A Gamba Tesa/ Massimo Rizzante

STORIA O GEOGRAFIA DEL ROMANZO?

foto di Philippe Schlienger

Il cuore dell’Europa
Se esaminare un’opera artistica nel suo contesto nazionale può essere utile per comprendere le caratteristiche e la mentalità di un popolo, è assolutamente nefasto, direi perfino impossibile, limitarsi a questa pratica se vogliamo coglierne il valore. Ciò è vero sia nel caso in cui ci troviamo di fronte a un autore isolato, lontano dalle mode, sradicato dalla sua terra d’origine e riconosciuto solo post mortem, sia nel caso abbiamo a che fare con certe glorie locali che perdono ben presto una gran parte del loro carisma quando sono sottoposte a un criterio di valutazione che superi il coro della critica del loro paese.
Il contesto del romanzo è un contesto sovranazionale perché la storia del romanzo moderno è fin dalle sue origini sovranazionale.
Il romanzo moderno nasce in Europa, in Italia, in Francia, in Spagna, in Inghilterra, in Germania, in Russia, nell’Europa centrale, ma è soprattutto durante il XX secolo che esso supera le frontiere dell’Europa e s’impone in tutta la sua ricchezza e immaginazione negli Stati Uniti, in America Latina, in Asia, in Oceania, in Africa. Il romanzo moderno è nato in Europa, ma le sue frontiere si sono progressivamente spostate altrove: come se il cuore dell’Europa avesse cominciato a battere al di fuori del suo corpo. Nella seconda metà del XX secolo il lettore europeo ha scoperto parti del mondo molto lontane dal suo luogo di nascita. E ha potuto così attraversare alcuni paesaggi reali e immaginari tra i più affascinanti dell’arte romanzesca.

Penso alla città di Santamaría della Vita breve (1950) di Juan Carlos Onetti, all’Africa di Mr. Henderson, il protagonista del Re della pioggia (1959) di Saul Bellow, al villaggio di Macondo in Cent’anni di solitudine (1967) di Gabriel García Márquez, alla città di Bombay nei Figli della mezzanotte (1980) di Salman Rushdie, alla foresta dello Shikoku degli Anni della nostalgia (1987) di Kenzaburo Oe. Questi luoghi appartengono contemporaneamente alla geografia di un paese non europeo, all’immaginazione di un individuo insostituibile e alla storia europea del romanzo che ogni autore non ha necessariamente ereditato, ma conquistato a suo modo, varcando le frontiere spirituali del proprio paese. Se gli artisti europei sono sempre stati liberi di scegliere i temi, gli ambienti e le forme che non appartenevano alla loro tradizione – è la storia dell’arte moderna – perché mai un Onetti, un Rushdie, un Oe avrebbero dovuto limitare l’esercizio della loro poetica alle proprie fonti locali?

Il romanziere non europeo, se è veramente libero e creatore, è qualcuno che non ha bisogno di adottare una comunità particolare, di rinchiudersi all’interno di una minoranza linguistica né di rivendicare la propria appartenenza culturale contro la tradizione europea del romanzo. E il lettore europeo lo sa: il cuore del romanzo, già da più di mezzo secolo, batte regolarmente grazie anche ai frequenti spostamenti al di fuori del suo corpo.

L’albero del romanzo
Se oggi penso che la mia mela romanzesca italiana non vale né la polpa del mamey, che ho incontrato per la prima volta nelle pagine del romanzo Paradiso (1966) del grande autore cubano José Lezama Lima, né il corossol, questo frutto tropicale che si può veder gustare nell’opera del romanziere della Martinica Patrick Chamoiseau, Texaco (1992), non è solo a causa di un’irresistibile attrazione verso ciò che è esotico. È che questi frutti sono più concreti, più belli, più saporiti della mia povera mela italiana. Ciò non significa, d’altra parte, che l’humus e la linfa che li nutrono non siano gli stessi. L’albero del romanzo può produrre successivamente e allo stesso tempo, considerati i décalages storici che esistono tra le diverse parti del mondo (e la coesistenza di diversi gradi di civiltà nel mondo), i frutti più bizzarri nei luoghi più segreti: è un albero su cui gli innesti sono all’ordine del giorno.

