta nel buio, il braccio ripiegato sotto la testa a mò di cuscino.
“Io, per esempio. Con l’eroina ho chiuso per sempre”:
“Se in vita tua ti sarai fatto al massimo due canne”.
tra parentesi ecco, magari solo due canne è piuttosto utopistico, del resto come si fa a pensare che tutto quello che si scrive è vero (nel senso di reale, vero sì, certamente lo è).
comunque che storia! La avevo sentita alla radio, ma l’avevate letta (magistralmente – io ed una mia amica il “nicola hai cacato il cazzo” ancora ce lo ripetiamo nei momenti bui) fino ad un certo punto, immagino per motivi legati ai tempi radiofonici. e tutta la seconda parte, violentissima, è proprio reale. mi fa venire in mente tutti i “bucatini” del mio quartiere vent’anni fa, quando era pieno di fantasmi. poi sono morti quasi tutti.
Lagioia che si fa di eroina è come Nino Taranto che si fa di mdma…
Quando io l’ho conosciuto era a Scanno: la mia compagna era lì per lavoro e mi aveva detto che l’omonimo premio letterario quell’anno l’aveva vinto Nicola Lagioia con “Occidente per principianti”.
Alla fine eravamo lì su due sedie aspettando che la conferenza stampa ufficializzasse i vincitori – così vuole la legge stipulata tra mecenatismo e mass media.
Lui teneva “Alias” per le orecchie delle pagine e parlava veloce, come inseguito.
Si parlava di Castelvecchi e de il manifesto, poi anche di Scòzzari e della notte bianca voluta da Veltroni – sì, Dostoevskij è vivo e lotta con noi.
Poi.
Nicola stava spegnendo il cellulare o stava declassandolo alla modalità silenziosa – o stava schiacciando dei tasti a caso.
Il telefono fece un mezzo squillo e si spense.
Di botto cominciò a parlare delle riforme di struttura e della peggior borghesia del dopoguerra.
Mi diceva degli attacchi del governatore della Banca d’Italia Guido Carli al riformismo di Riccardo Lombardi.
Citava dati e ragionamenti sulla nota aggiuntiva alla relazione generale sulla situazione economica del paese di Ugo La Malfa.
Mi ricordava sorpreso e quasi impaurito i rapporti dei prefetti della Repubblica e il loro sostegno cieco agli spiriti animali del peggior capitalismo italiano, se mai ce n’è stato uno.
Mi diceva che loro hanno quasi sempre attaccato, che sono quasi sempre loro a decidere quando attaccare o fare pace.
Era ossessionato da ciò che succedeva: gli industriali e la finanza che agitavano lo spauracchio della sovietizzazione dell’economia, i piani segreti del generale De Lorenzo, le campagna di odio al politico portate avanti più o meno apertamente dalla stampa conservatrice e Giorgio Bocca che invece denunciava la situazione scrivendo: “il ministro Giolitti visita la Camera di Commercio e si assiste allo spettacolo indecoroso di gruppi presuntuosi e villani che trattano il ministro cinquantenne come se fosse un ragazzino venuto a lezione”
Nicola citava a memoria, rallentando appena per scandire meglio.
Poi tornava a parlare svelto: cavalcando l’ipertesto, diagonaleggiava in una serie di link semantici e d’archivio che a stento gli stavo dietro.
Era quasi mezzogiorno.
Partì la conferenza stampa e Nicola si fermò.
Di botto, un’altra volta.
Più tardi gli feci un’intervista video e la sera ci rivedemmo alla cena del premio, in cerca di vino e di vassoi ancora pieni.
Trovammo il vino – ce n’era a volontà – ma poco da mangiare; eravamo arrivati tra gli ultimi sia io e Monia, sia Nicola.
Gli invitati arrivati prima s’eran dati da fare e c’era rimasto poco anche se c’era tanto.
Nicola eseguì una breve incursione ai bordi del lago prima di tirar fuori l’armamentario giusto.