Se il romanzo è un albero, il romanziere non aspira a coltivarlo. Non aspira al giardinaggio. Ciò che desidera è diventare lui stesso, concretamente, un ramo di quest’albero. Vuole appartenergli. Per questo s’arrampica come uno scoiattolo fino in cima al suo tronco, fruga come un uccello per anni e anni nelle fronde e negli anfratti più oscuri, sceglie con tutta la propria coscienza e la propria incoscienza i frutti più commestibili per la sua anima non ancora arborescente fino al momento in cui, scoperte le proprie ramificazioni esistenziali più intime, può finalmente vedere spuntare le prime gemme.

E quando è diventato finalmente un ramo di quest’albero, è inutile, attraverso uno studio puramente genetico della sua opera, cercare di rintracciare i genitori o di ridurre la sua complessità unica al luogo di nascita, al mito locale, alla storia di un paese, alla lingua, all’appartenenza al patrimonio spirituale di una nazione. Inutile anche ridurlo alla sua famiglia adottiva, composta dai creatori del passato e del presente che egli ha imitato o talvolta fieramente citato, disegnando il proprio nobile blasone.
Ogni nuovo ramo dell’albero del romanzo è una misteriosa messa in dubbio della sua genealogia.

Le province dell’esistenza

Sottolineando l’importanza del contesto sovranazionale del romanzo, non dimentico tuttavia l’apporto che ciascun paese offre all’evoluzione di quest’arte: tempo storico e spazio geografico si danno sempre appuntamento in ogni romanzo degno di questo nome.
Come comprendere il Decameron di Boccaccio al di fuori del suo amore per il motto, figlio a sua volta dell’amore fiorentino per la battuta arguta capace di relativizzare ogni verità e di rovesciare la serietà dei valori sociali prestabiliti? Ma mi domando anche: come comprendere le avventure nelle terre desolate della Mancha del celebre hidalgo il cui nome è probabilmente Don Chisciotte, senza tener conto che il riso che esse ci provocano non è più quello che sorge dalle farse medievali, ma già quello che proviene dalle novelle del suo precursore italiano?

Il romanzo è uno di quei rari luoghi protettori delle differenze storiche, geografiche e spirituali d’ogni paese. Ciascun paese vi ha, infatti, diritto di nazionalità, come, del resto, ciascun personaggio all’interno del romanzo ha diritto d’intervenire e di essere ascoltato. Ma il romanzo non è un tribunale. Nessuno ha ragione, anche se tutti hanno le loro buone ragioni. Questo è il principio che lo governa: ogni provincia, partecipando attraverso la propria lingua, le proprie risorse orali e scritte, il proprio immaginario popolare occupa un nuovo territorio del vasto impero romanzesco. Ma poiché i confini geografici di tutte queste province, avendo una storia comune, s’incrociano continuamente, ogni identità specifica è conservata e arricchita grazie al dialogo e alla comparazione con le altre. Così tutti gli abitanti dell’impero romanzesco possono essere dei re vagabondi: possono passare da un paese all’altro, da una città all’altra, da un villaggio all’altro come dei provinciali cosmopoliti.

Nel suo Ideas sobre la novela (1925) José Ortega y Gasset diceva che l’aspirazione suprema di un romanziere è quella di «isolare il lettore dal suo orizzonte reale e rinchiuderlo in un piccolo orizzonte ermetico e immaginario». Il segreto del romanziere è di fare di «ogni lettore un provinciale provvisorio». Nessun orizzonte è interessante in relazione alla materia trattata: essere re a Parigi nel XVII secolo equivale, dal punto di vista romanzesco, ad essere un vagabondo errante nelle campagne della Serbia del 1993. In altre parole: il romanziere, se vuole interessare un lettore sconosciuto, dovrà lui stesso rinchiudersi all’interno di una provincia: davanti a lui solo la forma del suo orizzonte e quegli esseri immaginari che sono i personaggi riempiranno le possibilità della sua arte. Romanziere e lettore: due provinciali provvisori, coscienti che ogni provincia è un cosmo.

I due appelli, 1993-1948

Nel 1993 Carlos Fuentes ha pubblicato Geografia del romanzo. In questo saggio l’autore di Terra nostra, afferma che la proposta goethiana di una letteratura universale non era che l’ultimo respiro di «un uomo del Rinascimento». Tuttavia questo ideale, secondo Fuentes, troverebbe ai giorni nostri una concreta conferma. Dopo due secoli di storia, due guerre mondiali, Auschwitz, i Gulag e la fine del comunismo, alla caduta irresistibile dell’eurocentrismo è subentrato un nuovo universalismo:

La letteratura mondiale di Goethe acquista infine il suo vero senso: è la letteratura delle differenze, la narrazione della diversità che, tuttavia, solo ora confluisce in un mondo unico, la superpotenza-mondo, se vogliamo esprimerci con un concetto che è giusto utilizzare nell’epoca successiva alla guerra fredda.

Nel 1948, proprio all’inizio di quell’epoca, Ernest Robert Curtius pubblicava Letteratura europea e Medio Evo latino. L’idea di letteratura che si respira all’interno di quest’opera proviene anch’essa dalla concezione goethiana di Weltliteratur. Ma in che senso? Per Goethe non esisteva una vera opposizione tra letteratura universale e letterature nazionali. Tuttavia quest’aspirazione all’universalità era impregnata dell’individualismo moderno e di un acuminato senso storico. Al tempo del Divano occidentale-orientale Goethe scrive:

Se si apprezza l’esotico, bisogna comunque guardarsi dal rimanere legati a qualcosa di particolare e volerlo considerare un modello. Non si deve pensare che questo qualche cosa possa essere la Cina o la Serbia o Calderón o i Nibelunghi… Tutto il resto dobbiamo considerarlo solo dal punto di vista storico e assimilarne, nella misura del possibile, tutto il bene.

E ancora:

Ci s’illude sulla possibilità di far fronte a tutti i fenomeni letterari, ma non va: si sceglie a caso in tutti i secoli e in tutto il mondo, ma non ci si sente dovunque a casa propria, il senso e il giudizio diventano ottusi, si perde tempo e forza. Anche a me capita la stessa cosa: me ne rammarico, ma è troppo tardi.

Tutta l’erudizione e la disciplina filologica che troviamo nell’opera di Curtius sono al servizio dell’idea di una storia comparata delle letterature che tenga conto, «nella misura del possibile», di ciò che è «bene» per un individuo singolo che non si fa nessuna illusione sui propri limiti storici. Proprio perché «non si sente dovunque a casa propria», egli desidera abbracciare, come dice Curtius, la «totalità della cultura occidentale». L’idea di Weltliteratur è un’aspirazione infinita. E tale dovrebbe rimanere. Il suo compimento, che noi oggi secondo Fuentes stiamo vivendo, non è perciò che la rivolta contro l’idea di Uno, contro l’aspirazione infinita all’Universale: la rivolta dell’uomo che vuole a tutti i costi sentirsi «dovunque a casa propria» e che, allo stesso tempo, si fa troppe illusioni sulla sua stessa libertà: le illusioni liriche di una rivolta.
L’appello di Fuentes ad «attivare le differenze» è diretto allo scrittore contemporaneo, questo «fantasma uscito dai sobborghi dell’eurocentrismo», perché parli in nome di tutti gli esclusi del mondo, perché ampli, grazie alla sua immaginazione creatrice, le frontiere della propria nazione, perché riempia «le pagine bianche della storia», ricordando ai suoi contemporanei che «noi non viviamo nel migliore dei mondi possibile». Ma mi domando: se oggi non viviamo nel migliore dei mondi possibile, non è forse anche a causa del fatto che abbiamo abbandonato ogni aspirazione all’Universale?

La preoccupazione di Fuentes è segnata dallo spirito della nostra epoca, cioè dalla tentazione geopolitica o geodiabolica, il cui entusiasmo lirico per le differenze rischia di distruggere ogni nozione storica di civiltà. Mentre si combatte per il bene delle differenze si cade nel male di non salvaguardare più nulla di comune. Tutte le opere importanti di un’epoca sono create sotto lo stesso cielo. Se si perde di vista la loro unità estetica – ciò che ci permette di farne la storia – non si può più veder brillare la loro originalità.
L’appello inscritto nell’opera di Curtius, pubblicata nel 1948, era l’appello all’Europa, a un’idea storica dell’Europa e dell’Occidente (i cui fondamenti l’autore rintraccia nel Medio Evo latino). Curtius diceva che in letteratura non esiste passato. Egli, fedele a Goethe, non voleva andare contro la Storia. Al contrario. Voleva solo dire che la letteratura europea ed occidentale è un’unità spirituale che «sfugge alla nostra osservazione quando viene frazionata in più parti distinte». «Tutto il passato è presente», affermava Curtius, riprendendo le parole del suo amico T.S. Eliot: tutto il passato è presente nell’opera.