Ci siamo seduti per terra, anche se piovigginava.
When I’m rushing on my run
And I feel just like Jesus’ son
And I guess I just don’t know
And I guess that I just don’t know.
Nicola, non ho parole, sei uno stronzo. Non so nemmeno più dove cazzo sei finito su a Roma e quindi spero che leggi da qui. Fino a quando ti ho frequentato eri capace di cambiare vita come le magliette, quindi non mi sorprende più di tanto la sfacciataggine con cui lavi i nostri panni in pubblico. Il trasformismo evidentemente ce l’hai nel sangue – e infatti, pure quando andavamo ai concerti degli Ozric Tentacles quando venivano a Bari (il Camelot, ti ricordi, o hai la memoria corta pure per questo?) tu continuavi a romperci i coglioni con questa storia di David Bowie.
Ma una cosa è il trasformismo una cosa è sfruttare la tua storia e quella delle persone che ti sono state vicino. Bari, quartiere San Pasquale e quartiere Japigia. Perché – te lo devo ricordare? – mentre tu ti sei rimesso a posto e te ne sei andato a Roma a pararti il culo e Giancarlo (l’altra capa gloriosa capace di fare un frontale in motorino contro un tir e non farsi neanche un graffio) se n’è andato in Spagna. Mentre siete andati a spassarvela (te lo devo ricordare?) Giuseppe affondava nella merda, Cesaro faceva fuori e dentro dal Fornelli e tutti gli altri siamo stati ANNI a cercare di capire com’è che a un certo punto ci siamo fottuti l’adolescenza, te compreso. E invece, che cazzo fai? Non solo sparisci, ma poi sputtani tutto su un sito internet. E non mi interessa questa cosa della letteratura. Ma vedrai che i nodi verranno al pettine. Quindi rifletti. Per la memoria di tutto quello che è stato.
Mara
raimo invece se cala l’ostia da’ messa, ar massimo…
non vorrei postare un off topic, quantomeno credevo che quanto si scrive qui fosse inteso come commento dell’articolo o del racconto pubblicato.
invece a sto punto lo dico: che coglioni.
deve essere una prerogativa di alcuni lettori di questa rivista quella di commentare in modo sprezzante e spesso offensivo questo o quell’articolo o peggio ancora semplicemente insultare in vari modi chi l’ha scritto. basso livello.
a parte il fatto che personalmente trovo poco educato raccontare sta storiellina su un incontro (fantomatico peraltro) con lagioia sputtanandone le abitudini, e tanto per citare un altro caso che mi ha infastidito a seri livelli lo stesso vale per i commenti su “trovarsi in mezzo” di raimo in cui si tirava in ballo un episodio della sua vita privata che io, da lettore, avrei preferito non sapere visto il grado di intimità della cosa. per rispetto.
poi mi leggo sto sfogo di “Mara” che, boh, non capisco e trovo fuori luogo non per il contenuto delle cose dette ovviamente, chè non è affar mio, ma per il fatto di doverle leggere qui, pubblicamente.
ma al di là di questo: di che cazzo dovrebbe parlare uno scrittore se non di quello che gli è successo nella vita e delle sue esperienze?
@ciccioformaggio
ma se questa è la domenica dee salme… sor ciccio formaggio mio, bocca di rosa, arispondeme, chiccos’è? un panino co’ la mortazza? e via der campo? una porchetta d’ariccia cor vino bbono de li castelli? e soprattutto, ciccillo mio, pricesa cos’è? telo dico io, sor ciccì!, telo dice monno ‘nfame tuo, cos’è princesa! è un ber piatto traditore de matriciana… hai capito? hai capito bbene ciccì? una matriciana ar monno ‘nfameeeeee!
io sono d’accordo con groddek. qui nessuno vuole entrare nel merito di vicende personali magari anche dolorose, ma per la miseria, abbiate almeno il rispetto della vostra stessa privacy!
si rimprovera a una persona di aver reso pubbliche certe vicende, e lo si fa rendendone pubbliche altre! viva l’occhio per occhio!
non mi pare che in questo racconto vengano fatti nomi e cognomi, e come dice groddek, fin quando uno scrittore trae semplicemente ispirazione dalla propria vita vissuta non ci vedo nulla di diffamante e offensivo, anzi.
trovo molto più offensivo l’atteggiamento di chi conferma la veridicità di certi fatti che potevano voler essere presentati come frutto della fantasia.