Mi si dirà che tra il 1948 e il 1993 tutto è cambiato: la «superpotenza-mondo» si è talmente superpopolata, l’unità spirituale della letteratura occidentale è talmente «frazionata in più parti distinte», talmente «policentrica», la folla delle «differenze» si è talmente rivoltata contro l’aspirazione di un individuo all’Universale che è quasi inutile, se non illusorio, voler ritrovare un fondo comune. Eppure questo è stato lo sforzo di Goethe e di Curtius. Non è più il nostro. Bisogna almeno ammettere che noi non stiamo vivendo il compimento del loro ideale estetico.

L’arte degli addii

Che posso fare in quanto lettore se non comparare?
D’altra parte posso comparare in concreto un romanzo ad un altro se lo inscrivo in una geografia e non in una storia del romanzo? Posso comprendere le estetiche romanzesche di autori come Bellow (Stati Uniti) García Márquez (Colombia), Onetti (Uruguay), Fuentes (Messico), Lezama Lima (Cuba), Rushdie (India-Gran Bretagna), Oe (Giappone), Chamoiseau (Martinica) senza compararle tra di loro, ma soprattutto senza compararle con le conquiste formali della storia europea del romanzo moderno?
Il riferimento a Curtius, perciò, è un richiamo non solo all’Europa, ma anche alla critica letteraria, alla sua «parola decisiva», perché sappia distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto. Né la storia della letteratura, né i cultural studies, né la «geografia del romanzo» possono farlo.

Ma dopo la guerra fredda e la fine degli Imperi, che cosa resta dell’appello di quest’ultimo allievo di Goethe, capace ancora, grazie alla sua conoscenza storica e critica, di dire ugualmente addio a ciò che è morto nel passato come nel presente?
Alla fine del suo saggio, dopo aver illustrato diverse costellazioni del romanzo contemporaneo, Fuentes riafferma con vigore la sua idea:

Noi viviamo all’interno de cerchio di Pascal, dove la circonferenza è in tutte le sue parti e il centro in nessuna. Ma se siamo tutti eccentrici, allora siamo tutti al centro.

In questo mondo completamente rotondo dove tutti siamo eccentrici e tuttavia al centro, io non mi accontento di questa centrica eccentricità pascaliana. La comparazione tra due romanzi, tra due opere d’arte non può essere ridotta a una comparazione geografica, condotta con mille strategie contro la Storia, questa invenzione obsoleta e senescente di homo europeus.
Fuentes ci parla, ad esempio, del romanzo antillese di lingua francese, del romanzo indostano di lingua inglese, del romanzo africano di lingua francese e inglese, tutti in grado d’universalizzare, attraverso la lingua dei colonizzatori (spesso creolizzata), ciò che costituiva solo mezzo secolo fa, situazioni e condizioni umane reputate, a torto, marginali.

D’accordo. Bisognerebbe tuttavia sottolineare che la scoperta di nuovi territori della condizione umana compiuti da questi autori e l’apparizione di frutti inediti e completamente inimmaginabili mezzo secolo fa sono stati possibili grazie all’innesto di forme epiche e poetiche proprie di queste culture popolari sull’albero europeo dell’arte romanzesca.

L’aspetto linguistico, infine, non può essere considerato di per sé un valore. La «contaminazione dei linguaggi», «il policentrismo», «l’attivazione delle differenze» non sono degli elementi significativi dal punto di visto estetico. Se possono esserlo dal punto di vista geopolitico, questo è possibile solo quando il romanzo è ricondotto alle radici del suo albero.

Souvenir dell’impero

Un episodio di qualche anno fa. Mi ero appena alzato dal letto. Uscito di casa non avevo potuto rinunciare al caffè. Quindi al giornale. In una delle pagine letterarie si diceva che il premio Nobel era stato conferito a un autore giapponese: Kenzaburo Oe. Non sapevo niente di lui. La mia vanità, pizzicata dall’ignoranza, aveva prodotto uno strano suono acuto in fondo alla gola. Una delle prime dichiarazioni del romanziere era stata: «Devo molto a Rabelais».

Ancora oggi il messaggio di Kenzaburo Oe, dopo aver attraversato i secoli, mi giunge dalla provincia di un impero che non conosco e che allo stesso tempo conosco. Grazie alla sua eco, ritorno una volta di più con battiti regolari al cuore del problema: nessuna geografia senza storia, nessuna scoperta di nuove province dell’esistenza se non si colgono le misteriose genealogie dell’albero del romanzo. Nessun Kenzaburo Oe senza Rabelais. E viceversa.

Nota del Furlen:
Questo testo interviene in un momento di discussione (il dibattito no, il dibattito no) che si è sviluppato tra i commenti al testo di Milan Kundera da me pubblicato su NI.

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9 Commenti

  1. Un problema è che Massimo Rizzante conosce e cita testi poco frequentati in Italia, se non addirittura non tradotti (in questo pezzo forse nessuno, ma il problema riguarda il complesso della sua opera). Qui comunque il concetto è chiarissimo, ribadito ad abudantiam e del tutto condivisibile. Niente Oe senza Rabelais, niente Gassendi senza Cartesio (cfr. Deus Caritas Est, 5)!

  2. Giovanni, se non sbaglio, il solo testo non disponibile in traduzione, tra quelli di cui parla Rizzante, è il romanzo di Onetti.

    In secondo luogo, il fatto che i testi citati siano “poco frequentati”, se fosse vero, non sarebbe che la riprova che la letteratura italiana continua, come già in passato, a frequentare POCO la storia del romanzo, o meglio, i romanzi “dentro la storia del romanzo”.
    Non “troppo” poco, beninteso: POCO, e basta. Vale a dire che, secondo me, questa scarsa frequentazione non è un problema, come dici tu, neppure se si tratta soltanto di recepire il senso del saggismo rizzantiano, ma di un handicap culturale.

    La critica di Rizzante, in questo senso, potrebbe costituire un’utile infrastruttura per disabili della prosa. Per me, anzi, lo è già.

  3. Chiamavo problema un dato che avrei potuto qualificare come: pregio, merito, valore o altro del genere. Sai che sono d’accordo con quanto dici e quanto asserisce il mestre de gay saber Rizzante.

  4. @ Stefano.

    Juan Carlos Onetti è stato tradotto e pubblicato già negli anni ’60 e ’70 da Feltrinelli (La vita breve, Raccattacadaveri, Per questa notte, Il cantiere).

  5. Per questa notte è uscito che non è molto in tascabile Feltrinelli, qualcosa d’altro si trova da Einaudi.

  6. Sapevo delle traduzioni degli anni Sessanta e Settanta, Maline; il punto è che quei testi sono a malapena reperibili in qualche biblioteca qua e là, quindi non parlerei propriamente di “disponibilità”.
    Sapevo anche della riedizione di “Per questa notte”, Giovanni, giacché seguo il gigante Onetti come pochi altri autori e rimpiango la mancata ristampa e la difficile reperibilità dei suoi testi.
    Mi chiedo, del resto, quanti conoscano la grandezza “de facto” della prosa narrativa di questo autore quasi dimenticato, e anche quanti giovani scrittori sappiano riconoscervi, attingendone l’esempio, un modello assai più alto e fecondo di tanti piccoli maestri o presunti tali (come Carver o Auster, per esempio) ai quali i medesimi giovani si compiacciono, gaiamente accontentandosi, di richiamarsi.
    Anzi, ho smesso di chiedermelo di fronte all’evidenza dei fatti.

  7. E la nuova edizione di “Una tomba per Boris Davidovic” di Danilo Kis presso Adelphi chi mai se l’è filata?

    E gli ultimi romanzi di Kenzaburo quale editore italiano se li fila?

    E i diari di Miguel Torga?

    E Sylvie Richterova?

    E Rizzante?