Delinquere o derelinquere? Questo è il problema dei nostri due Amleti:-/
Ma insomma Lagioia è un ex tossico. Oh, finalmente questo giovin scrittore da salotto ha qualcosa di interessante da raccontare. Spero che sia verità.
secondo me state esagerando tutti, infondo questo è solo un racconto. e così andrebbe preso.
la questione non è quella di capire se la storia è vera o meno. eventualmente è quella di definire se questo testo valga qualcosa o, al contrario, se questo sia solo un modo come un altro trovato dal raimo&co di stuzzicare la curiosità di talune piccolissime menti…
in linea di massima, al caso, è meglio il gossip sui rotocalchi.
Nicola lagioia e raimo possono interessare solo in quanto gossip, caro ap, perché come scrittori/artisti semplicemente non esistono.
caro pedro, di raimo ho letto poco; e non mi esprimo per non essere superficiale;
ma su lagioia non c’è dubbio che sia uno SCRITTORE( un buon/ottimo scrittore)…
se poi la questione è ideologica( o pseudo tale): del tipo – non è uno SCRITTORE poiché “DA SALOTTO”, o meglio – perché secondo te “lagioa è uno scrittore da salotto(denotazione che sembra essere negativa, svilente, invalidante)”credo che questo modo di leggere i libri sia un tuo problema (che spero non sia generalizzabile).
p.s.
chiariscimi meglio il perché della tua “chiusura” caro (citami i testi magari* di codesti NON-SCRITTORI, evidenzia dove i loro LIBRI manifestano di essere dei NON-LIBRI . dove la loro LETTERATURA è una NON-LETTERATURA ) così mi convinci e faccio ammenda crocianamente!
magari hai ragione…
*se li hai letti ovviamente
il racconto che ho scritto io ed è stato rimasterizzato in un qualche modo da nicola lagioia è un racconto di fiction. fiction, nel senso più puro del termine. ossia effettivamente costruzione. è un racconto smaccatamente metaforico. un racconto scritto su commissione. addirittura per me quasi un racconto a tesi. se qualcuno ci vede le sue proiezioni su quello che faccio io o nicola nella vita, liberissimo. se vi interessa sapere se nicola si buca o meno quando leggete un racconto del genere, ok mi sento un po’ triste che uno scrive con ambizioni diverse. tant’è.
Rido, rido a crepapelle (per non piangere). Chissà quando si smetterà di approcciare a un testo con la lente del biografismo? Se non ricordo male Kafka scrisse “Il disperso” (o preferite “America”) ambientando la storia in America dove non ha mai messo piede: o c’è qualcuno che in nome dell’autobiografismo neccessario è pronto a giurare di avere visto Kafka in America?
Harold Pinter, nella sua “lecture” che ha scritto per l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura che ha ricevuto nel nel 2005 inizia così:
“In 1958 I wrote the following:
‘There are no hard distinctions between what is real and what is unreal, nor between what is true and what is false. A thing is not necessarily either true or false; it can be both true and false.’
I believe that these assertions still make sense and do still apply to the exploration of reality through art. …”
Probabilmente la causa dell’errore in cui cade il lettore sprovveduto leggendo l’intenso racconto di Raimo/Lagioia risiede nell’abitudine che ormai molti hanno di considerare la cronaca come letteratura e viceversa.