  8. E Alejandra Pizarnik?
    E Daniel Varoujan?
    E Vincent Ravalec?
    E Ivan Arnaldi?
    [e la questione omerica, si aggiungeva ai mai abbastanza rimpianti tempi del ginnasio?[

  9. […] Massimo Rizzante è un (ottimo) comparatista, e nel testo pubblicato su Nazione Indiana (qui) ragiona da comparatista. A differenza del tassonomo, che classifica tutto, lottando anima e corpo contro la labirintica infinitezza del reale, e correndo a volte il serio rischio di prendere il proprio naso per una nuova interessantissima specie, il comparatista vola alto nei cieli. Con le sue potenti ali di grande rapace, che gli permettono di farsi un baffo delle ripide e perigliose scarpate che separano le varie vallette che incidono il paesaggio – punta con sicurezza sulle prede di proprio gusto: il suo acuminatissimo sguardo è rivolto alle prede più appetitose. Della fauna minore e dei vegetali che chiudono la catena alimentare nelle varie vallette gliene importa in fondo assai poco. Si potrebbe dire, con un’altra metafora, che la sua visione è quella di un raffinato gourmet, poco preoccupato di cosa si mangi nelle trattorie di second’ordine, sprezzantemente indifferente all’esistenza dei fast food. Ma le cose che dice il (sempre lucidissimo) comparatista Rizzante su Nazione Indiana sono sacrosante, oltreché dette molto bene, intendiamoci. Il cuore del romanzo che batte anche e soprattutto fuori dall’Europa che lo ha visto nascere, l’impero romanzesco con le sue province, la letteratura mondiale come narrazione della diversità… Bellissima e davvero azzeccata la metafora dell’albero e dello scrittore-ramo, belle e vere tante altre frasi che non cito, perché il testo è fulgido e ricco così com’è, e mi sembra un peccato tagliuzzarlo. In quanto lettore/fruitore, poi cercherò di spiegarmi, sono completamente d’accordo con Rizzante. Tra le altre cose concordo: guardando a un qualsiasi grande capolavoro, l’appartenenza a una lingua, a un luogo, e ancor di più a una nazione, perde completamente senso: “ogni nuovo ramo dell’albero del romanzo è una misteriosa messa in dubbio della sua genealogia”. I problemi però nascono – secondo me, che sono solo scrittore, e che quindi vedo le cose dal mio punto di vista pragmatico di scrittore – quando, abbassandosi vertiginosamente di quota, e cambiando quindi radicalmente di prospettiva, si entra nello specifico delle modalità della genesi di un determinato testo letterario (nella fattispecie un romanzo). Il testo letterario – quello stesso testo letterario che nel migliore dei casi potrà essere paragonato e messo allo stesso livello dei migliori testi delle altre lingue, entrando nella ridottissima crème della letteratura mondiale (in realtà solo di questa ci parla Rizzante) – nasce dalla scrittura di un individuo. Nasce da una lingua, quella di quel dato individuo scrivente, e molto spesso anche da un luogo, quello del medesimo individuo scrivente. Un luogo in senso lato, intendiamoci: al limite un’altalena tra luoghi molto diversi, una reclusione, un’emigrazione, un dispatrio, un esilio, un doppio esilio. Lo scrittore non può usare un’altra lingua, perché – lasciamo stare le rarissime eccezioni di scrittori bilingui o trilingui – il suo cervello funziona solo con quella lingua lì, e fa fatica a trascendere dal “proprio posto”, perché ha solo, o prevalentemente, quello. Dentro di lui c’è solo, o prevalentemente, quel posto lì (strutturato – nel suo cervello e nella sua psiche – è inutile dirlo, dalla sua lingua): questo è il motivo per cui molti scrittori nei loro testi ritornano ai luoghi dell’infanzia e della giovinezza. Il nostro scrittore può aver viaggiato moltissimo – materialmente o con il suo mezzo di locomozione di predilezione, la lettura – può aver frequentato molte altre lingue – nella vita di tutti i giorni o nel corso della sua attività preferita, la lettura – ma resta pur sempre inchiodato alla propria lingua e al proprio luogo. Il quale, ripeto, può essere anche un luogo plurimo, o un coacervo di luoghi, al limite un augeriano non luogo. [Questo legame geografico è tanto più forte in Italia, dove l’unificazione dei microcosmi regionali è un evento recente, e che per certi versi è stato digerito solo a fatica e molto lentamente. Non a caso molta della nostra narrativa, e non solo quella passata, presenta – come si sa – spiccati caratteri regionali.] Resta insomma legato alla sua storia personale, che si intreccia a quella dei luoghi dove ha vissuto e, soprattutto, alla tessitura/spessore/tonalità/inclinazioni della lingua nella quale si esprime e che, si potrebbe dire, lo costituisce in quanto essere raziocinante, immaginante e scrivente. […]

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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