Non deve essere triste Raimo per questa cattiva interpretazione del racconto. Anzi, il contrario. Vuol dire che il racconto è riuscito bene, è realistico e non è privo di “pathos”. Lo stile è quello giusto per quel tipo di storia.
Ma anche se fosse stato tutto vero, o in parte vero e in parte falso, sarebbe andato bene lo stesso. La letteratura riesce spesso, con la sua reinvenzione e ricodificazione della realtà, a dire cose “vere” e utili alla società e alle persone più di quanto non faccia certa cronaca giornalistica o certa pseudo-saggistica.
Mannaggia, quasi ci speravo che Lagioia fosse un ex eroinomane.
i commenti hanno dato fastidio anche a me, ma concordo pienamente con la riflessione di a student quando dice che questa storia è riuscita nel suo intento, cioè quello di dipingere la scena in modo talmente reale e vivo da far pensare ad una sovrapposizione tra realtà e fantasia. e anche questo: non capisco il doversi fare tutte queste pippe mentali su quello che fanno i suddetti autori della storia nella loro vita reale, però da una parte capisco il tipo di curiosità che sta dietro a questo atteggiamento. personalmente mi trovo spessissimo a chiedermi chi sia la persona che scrive i racconti che leggo, nel senso più concreto del termine: cosa dice, con chi esce, dove va, cosa compra, cosa ascolta, in cosa crede eccetera. a maggior ragione quando lo scrittore mi piace molto, sempre se questo non sfocia nell’idolatria dell’autore o in una fissa su aspetti marginali che non hanno nulla o poco a che vedere con la storia raccontata.
adoro quella parte della storia in cui lui fa un discorso apparentemente sconnesso su Abramo che obbedisce e l’altro che “risponde” che vuole seppellire tutto quello che gli capita a tiro. mi tocca molto da vicino.
Lagioia fatte ‘na pera, i tuoi scritti ci guadagneranno. Raimo fattene due.
molto bello, davvero. La cosa più bella è stato illudermi che fosse tutto vero mentre leggevo.
Uno scrittore americano racconta la sua storia di droga e vende milioni di copie. Quando si scopre che l’autobiografia è romanzata, finisce alla gogna. Sicuri che “vero” sia più importante di “bello”?
“…a me sembra che gli americani abbiano un rapporto con la verità un tantinello fanatico. Senza arrivare a sostenere che la verità non esiste, insomma, come dicono a Roma, famo ai mezzi”.
PS: lo scrittore si chiama James Frey e il suo libro è “In un milione di piccoli pezzi”.
se non sbaglio, tanti anni fa, uno stronzo di nome arnold disse(scrisse)che all’arte non tocca la ricerca della bellezza ma della verità(che idiota!).
n.b. arnold non è arnold schwarzenegger.
infatti comunque purtroppo la colpa è degli americani, arnold l’aveva detto :-)
la Verità?
Uhm….pero’ in qualche modo l’arte ha attinenza con lo svelare, con il dire, esprimere cose inedite.
Quindi non dice forse tutta la verità, ma concorre all’espressione di qualcosa di vero. ma sembra piu’ un effetto collaterale che una finalità….
O no?
Egregi signori,
siamo nel 2006 ancora a scandalizzarsi per la droga.
Inoltre gli scrittori hanno quasi trant’anni ancora non hanno capito il vero riconoscimento che hanno bisogno di sostanze esterne a quelle provocate da se stessi?
Dopo parlare o discutere di depressione o droga è per gli spiriti deboli.
Forza e coraggio cercate di conoscere la realtà e la felicità che se ne ricava.
Auguri e buona ricerca.
Michele Simeone
il racconto l’ho trovato bello, di raimo e lagioia ho letto quasi tutto e quasi tutto quello che ho letto miè piaciuto davvero molto (soprattutto le cose di raimo, ma questo è un giudizio personale) il senso è che comunque non saprei dove appigliarmi nel dire che non sono scrittori.e mo’ se a uno gli piace fare salotto ma che cavolo di differenza fa? e poi sta storia del vero. io se devo essere sincera non ho avuto dubbi sul fatto che fosse fiction e mi hanno davvero sopresa i commenti. però sto fatto che il vero tira più del bello è indiscutibile, non lo so perchè, ma è indubbio che se tipo melissa p. avesse detto che il suo romanzo era pura finzione non se lo sarebbe filato più o meno nessuno e ora sarebbe a ingiallire con una copertina scrausa nelle vetrine delle edicole del mare. o vedi il colpo che gli è preso a tutti i fan di leroy come se il fatto che lui sia finto cambi qualcosa sui meriti dei romanzi. magari anzi apprezziamo la trovata pubblicitaria così un sacco di gente ha potuto dei leggere dei romanzi che meritavano di avere la giusta visibilità. (magari non vale per i cento colpi ma un giudizio personale anche questo).
in effetti tutto ciò fa un po’ strano, è vero. bisognerebbe che qualcuno ci perdesse su un po’ di tempo e tirasse fuori qualche ipotesi sul perchè accade, magari è sintomatico di qualcosa.non ci credo che è solo un problema di voyerismo
ma a nessuno viene mai in mente che anche i commenti siano “fiction”. Va bene la letteratura per le elite ma che solo voi…!?! :-)
Qualche giorno fa a radiotré ha telefonato una signora carinissima che diceva di aver nascosto il libro Giardino di cemento al figlio. Diceva che quasi sicuramente il figlio non l’aveva letto, ed era meglio così. Poi ha detto che il figlio è diventato scrittore. Poi che si chiama Christian Raimo. Boh, mi era sembrata una bella telefonata, e dico la verità, mi sono immaginato Raimo che frugava tra le cose della madre per trovare libri proibiti :-)
nico, ti sei iniziato a fare e non mi hai detto niente? mi havevi giurato che sarei stato anch’io della partita…
stronzo
Raimo, sarà la seconda o terza cosa che leggo di te su questo sito e ogni volta i commenti sembrano servire soltanto a rimuginare sul grado di veridicità di ogni singola parola, invece di commentare appunto lo scritto, il racconto o quello che è..
Ma non vi cascano le braccia di fronte a tanta stupidità?
Complimenti per tutto..
al di là dei giochi, sono perfettamente d’accordo con simone. sembra quasi che si stia scendendo al livello dei commenti sui libri di melissa p.: li hai fatti veramente sti pompini o no? io credo che i commenti dovrebbero riguardare solo la scrittura, mi pare che questo blog si ponga questo obiettivo, no? credo che dovremmo parlare solo del fatto che questo sia o non sia un bel racconto, e che lagioia si faccia le pere o no, sono solo cazzi suoi! vero finto romanzato a noi non deve interessare.
“Heroin, be the death of me
Heroin, it’s my wife and it’s my life
Because a mainer to my vein
Leads to a center in my head
And then I’m better off than dead”
Beh, qualche parola di verità un testo la deve indicare, altrimenti a che serve? Capisco che si apre un discorso un po’ incerto in cui tocca distinguere tra realtà e verità, ma l’incertezza a mio parere si risolve facilmente con un esempio: in “Guernica” Picasso dipinge una scena irreale ma dice delle cose vere sulla drammaticità di un bombardamento. Oppure Mattatoio numero cinque è un libro pieno di finzioni ma drammaticamente vero.
Usando questo criterio però, mi pare che questo racconto non sia certo straordinario, e forse Simone corre un po’ troppo.
Che qualcuno stabilisca di cosa è opportuno parlare o tacere quando si commenta un fatto della cultura, quale può essere un racconto, mi sembra davvero una soperchieria. Mi ricorda l’Umberto Eco degli anni novanta con la sua visione un po’ accademica e burocratica della funzione dell’intellettuale nella società. Si può parlare tranquillamente della forma, del contenuto e della veridicità o meno di ciò che è scritto. Il dibattito su quanto un prodotto letterario sia “poesia” o “non-poesia” mi sembra che sia una “croce” che ci siamo scrollati di dosso parecchio tempo fa. Non possiamo ridurre la nostra analisi, se proprio la vogliamo fare, a una mera dimensione estetizzante (racconto bello o racconto brutto).
Il dibattito invece sulla “fiction non-fiction” o sulla distinzione fra “memoirs” e “fiction” è molto americano. Attualmente negli Stati Uniti la gente si scandalizza se viene a sapere che un romanzo apparentemente “vero” (un “memoir”) poi alla fine si rivela “fiction”. Pare cioè che lì si preferisca il “memoir” e non la “fiction”. Da noi la situazione è più fluida e forse anche opposta.
Come è stato detto, anche una cosa non vera può parlare del vero e far capire la realtà. Mentre il cosiddetto vero spesso è ideologia, cioè falsa coscienza.
credo di essere stato frainteso. lo studente, secondo me, confonde l’oggetto della discussione. il problema della veridicità degli accadimenti narrati è diverso dal commentare la vita privata di qualcuno. io commento il racconto, non lo/gli scrittore/i. e onestamente sapere (e io lo so davvero se lagioia si fa, si è fatto o mai si farà le pere o no) quanto sia “vero” un fatto narrato non muta la sostanza. senza tirare in ballo eco, il ruolo dell’intellettuale e compagnia cantando, a me interessa quello che è scritto e come è scritto: per emozioni per stile per situazioni raccontate. scusate ma di che cazzo altro dovremmo parlare? se hanno avvistato lo scrittore nei pressi di termini a cercarsi una dose, se si è scopato o meno la scrittrice/amica/sorella/cugina/attricetta di turno? ci interessa sapere se è stato fotgrafato a pippare coca in qualche locale notturno, se gli è stato diagnosticato un tumore alla prostata? onestamente di queste cose mi piace parlare in altre situazioni. se su un blog viene messo un racconto io commento il racconto, senza nessuna concezione o dimensione estetizzante. scusate ma voi che cosa rispondete se vi chiedono “com’è quel racconto”? io personalmente dico innanzitutto se per me è bello o brutto. poi posso sciorinare tutta la saccenteria psuedointellettuale che possiedo, fare dei distinguo, criticare in maniera più o meno costruttiva, ma tutto deriva dal fatto che il racconto mi sia piaciuto o meno. se “una cosa non vera può parlare del vero e far capire la realtà”, credo che andare a contare i buchi sul braccio di qualcuno non serva come dibattito culturale. prendiamo il caso (tra l’altro secondo me affascinante e in pieno zeitgeist) di jt leroy. una bufala, il povero ragazzino prostituto non esiste. credete che cambi qualcosa in quello che è stato scritto dalla furba signora che si nascondeva sotto il nick terminator? per chi sprofondava nella lettura per come erano state (de)scritte quelle scene, per chi si è emozionato, per chi ritiene che queilli siano dei buoni libri, credete che cambi qualcosa adesso che la verità è venuta a galla? dopo la giornata di rosicamento per esserci caduto (ma le vittime a quanto pare sono anche illustri, cooper, waits, bono, corgan ecc.), credete che il lettore che amava la scrittura di jt leroy ora non la ami più? credo che quando raimo ha messo on line il racconto si aspettasse giudizi sulla scrittura e non i piagnistei di qualcuno, lo scandalizzarsi di qualcun altro, il gossip di bassa lega di qualche altro ancora. penso che la forza del racconto non cambi se veniamo a sapere che invece lagioia non sia affatto il tossicomane descritto, ma uno scrittore e un professionista con un senso del dovere, una regolarità nel proprio lavoro, uno che fa vita sana e volontariato due volte a settimana. ma se volete parlare di questo, basta seguire il maurizio costanzo show…